“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 20 October 2013 02:00

L'evanescenza delle ombre

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“Estremo”. Ė la prima parola che ci affiora sulla punta delle labbra quando, in un soffio recuperiamo il respiro dopo i quaranta minuti vissuti in una condizione simile all’apnea durante la visione di Ultimo Round. “Estremo” è l’attributo che di primo acchito sovviene nell’attesa che la decodifica di ciò che s’è visto sedimenti in valutazione circostanziata. “Estremo” perché forte, “estremo” perché Ultimo Round è messinscena che sembra voler sfidare un limite… quale, all’atto di muovere fuori dalla sala non siamo ancora in grado di dire… Bisogna uscire, insufflare una boccata d’aria a pieni polmoni, magari anche scambiare qualche spicciola divagazione con chi ha con noi condiviso la visione. Ma poi, prendendo esempio da quanto visto in scena, nel chiuso di una stanza e dei propri pensieri, bisogna lasciare modo alle impressioni ricevute di decantare.

Lo spazio scenico è ristretto ad hoc, l’angustia di quattro pareti e un soffitto è solo in apparenza lenita dal biancore delle pareti, dal nitore di una luce che s’irraggia da un’ampia finestra. Ė un biancore che odora di asepsi, di stanza pregna d’egra presenza, Ma non solo. Lo spazio bianco è riempito da una figura di donna che serra lamenti fra le ganasce del proprio idioma natale: un dialetto romagnolo che è unico strumento in cui è percepito possibile tradurre l’intimità d’un dolore. Vano, per chi non possiede padronanza di quel dialetto, applicarsi alla comprensione parola per parola; ci proviamo dieci secondi, orecchie drizzate come antenne, giusto il tempo di riuscir a decrittare – forse – la prima frase, poi abbandoniamo l’impresa, consapevoli della sua inanità. Ma non solo: operiamo una scelta, che è quella di seguire una traccia non necessariamente verbale, o meglio, sì verbale, ma nient’affatto letterale, piuttosto sonora; abbandonarsi al flusso sensibile di quel che dalla scena promana vuol dire ascoltare un corpo, vuol dire allertare ogni recettore sensibile e lasciare che venga impressionato da quello che il corpo di Maria Costantini, gemendo di spalle trasmette, vuol dire guardare in ribalta lasciandosi guidare dalle cadenze che corpo e voce suggeriscono dalla scena.
Riempie lo spazio un corpo in angoscia, seduto e seminudo, accorato e dolente, che sembra volersi riappropriare di un’intimità d’affetti. Lo strazio vive nelle sue membra, braccia che s’intrecciano dietro la schiena nella posa plastica di un castigo, un sibilo sordo e stridente di fondo è colonna sonora di questo dolore. L’Ultimo Round combattuto su un ring formato stanza vede una donna incrociare i guantoni con la propria sofferenza, affrontarla fino in fondo, cercare risposta alle domande ultime ed estreme su cui l’esistenza chiama ad arrovellarsi. Si procede per antinomie: vita-morte, luce-buio, bianco-nero, fino all’ultima conversione: dal dialetto all’italiano; la stanza trascolora dal bianco al nero, il corpo di lei, non più svestito, non più offre le terga ed è di nero bardato; le sue ultime parole abbandonano la lingua del padre, la lingua della confessione, dell’intimità e, volgendo per la prima volta lo sguardo verso l’esterno, rappresentato da quell’unica finestra in un fianco di scena – o, se preferiamo, in un angolo di ring – ella si proietta per la prima volta dal ricordo al domani, dal passato al futuro, dalla condizione di figlia a quella di donna, passaggio che si transustanzia mediante una sofferenza, un lutto da elaborare e trasfigurare; qualcosa alla fine si scioglie, lo percepiamo dal movimento delle sue mani, dal tono variato della sua voce.
Ultimo Round è un percorso della mente, difficile da seguire, più facile da “sentire”, affidato com’è alla corporeità ed alla simbologia scenica; è percorso “estremo”, come ci piace ripetere, perché rifugge da scorciatoie espressive; Ultimo Round è messinscena complicata per densità visiva e sonora delle situazioni drammaturgiche; ogni sillaba profferita, ogni muscolo contratto, ogni trasformazione scenica, assumono un ruolo ed un senso nel dipanarsi di un’essenza chiaroscurale. Mettersi a nudo e rivestirsi, andare al fondo del proprio sentire, del proprio pensare, cercare ombre evanescenti nel buio della mente per confrontarsi con esse, per affrontarle e affrontare la propria zona d’ombra, Ultimo Round sembra quasi un disegno in carboncino, in bianco e nero, delle vicissitudini che si susseguono, si fronteggiano e si frammischiano nell’animo umano. All’insegna di un intimismo sottile e delicato, che sembra voler andare a toccare corde interiori fra le più fragili, per farle vibrare ed ascoltarne il suono; suono che abbandona il sibilo sordo e secco per dispiegarsi infine in qualcosa che più assomiglia ad una melodia.
Ecco, alla fine, il limite estremo che cercavamo d’individuare d’istinto ci appare più chiaro, ed è quello dell’introspezione in cui si cimenta, senza sconti né rinunce, un’anima intenzionata a mettersi a nudo, ad interrogarsi sulle antinomie irrisolvibili del vivere, mettendo in gioco il proprio vissuto più intimo e profondo, la complessità dei propri precordi.
"Estremo", dunque, perché complesso, di una complessità pure accresciuta dalla fruibilità necessariamente ridotta della verbalità del dialetto romagnolo, unico cruccio per chi è in platea avido di comprensione. Estremo, dunque, ma anche estremamente avvincente per il modo di portare sulla scena, come fosse un corpo che si prende a cazzotti con le evanescenti ombre della propria anima, la lotta senza esclusione di colpi che può scatenarsi – se solo abbiamo voglia di ascoltarla mentre si scatena – nell’animo di ciascuno.
Teatralmente parlando, il senso dell’estremo ci  è apparso contiguo al senso del bello.

 

 

 

 

Stazioni d’Emergenza
Ultimo Round – combattimento tra azione e pensiero
progetto, testo e interpretazione Maria Costantini
regia Gian Maria Tosatti
produzione Vagamondi
con il sostegno di Argonavis – Itinerari teatrali nella provincia di Rimini
in collaborazione con L’Arboreto – Teatro Dimora, Mondaino e Sala 5x10 Rimini
musica Vincenzo Vasi
foto di scena Olvidado Photographers
lingua dialetto romagnolo e italiano
durata 40’
Napoli, Galleria Toledo, 17 ottobre 2013
in scena 16 e 17 ottobre 2013

 

 

 

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