“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 26 October 2013 02:00

In gabbia con Čechov

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Giocando con le parole: dal volatile alla prigione che lo contiene. Il gabbiano di Čechov, dalla pagina alla scena rivive lo stato di prigionia annoiata e strisciante in cui erano confinati i suoi personaggi dichiarandone programmaticamente la contenzione mediante l’elisione dell’ultima sillaba: Gabbia(No). La noia, la costipazione, l’assenza di vita vera e veramente libera dai lacciuoli di una forza oscura che impedisce a ciascuno di compiere un destino differente e anelato: questo è Il gabbiano di Čechov, questo ripropone Gabbia(No) nella rivisitazione (“dis-adattamento”, com’egli esplicitamente l'etichetta) di Woody Neri.

Galleria Toledo, Stazioni d’Emergenza, quarta tappa. Prima d’entrare in argumentum ci permettiamo una divagazione generale, avendo avuto modo di assistere a tre dei quattro spettacoli andati in scena finora nell’ambito della succitata rassegna. Ebbene, fra le cose che ci hanno colpito, se da una parte c’è in positivo il livello qualitativo medio delle drammaturgie proposte, dall’altro c’è in negativo l’accoglienza un po’ troppo tiepida che l’iniziativa ha riscosso; e non solo presso il “grande pubblico”, troppe volte inspiegabilmente accidioso all’idea d’inerpicarsi lungo via Concezione a Montecalvario; ma – ed è questo il cruccio cui non sappiamo dar spiegazione – abbiamo invero faticato a scorgere fra le file delle poltrone di Galleria Toledo altri taccuini che s’imbrattavano, altre penne scarabocchianti in penombra. E, se per un verso ci colpisce la poca incisività del battage promozionale della rassegna, per altro verso rimaniamo piuttosto perplessi per quanta poca attenzione si riservi, anche dal punto di vista della critica, ad un ciclo di spettacoli che, belli o meno belli che siano – il che è sentenziabile, al limite, a visione avvenuta – hanno comunque l’indiscusso merito di portare a Napoli messinscene non altrimenti visibili di compagnie non altrimenti visibili (salvo estemporanee eccezioni), che possono in ogni caso rappresentare una testimonianza viva dello spaccato drammaturgico contemporaneo. Il nostro ragionamento si sente corroborato vieppiù dalla percezione consapevole che, di contro, diverse stagioni teatrali in cui ci capita d’imbatterci ricorrono, per riempire i propri cartelloni, a già visto tritume, rinunciando a priori a qualsivoglia lavoro di scouting.
Ma torniamo al nostro gabbiano ingabbiato, rilettura cecoviana in chiave farsesca di considerevole acume drammaturgico, che traspone l’ambientazione vacanziera in un contesto balneare, con tanto di piscina di gomma al centro del palco, sotto un megaombrellone, e tutt’intorno personaggi che si muovono e agiscono con una sincronia da marchingegno di precisione. Si gira a vuoto, in tondo, la circolarità degli eventi, dilatati nel tempo, sembra non riuscire mai ad intraprendere un percorso diverso dall’orbita prestabilita; stagnazione pare essere il concetto guida.
Azione scenica (ed inazione) ricalcano l’originale cecoviano, così come i personaggi e le dinamiche che fra loro intercorrono, con qualche significativa modifica che va a calcare il senso di ingabbiamento che appartiene ad ogni personaggio: e così, lo zio Sorin, che nella scrittura originale è zoppo e vive la sua “vita da ostrica” poggiato ad un bastone,  accomodandosi su di una sedia a rotelle solo nel quarto atto – differito di due anni dal resto dell’azione – qui ci appare in scena sin dall’inizio già prigioniero della sua invalidità; ed ancora, il letterato Trigorin (che calca l’assito con un ciuffo biondo cenere ad onor della fronte, quasi albino, che somiglia tutto all’ala d’un gabbiano), stancamente attaccato alla lenza gettata in attesa di una carpa o di un persico nella versione del drammaturgo di Taganrog, ci appare qui infantilmente rimbambito con un videogioco fra le mani.
La passività dei personaggi cecoviani è resa appieno dalla rielaborazione di Woody Neri, che ridipinge dei colori sgargianti dell’estate ed illumina con luci al neon “un chiaroscuro etico-nichilista”. La farsa del teatro nel teatro si ripropone esplicitamente al prorompere di un “Si comincia” che è vero segnale dell’inizio di una pantomima che vedrà ciascun personaggio trascinare la propria stanca vita sulla scena, dichiarando contestualmente l’incapacità di uscire dalla “gabbia”, da quella condizione di impotenza in cui, ciascuno per un motivo diverso, sembra essere avvinto.
“Ma perché siamo così infelici?” è l’interrogativo esplicitato e inesausto. Sulla scena si ripropone la dilatazione temporale di Čechov che fa sì che una pausa, un silenzio, un momento di noia, abbiano la pregnanza non differibile e che non è possibile affidare a parole, dialoghi, a momenti che non siano di noia (d’altronde “tacere è un bel modo di dirsi ‘ti amo’!”). Le microscopiche vibrazioni dell’essere promanano dalla quotidianità di una combriccola balneare, all’interno della quale ciascuno a turno non perderà occasione di definire la propria gabbia. Il gabbiano, ucciso dal regista e simbolo primo della prigionia, rebus che si decifra nell’impossibilità di elevarsi in volo dallo stato di meschinità che pervade e rende fasulli anche i sentimenti, rimarrà ad aleggiare in scena come un totem, un simulacro impalato come un labaro, monito e promemoria di una sorte infelice, ma anche muto testimonio delle annoiate lamentele profferite alla sua ombra.
Le scene cambiano a vista, momenti di buio segnano il passaggio da un atto all’altro, l’udibile tramestio è altro segnale che intende far sì che sia scoperto il gioco del teatro nel teatro. Perché i personaggi in scena appaiono consci della messinscena (non per nulla il protagonista è sia regista dello spettacolo che s’allestisce nella finzione, sia regista della pièce in scena). Decisamente calzante la scelta dei brani che fanno da colonna sonora e che intervengono come altrettante pregnanti sottolineature a scandire momenti salienti della rappresentazione; in particolar modo è deliziosa la versione di By This River eseguita in coro a cappella e nella cui traduzione declamata a voce sembra esemplarsi l’essenza significativa dello spettacolo, condensandovi le tematiche fondamentali.
Giocando con le parole, Gabbia(no) “imprigiona” in quasi due ore lo spettatore, che pare sentirsi avvinto alla sua sorte, consapevole però che, spentasi l’eco dell’ultimo applauso, dovrà – se lo vorrà e se ne sarà capace – confrontarsi con le gabbie del proprio io così come gli sono state mostrate in ribalta.

 

 

 

Stazioni d’Emergenza
Gabbia(No) − (ovvero "Dell’Amar per Noia")
tratto da Il gabbiano
di Anton Čechov
drammaturgia, regia, disegno scenografico e luci Woody Neri
con Woody Neri, Stefania Medri, Marta Pizzigallo, Massimo Boncompagni, Loris Dogana, Gioia Salvatori, Liliana Laera, Mimmo Padrone
artwork e realizzazione scenotecnica Loris Dogana
produzione Vanaclù
lingua italiano
durata 1h 45’
Napoli, Galleria Toledo, 23 ottobre 2013
in scena 22 e 23 ottobre 2013

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