“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 21 October 2013 02:00

Recriminazioni, nuvole e un carillon

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La complessa realizzazione di una scena d’insieme. La coordinazione dei movimenti, l’intreccio dei fiati, l’equilibrio tra i corpi. L’opportunità di un oggetto. L’azzardo di una composizione scenografica, l’imposizione di una struttura o del vuoto, nel quale far stazionare radi frammenti o se stessi. La posa da assumere all’apertura del sipario, lo sguardo con cui cominciare, l’espressione da rendere dopo pochi secondi. La coreografia di un moto d’insieme nel quale tutto (mimica e strutture, gestualità e incidenza testuale, cromatismo visibile ed invisibile relazione tra i pieni ed i vuoti) deve funzionare all’unisono.

Generare partiture più ampie di quelle previste dal monologo, o da un dialogo a due, è un azzardo, una prova ulteriore che si sceglie, una difficoltà cui si va incontro. Nella compressione del tempo – il corto deve o dovrebbe durare una ventina di minuti – si decide di affollare lo scarno spazio del palco con trame o con immagini articolate. In tempi di rarefazione, di asciuttezza che giunge fino all’assenza, di riduzione che sfiora l’inconsistenza – in tempi di contenimento dei costi e delle forze – il merito di aver tentato l’inebriante strada dell’assieme va ugualmente riconosciuto ai tre spettacoli visti: Il discorso di Gennaro Maresca, Tranuvole di Orazio De Costa, Piccolo e squallido carillon metropolitano di Davide Sacco sono altrettante tentate regie dell’azzardo perché sembra un azzardo – adesso, oggi, al tempo presente – tentare di costruire spettacoli per compagnie, per gruppi, per (più o meno) ampio stuolo d’attori.
Sempre più propense alla solitudine ed alla monocromaticità di un buio accogliente – nel quale posare qualche segno, uno o due fari, una e una sola voce – le storie del teatro presente si aggirano grandi come un fagotto mentre un tempo erano ampie quanto un cumulo di valigie o una carovana d’attrezzi. Oggi viaggiano a piedi, hanno breve tragitto e sono facilmente stanziali. Non sono intreccio ma flusso, non hanno plurivocalità ma singolarità orale, non prevedono colori e strutture ma puri accenni episodici.
A contrasto di questa propensione all’intimo, al solitario, al minuscolo pezzo per uno va dunque dato merito alle tre compagnie: hanno (quanto meno) cercato la costruzione di un meccanismo, l’articolazione di un sistema.
Poi, naturalmente, si comincia a far differenza tra ciò che rende al meglio e ciò che rende di meno.
Il discorso, ad esempio, ha un’interessante spunto iniziale: può mettersi in scena la vita di chi non è nato? Può farsi coesistere chi poteva essere madre con chi poteva essere figlio? Può raccontarsi l’aborto dando corpo e voce e presenza anche ai feti? Può dirsi – in una qualche maniera – delle esistenze mancate, dei destini sciupati o perduti? L’opera prova a farlo tripartendo il palcoscenico: sul fondo e nel centro due giovani uomini che sembrano infognati o ingabbiati ma che scopriremo, semplicemente, non esistenti: una brandina, i libri che non leggeranno mai, il cavalluccio a dondolo con cui non giocheranno, qualche altra amenità. In ribalta – a destra e sinistra – due monologhi, recitati da altrettante interpreti, diverse per età, condizione sociale, appartenenza d’epoca: una professoressa d’italiano che – “prima in ogni cosa” – sente la disfatta di “essere stata madre per due mesi soltanto” ed una sedicenne di piccolo proletariato da vicolo, messa a fatica come cameriera in una casa borghese e che finisce come – spesso – finiscono le cameriere in certa letteratura degli anni Sessanta italiani: sedotta ed illusa dal signore di turno, gravida e licenziata, svuotata del parto e indotta ad un viaggio che la liberi dall’infamia che tutti conoscono: in famiglia, nel quartiere, nel paese.
Dunque un dialogo porta a due monologhi e si potrebbe parlare di tre drammaturgie legate da un filo sottile e invisibile, posizionate in triangolo sul palco. Le luci compiono il resto, indicando di volta in volta il brandello di storia che va recitato.
Se ciò – ripetiamo – ha il suo interesse, pure va rilevato che la scrittura mostra lembi talora banali, che le singole vicende ricordano troppo letture già esistenti o fanno pensare ad una fragile facilità compositiva, ad una incapacità di comunicare qualcosa di nuovo o di diverso che incida davvero. Le due storie hanno i tratti comuni e consueti della cronaca intima e portano ad una conclusione che già s’immagina e si comprende a metà dello spettacolo. Si aggiunga che il lavoro di coordinazione attoriale – pur buono nel complesso – lascia la sensazione di qualche stridolio, di qualche sfregamento, di qualche piccola sovrapposizione evitabile, di qualche raro passaggio infelice: come se cigolassero, talvolta, i cardini che regolano l’intera storia.
Di Tranuvole deve dirsi che Baracca dei Buffoni e Orazio De Rosa si limitano a tramutare lo studio sul clown bianco in una tenera giocoleria evangelica, chiara ma d’un chiaro che si ripete senza destare clamore o fascinazione sincera. Volti finemente imbellettati, costumi finemente ricamati, fiocchettini di carta bianca e rossa finemente ritagliati e lasciati svolazzare con timidi lanci eleganti e poi trampoli, un carretto di legno nudo decorato da tulle, pregiati ombrelli a fare da rappresentazione simbolica delle nuvole. Il clown bianco come gran maestro di cerimonia, dunque, come evocatore e pifferaio degli sbuffi celesti, come magico artefice musicale di nembi, cumuli, batuffoli che si gonfiano e sgonfiano, che si innalzano e abbassano, che fluttuano, strisciano, si aggregano per poi ridividersi in un continuo coreografico che risulta – dopo poco – inerziale e ripetitivo.
Per quanto, infatti, il fascino circense e macchiettistico dia il calore di una carezza a chi osserva, in breve questa stessa carezza sfuma in una leziosità ripetuta, in una lusinga che annoia. Si guarda ciò che già si è guardato pochi istanti prima: file composte e ricomposte, incontri che s’incontrano ancora, giri che girano per girare di nuovo. Ne viene – al termine – la sensazione di un moto senza moto, che s’agita senza concludere nulla, che tenta la suggestione senza riuscire ad offrirla davvero. Per quanto ci piaccia la bianchezza lunare, l’assurdo sproporzionato, il fantastico danzerino e sognante ci sembra che Tranuvole non assolva al suo compito: l’immagine data passa in fretta, la bocca non si dischiude mai per lo stupore.
Infine Piccolo e squallido carillon metropolitano, volutamente lasciato per ultimo nonostante lo si sia visto per primo.
Una struttura di legno a semicerchio, costituita da cinque riquadri, a funzionare come fondale illustrativo. Appesi e penzolanti gli accenni del mobilio casalingo, avanzi di una scenografia ridotta a decoro futile, a puro lambicco. In terra un giochino che suona, rimando al gioco più grande che sta per partire. Una sedia, sei fiori di plastica, tre interpreti. Una lei centrale, due lui posizionati di lato. A sinistra un lui biancovestito. A destra un lui nerovestito, con aggiunta di valigia rossa. Gradazione cromatica voluta, bianco e nero con in mezzo il pesca eccessivo dell’abito da principessina di lei, “bambina di trenta anni” che sembra non essere cresciuta se non in fattezze, in muscoli, sangue, peso ed altezza.
Carillon è un carillon ovvero è un meccanismo fantoccesco strutturato per automatismi, movimenti meccanici, obliquità delle pose. Posti come statuine, i tre cadenzano la loro presenza in entrate-e-uscite ritmiche all’interno della struttura lignea, evidente allusione a una stanza di casa. Assistiamo, dunque, ad un frammento piccolo e squallido di vita familiare (un fratello che, scomparso, torna per sottrarre l’adulta-bambina al fratello divenuto una sorella: “fratello scomparso”; “fratello ricchione”; “Fefè”, pesce morto che sembra che dormi; e poi questa bella “Mimì”, ballerina con ritardo mentale che ripete ossessiva “facciamo un gioco?” sono i residui di un gruppo disfatto, rimasto senza padre né madre). E tutto questo non viene proposto né in forma di tragedia verista né in veste di farsa teatrale ma come coreografia tristemente schematica, fatta quasi per leve e ingranaggi, che schiva ogni mossa superflua mutando gli interpreti in piccole apparenze scattanti, dialetticamente in tensione per compresenza calcolata al secondo.
Dunque potremo scrivere di una studiata scenometria, che fa del palco una tavola comandata e – del regista – il manipolatore cui tocca dare la scossa.
Non a caso Mimì si muove da dietro in avanti, centrale, riproducendo il moto che hanno i cucù degli orologi. Non a caso i due fratelli entrano nello spazio comune passando da destra a sinistra – in moto volutamente contrario – per ritrovarsi, alla fine dell’opera, nel punto opposto da cui sono partiti. Un giro di chiave, insomma, per far andare la storia.
E se il monologo finale – confessione/spiegazione quasi umana, dunque troppo umana per questa bizzarria freddissima e misurata al tachimetro – può essere un'aggiunta di cui (forse) non si sente il bisogno, può tuttavia dirsi che Piccolo e squallido carillon metropolitano è una severa pantomima ad orologeria, resa con affiatata destrezza di recita. Così una tortuosa trama di dolori, nefandezze, di accuse; di insensibilità, di offese, di rinunce; di patimenti, insopportabilità, di lamenti e di rancori, odi, indifferenze più o meno reciproche scattano, schizzano, fanno presenza tramutando lo psicodramma in un meccanodramma: simmetrie, contrappesi, ammicchi, allunghi, contrazioni, scatti spasmodici, scoppi che durano quanto una musichetta, soste brevi dentro e fuori scena, digressioni ridevoli o amare ed incastri, composizioni mutevoli, andamento singolo o di gruppo come per molla, per innesto, per carica, rendono l’esatta razionalità dell’azione, alimentandone la tragicità per apparente sottrazione di tragico. Tutto il male viene lo stesso alla platea, senza che la platea sia investita da uno stepito urlato alla maniera solita o lamentato in un’agonia strascicata o ammuffita.
Dandole forma concentrica, facendola roteare come un piccolo baracchino da tavola, costringendola alla compattezza di una scatolina da comò, questa furiosa malignità di famiglia ne risulta esaltata. Ciò che rimane – nell’aria – è il senso d’afflizione lacrimevole, un improvviso sentimento di pietà.

 

 

 

 

Il discorso
di Gennaro Maresca
regia Gennaro Maresca
con Gennaro Maresca, Fabio Casano, Maria Cinzia Mirabella, Gabriella Murano
costumi Gennaro Maresca
assistente alla regia Fabio Casano
organizzazione generale Roberta De Pasquale
produzione La luna i falò
durata 30’

 

 

Piccolo e squallido carillon metropolitano
di Davide Sacco
regia Davide Sacco
con Rosario D’Angelo, Orazio Cerino, Valentina Arena
costumi Silvia Tagliaferri
produzione Avamposto Teatro
durata 30’

 

 

Tranuvole
da un’idea di Francesco Rivista
rielaborazione a cura di Baracca dei Buffoni
adattamento e regia Orazio De Rosa
con Orazio De Rosa, Gabriella Errico, Carla Carelli, Raffaella Lepre, Assunta Rosaria Criscuolo
scene e costumi Francesco Rivista
audio e luci Antonio Perna
produzione Baracca dei Buffoni
durata 18’

Napoli, Piccolo Bellini, 18 ottobre 2013
in scena dal 15 al 20 ottobre 2013

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