“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 29 October 2013 01:00

L’ultima crapula

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“Si è ciò che si ama. No?”, certo anche quello che mangiamo, ma a livello di midollo emotivo e materia cerebrale siamo ciò che amiamo, siamo le nostre passioni, per questo è importante scegliere con cura le proprie passioni, e per questo il più grande favore che ci offre la cultura è proprio la libertà di scelta: “riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no. Riuscire a decidere che cosa venerare”. Dato che l’ateismo non esiste, è importantissimo saper decidere e imparare a pensare; l’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo. Questo, in buona sostanza, diceva David Foster Wallace in Questa è l’acqua rivelando una grande verità, con la V maiuscola, che riguarda la vita prima della morte e il reale valore della cultura.

Il fatto è, però, che una triste patina fuligginosa si è frapposta tra la cultura contemporanea e coloro che da lei vorrebbero attingere midollo emotivo e nutrimento cerebrale, e la decisione su cosa scegliere è diventata un lavoro difficilissimo. Non si può non constatare una latitanza di intenti supportati da chiari principi organizzativi per i quali si sia disposti a spendersi. Se il compito di un’artista dovrebbe essere quello di affondare l’anima nella solitudine per poi riemergere e imbastire un dialogo fra esseri umani, ecco, a me sembra che tra i contemporanei siano davvero in pochi quelli che riescano a farlo per poi offrire un qualcosa sul quale valga davvero la pena indirizzare la nostra scelta consapevole.
Questa è la risposta alla domanda che qualcuno si è posto e qualcun altro potrebbe porsi nell’apprendere della recente pubblicazione di Di carne e di nulla, una raccolta ‘non fiction’ di articoli e interviste di David Foster Wallace. Il fatto è che in questo autore tutto obbedisce ad un’urgenza espressiva elaborata, predigerita e donata al lettore con un’organizzazione narrativa oserei dire materna. Un autore attento e premuroso con i suoi lettori, che ha lavorato molto duramente per allontanarsi dalla tentazione di ricorrere ad esercizi avanguardistici fini a se stessi al solo fine di far emergere la sua intelligenza. Certo, quello che ci vuole comunicare molto spesso richiede un certo sforzo da parte nostra, ma Wallace non dimentica mai che per far compiere certi sforzi ad un lettore lo si deve convincere con le lusinghe, in modo che quel sacrificio diventi non solo volontario ma fortemente bramato, come una vetta inesplorata da raggiungere; è come quel concetto di “stimolare il pendolo dell’indole mediante la spranga dell’eccesso”, no? il bastone e la carota, per intenderci, metodo universalmente valido per superare i nostri limiti.
Ecco il perché per molti suoi lettori questo libro rappresenta un’ultima, attesissima, ‘crapula’, termine molto amato da DFW oltre che, come ricorderete, da zio Paperone.
Le tematiche affrontate sono tante. Si parte dall’Aids, malattia vista come un nuovo ‘drago’ che si frappone tra il cavaliere e l’erotismo, da dover affrontare non certo andandogli incontro spavaldi, disarmati e insultando sua madre ma che, probabilmente, in quanto ostacolo e freno ad una sessualità esclusivamente e monotematicamente copulativa, forse ha fornito un contributo per aumentare il voltaggio erotico della vita contemporanea: “altro che Armageddon. Grazie all’Aids, stiamo allargando la nostra immaginazione a ciò che è ‘sessuale’. Nel profondo sappiamo tutti che la vera attrattiva della sessualità ha a che fare con la copula più o meno come il fascino del cibo ha a che fare con la combustione metabolica, La vera sessualità riguarda, in definitiva, l’immaginazione”. Quindi, grazie al drago, stiamo scoprendo che il sesso può avvenire in tantissimi modi dimenticati e trascurati, sfiorando parti che non sono genitali, nella sfumatura di una conversazione, in un’espressione, nella pressione esercitata stringendosi la mano (!). Dobbiamo davvero affrontare questo drago, ma il drago, in cambio, può aiutarci a imparare qualcosa di nuovo, e cioè cosa significhi essere veramente erotici.
C’è poi un saggio su Terminator 2, intitolato L'importanza (per così dire) seminale di Terminator 2, ma, non avendo visto né Terminator (a suo dire uno dei migliori film d’azione degli anni Ottanta, che a questo punto dovrò recuperare, prima o poi), né Terminator 2 (uno spaventoso tradimento a Terminator, del quale, quindi, potrò evitarmi il recupero), non posso dirne molto.
Ma soprattutto, in questo libro, si parla di letteratura, del perché si scrive, di quali dovrebbero essere i fini di una buona narrativa e di quali sono i mezzi e gli strumenti per raggiungere questi fini senza tradirli. Un unico filo conduttore collega saggi diversi, scritti in tempi diversi ma che portano avanti un discorso sul quale vi consiglio vivamente di far cadere la vostra scelta consapevole, proiettandovi su di lui come antenne perfettamente sintonizzate.
Chi scrive lo fa per soddisfare un bisogno, una necessità che scaturisce dal ‘panico a doppio vincolo’ provato dalle persone che trascorrono molto tempo dentro la loro testa, perché percepiscono il loro mondo interno come ambiente non solo più congeniale ma più reale del “grande Esterno della vita sulla terra”, da qui il bisogno di esprime “parole & voci – tirandole fuori dalle ossa che le generano & le imprigionano”, dall’altro lato del vincolo c’è “l'insicurezza ontologica”, quella pressione costante che porta chi scrive a fregarsene di pudore e timidezza, un IO ESISTO urlante che riesce ad affermarsi solo apponendo la propria firma ed imponendo le proprie cose a parenti, amici e sconosciuti. Poi c’è anche il discorso sul piacere: quando si inizia a scrivere lo si fa principalmente per piacere, non ci si aspetta che qualcun altro legga; “scrivi quasi esclusivamente per farti una sega”, e la cosa bella è che funziona e ci si diverte da morire. Poi se le cose cominciano a piacere agli altri e si comincia a vedere pubblicato e recensito il frutto del piacere allora succede una cosa assai pericolosa, la nobilissima motivazione onanistica viene soppiantata da quella (molto meno nobile) di essere apprezzato e ammirato, anche perché questa cosa comincia a produrre degli effetti tangibili molto allettanti: soldi, fama, rimorchio facile etc. Ma quando la vanità supera una certa dose consentita, allora si comincia a scrivere solo per essere apprezzato e il risultato è “una schifezza di narrativa” e l’unica uscita possibile è quella di tornare all’onanismo il prima possibile.
Il discorso continua sulla narrativa partorita dagli “scrittori Vistosamente Giovani” del tipo: Ellis, McInerney, Janowitz, Leavitt, Simpson e Minot, e si parla di un’inversione di tendenza della critica nei loro confronti, critica che dapprima ha contribuito a creare un’infinita litania di divetti del racconto e poi, avendone le tasche piene, li ha liquidati come “epidemia di scrittori usciti in serie dalle scuole che affligge le nostre pagine (...). Sembra di camminare in un cimitero prima che mettano le tombe”. Dopo aver constatato la veridicità della principale accusa, ossia circa l’uniformità soporifera che investe quasi tutta la scrittura giovanile contemporanea, Wallace si addentra nelle ragioni e nelle colpe non tralasciando, ovviamente, il ‘fattore TV’ che ha influenzato non poco il modo di essere e, quindi, di scrivere di questi scrittori, basti pensare alla diffusa abitudine di descrivere i personaggi attraverso le marche e a quello che consumano al punto che “la fedeltà ad un marchio è una sineddoche accettabile di identità, di carattere”. È naturale che, se si ammette che la televisione è una forma d’arte narrativa piuttosto misera che non si sforza di cambiare, illuminare, ampliare e ri-orientare, ma semplicemente di avvicinare ed attrarre, va da sé che se un certo tipo di scrittura si pone gli stessi obiettivi, magari adottando gli stessi mezzi, il prodotto non potrà che essere una narrativa spazzatura, del tutto simile alla televisione: avvince senza pretendere nulla. Ma anche senza dare veramente nulla.
Alla fine del libro ci sono una serie di interviste in cui si parla un po’ di tutto, di carne e di nulla appunto: da Infinte Jest, al ruolo dell’ironia nella letteratura, il tutto creando l’illusione di un colloquio che potrebbe non finire mai, ma questa è l’ultima crapula, lo sappiamo, perché sappiamo com’è andata a finire, e proprio perché le cose purtroppo stanno così, questo finale in cui lui, rispondendo ad un intervistatore piuttosto insistente nel voler sapere se, potendolo fare, cederebbe mai ad un piacere mortale (invertendo i termini, una morte piacevole), si lascia andare ad una semi-promessa che sullo stomaco dei suoi fantod rappresenta l’equivalente di una manovra di Heimlich praticata ad uno che sta benissimo, prendendolo alle spalle: “Io non credo che lo farei, però credo che mi organizzerei in modo da avere intorno un sacco di amici che mi impedissero di farlo”.


 

 

 

David Foster Wallace
Di carne e di nulla

traduzione di Giovanna Granato
Einaudi, Torino, 2013
pp. 240

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