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Tuesday, 15 October 2013 02:00

La scena come un polittico

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Turpitudini di un mondo arretrato. Retaggi ancestrali di una terra descritta come forse (probabilmente) più non è da tempo. Un contesto sociale, una storia, tre vite esemplate che prendono corpo sulla scena. Così un palco spoglio e semivuoto si trasforma in uno spicchio di Sicilia dipinto come una pala d’altare: un baule sullo sfondo e tre figure in ribalta, tre figure come a formare un polittico, come fossero tre quadri da vedere prima uno alla volta, poi tutti insieme, quadri parlanti, a tratti all’unisono fra più voci.

Le luci in sala sono ancora accese e le note di un tango ancora avvolgono il teatro quando d’improvviso un giovane uomo e una giovane donna attraversano la platea urlando e rincorrendosi, coperti del solo candore di intime vesti, prima esplicita traccia della loro intima contiguità; lui è Motta Giovanni (rigorosamente cognome e nome all’atto della presentazione), il “maschio” della famiglia, figlio illegittimo di padre ignoto e sorte malaccorta. Rosaria è la cugina, coetanea e procace; sono cresciuti insieme e l’intimità che li unisce è quella di due anime legate fraterne.
Il centro della scena è tutto per lui, Giovanni, maschio senza esser maschio, il suo eloquio è una cantilena fanciulla, propria di chi attraversa i giorni col sentimento panico della gioiosa scoperta; un candore di fondo sembra animarlo e sembrerà non abbandonarlo mai, neppure quando la vita lo metterà a confronto con i manrovesci a cui la condizione di omosessuale, in un contesto retrivo, ineluttabilmente va incontro.
Alla sua destra, sin dall’inizio – come sin dall’inizio della sua vita – Rosaria, smaliziata e complice. Alla sua sinistra, a completare il trittico, Giuseppe, il maestro di ballo, ruvido e con alle spalle a sua volta una storia di (poco) ordinario degrado familiare. Giuseppe entra in scena in un momento successivo, così come successivo è il suo ingresso nell’esistenza di Giovanni, il quale è parimenti attratto dal ballo e da chi l’insegna.
La struttura scenica si dipana tripartita in monologhi alternati: non c’è azione, non c’è movimento, subito dopo l’inizio non c’è più nemmeno contatto fra i corpi in assito, le loro contiguità sono solo narrate, affidate alle parole, a voci che in un vernacolo crudo e intenso ma intellegibile concorrono a ricostruire una storia. Storia in tre quadri, contigui e differentemente dolenti; storia di aspirazioni semplici e frustrate, di castrazione dei desideri, di angherie gratuite, gratuitamente patite.
Tre vite, tre anime, tre sofferenze differenti e differentemente intense, il gioco delle luci a scandire i cambi di scena senza interrompere mai la continuità narrativa: polittico diviso in tre sezioni, lo sguardo dello spettatore è guidato dal guizzar dei fasci di luce, fino a che la visione diventa plurima e panoramica, con Giovanni che monologa e Rosaria seminuda e dolente per le botte e le vessazioni subite da qualche vigliacca carogna. Figura centrale resta sempre Giovanni, candido come tutto ciò che indossa, dalla maglietta alle mutande, fino all’abito da sposa di cui si fascerà come simbolo di un sogno impossibile, aggrovigliato, avvinghiato, impigliato in una veste che gli è preclusa, negazione e frustrazione di un’identità non riconosciuta. La visione panoramica si sposta su due figure e due voci (Rosaria e Giuseppe, i grandi affetti della sua vita) che ai lati di Giovanni come fossero i suoi angeli, gli elargiscono coccole all’unisono, coccole che si trasformano nei monologhi di due disperazioni urlate per la sua sorte, segnata dall’AIDS trasmessagli da Giuseppe, unico partner con cui abbia mai “fatto qualcosa”.
Le tinte sono forti, i toni viscerali, la recitazione si mantiene su un livello elevato e su registri di notevole intensità, che si trasmette empaticamente dal palco alla platea. Eppure c’è qualcosa in questa pièce che le impedisce di esser convincente del tutto ed è a nostro avviso una lacuna strutturale della scrittura, che si mostra tributaria al convenzionalismo stereotipo di quei cliché che vogliono la Sicilia atavicamente abbarbicata a tradizioni retrograde, scontando così l’inattualità di un’oleografia non più credibile, tanto che per rendersi plausibile è costretta a retrodatarsi di una trentina d’anni e forse ancor di più.
I tre attori e la regia sono convincenti, le idee strettamente inerenti alla realizzazione della messinscena denotano una certa freschezza inventiva, ma le incertezze del testo si evidenziano proprio nella difficoltà di rielaborare in una chiave funzionale gli stereotipi, elevandoli dal tritume del luogo comune.
Che cosa rimane, una volta spentasi l’eco dell’ultimo applauso? Cosa ci si porta dietro, quando, a mente fredda si ripensa a ciò che s’è visto sulla scena? Rimane la sensazione di aver potuto apprezzare attori capaci, in una messinscena che sa di teatro, una regia felice… Rimane però anche il sentore di aver assistito a qualcosa che riesce a lasciar dietro di sé poco più che una scia volatile; rimane l’idea che, concettualmente Io, mai niente con nessuno avevo fatto nulla tolga ma poco aggiunga alle dissertazioni sull’omofobia.
Ė pero in ogni caso opera prima di una compagnia, Vuccirìa Teatro, che ha messo in luce potenzialità che meritano di essere attese da lavori di maggiore spessore drammaturgico e respiro contenutistico, in cui l’opera di elaborazione e scrittura sia di un livello consono al lavoro fatto sulla scena.

 

 

Stazioni d’Emergenza
Io, mai niente con nessuno avevo fatto
scritto e diretto da
Joele Anastasi
con Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano
produzione Vuccirìa Teatro
organizzazione e distribuzione RAZMATAZ
aiuto regia Nicole Calligaris
costumi Giulio Villaggio
foto Dalila Romeo
video Giuseppe Cardaci, Elia Bei, Davide Maria Marrucci
lingua siciliano
durata 50’
Napoli, Galleria Toledo, 12 ottobre 2013
in scena 12 e 13 ottobre 2013

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