“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 19 October 2013 05:05

Che sarà mai quest'amor...

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A Corte si parla d’amore. No, non si tratta d’un ballo di gala con dame ammiccanti e acchittate e nobiluomini ritti e imposimati. Né di amori cortesi di cavalieri serventi verso angelicate madonne. La Corte, in questo caso, vede come sovrana la Formica, minuscolo emblema di laboriosità; e, nel suo piccolo regno, circoscritto in una ribalta destinata ad essere brevemente occupata, prendono forma teatrale piccole storie più o meno d’amore. Diciamo più o meno d’amore perché l’amore, questo vago concetto a cui è dichiaratamente ispirata la presente edizione de La Corte della Formica, viene declinato sulla scena (o almeno ci si tenta) nelle sue variazioni non necessariamente convenzionali.

Tre compagnie ogni sera si cimentano in ribalta. Al ballo di Corte a ‘sto giro a danzare di scena sono l’Associazione Luna Nuova, i Barbari Invasori e gli Imprenditori di Sogni; tre spettacoli fra loro molto diversi, anche nel modo d’approcciare sia tema che scena. Così si passa dallo psicologismo surreale di L’amore in un’ampolla all’amore impossibile ed ‘apocrifo’ immaginato fra Cristo e Giuda in Iscariota, per giungere infine alla farsa pochadesca di Tre magnifici scapoli, ambientata in un interno inglese dell’800 in cui si giocherella in commedia coi toni leggeri.
Complessivamente un livello qualitativo discreto, ma ben lontano da produrre eccellenza da imprimere a mente per molto. Un pregio ed un limite son sempre possibili da cogliere e questo vale anche per i tre corti teatrali animatisi in scena. Ne diamo nel dettaglio contezza.
Ad aprire le danze è L’amore in un’ampolla, un surreale intreccio psicologico ambientato in un interno. Si cerca un padre fuggiasco, forse nascosto in casa, forse sprofondato chissà dove, sicuramente inghiottito da un abisso di incomunicabilità, messo in fuga da un ambiente reso ostile da una donna manipolatrice – sua moglie – artefice occulta d’una creazione di relazioni torbide e ambigue alimentate in un interno domestico chiuso, delimitato scenicamente da una porta di stoffa stilizzata ed aperta penzolante in centro di scena, che segna e delimita uno spazio interiore non accessibile dall’esterno, ed in cui i figli, truccati come due marionette, sono burattini senza fili nelle mani di una madre chioccia e padrona (tant’è vero che i due ragazzi sono avvolti e fuoriescono dal medesimo drappo azzurro che avvolge la donna in una sorta di baldacchino); madre chioccia e padrona che ha veicolato ed inquinato i rapporti interni al nucleo domestico, contaminandoli di una componente morbosa, venata di gelosie e irrimediabilmente destinata a virare verso il tragico. La bontà inventiva della piccola pièce finisce per restare però sulla soglia – su quella soglia invisibile che demarca l’ingresso stesso dell’interno familiare – perché con tutta probabilità abbisognerebbe di una strutturazione più articolata e complessa di quella che un corto teatrale possa permettere.
La seconda messinscena vede un solo attore occupare il palco ed è semplice ed efficace nella gestione di parole ed immagini proposte. L’Iscariota del titolo è l’unico personaggio in scena, che progressivamente mette a nudo il suo corpo e confessa un amore delicato, impossibile ed apocrifo, verso il figlio di quel Dio cristiano che dicono essersi fatto uomo; e tutta umana è la sostanza di quell’amore misconosciuto e non del tutto confesso che li aveva legati. Un cappio in centro d’assito evoca, senza soverchia fantasia, la fine arcinota cui l’Iscariota andrà incontro; due sedie, inizialmente rivolte di schiena e poi man mano girate di fronte, sembrano alludere ad una verità vista da dietro, che progressivamente verrà svelata, con la contestuale svestizione dell’attore, che mette a nudo un ricordo non rimosso, che si sveste delle suppellettili di cui lo vuole intabarrato la storia e rivendica accorato il proprio diritto alla scelta ed all’amore. Dalla scena, con un felice crescendo che sa di confessionale, trapela una versione “romantica” (tra molte virgolette…) del tradimento di Giuda, derubricato come delitto passionale, frutto d’un dissidio fra essere e voler essere, ripercussione d’un rifiuto patito. D’altronde, se sei il Messia e qualcuno più in alto di te ti ha commissionato incarico soteriologico tra gli uomini, non t’è permesso, fra quegli uomini, concederti il lusso terreno e voluttuoso dell’amore carnale, per giunta con un tuo apostolo!
Non un alibi, non una giustificazione, ma solo un’umanissima motivazione quella che adduce il povero Giuda, ormai coperto dal tabarro che prima pendeva appeso al cappio. Come liberato dal senso di colpa grazie al monologo aperto, ritorna sereno nell’ombra. Lineare nello sviluppo, semplice nelle soluzioni registiche, Iscariota nella sua forma di monologo-confessione lascia buona impressione di sé: pur nella sua semplicità, ci appare dei tre quello teatralmente più valido, anche se un po’ troppo didascalico.
A chiudere il trittico della serata Tre magnifici scapoli, ovvero un divertissement dai toni dichiaratamente comici che mette in burla certo affettato romanticismo inglese dei romanzi d’appendice ottocenteschi, mettendo in scena l’incontro fra tre sorelle zitelle ed altrettanti improbabili corteggiatori, per dimostrare, tra frizzi, lazzi e giocolerie varie, con un pizzico di metateatralità e qualche variazione pupazzesca, che in fin dei conti l’uomo ideale non esiste, e se esiste cela senz’altro qualche magagna. La messinscena diverte, ma è volutamente imperniata su una fatuità che la rende piuttosto fine a se stessa, un divertissement come si è detto, peraltro disturbato da quel cattivo costume che è il reiterarsi dell’applauso a scena aperta, che fa tanto claque malavvezza all’ortodossia dello stare in teatro.
Verità incontrovertibili sull’amore non ci si poteva aspettare che discendessero da palco a platea. Ma, se è vero che, come da motto cechoviano, la brevità dovrebbe essere ancillare al talento, da quanto è avvenuto in assito, qualcosa di più sarebbe stato lecito attendersi.

 

 

 

La Corte della Formica


L’amore in un’ampolla
di Giovanni De Luise
regia Giovanni De Luise e Marco Aspride
con Francesco Borriero, Nino Bruno, Giuseppe Maria Panico
scene Vladimir Amico
costumi Antonia De Luise
musiche originali Guido Leone, Vladimir Amico
produzione Associazione Luna Nuova
durata 15’


Iscariota – Studio sul perdono
scritto, diretto e interpretato da Walter Revello
scene e costumi Walter Revello
produzione Barbari Invasori
durata 20’


Tre magnifici scapoli
di Claudio Buono
regia Giovanni Merano
con Viviana Cangiano, Francesco Esposito, Paolo Gentile, Carlo Liccardo, Sara Missaglia, Serena Pisa
scene Anna Sano
costumi Federica Del Gaudio
produzione Imprenditori di Sogni
durata 25’


Napoli, Piccolo Bellini, 16 ottobre 2013
in scena dal 15 al 20 ottobre 2013

 

 

 

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