“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 15 October 2013 02:00

Un uomo, una donna, un dipinto

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Lui.
Gli occhi simili a due grossi nei scuri; le labbra sottili come un tratto di pastello leggero; la carnagione pallida quanto il velo di una sposa; i capelli corti, che rendono ancora più evidente la fronte spaziosa, le spalle larghe, il torace leggermente villoso, le gambe tornite, frementi, nervose; le mani impegnate in un gesticolio ripetuto: toccano ora un calice, ora un giornale, ora il lembo di una tovaglia, un fazzoletto, un bottone della giacca, un sopracciglio, il lobo di un orecchio, il mento, la base del collo, la stoffa della camicia, il polsino.

Tutto in lui appare diverso: la maniera di camminare, simile a quella di un condannato cui sta per scadere la pena; il modo in cui sbuffa, che lo fa somigliare a un bambino annoiato; la voracità nel mangiare, che lo mostra goloso di carni al maraschino, patate al latte, cipolle speziate, pane fresco e cioccolata fondente con gelato di vaniglia, gelatine di frutta zuccherate, pere indorate dal miele. Languido, ozioso, avvincente, misterioso, furtivo, “sognante fino alla sottigliezza, tenero sino alla mollezza, voluttuoso infine” e tagliente nella voce – che cerca d’imitare quella di Saint-Just – quando declama paradossi e provocazioni dopo lunghi silenzi tormentati.
Appartiene al dandismo sobrio, che “gratta gli abiti con la carta vetrata per togliergli l’aria domenicale e nuova di zecca”; rifiuta i cappelli molli di feltro e le giacche di velluto che indossano gli aspiranti scrittori; indossa piuttosto l’abito azzurro imitato da un ritratto di Goethe o l’eccentrica tenuta amaranto sotto una giacca, nera come le scarpe in vernice. Al mignolo destro un piccolo anello d’oro giallo con un castone modesto: una pietruzza verde scuro, quadrata, con leggere venature turchesi.
Ha l’aria da ricco declassato, ma anche da povero che aspira a un’eccentrica nobiltà della forma. Non parteggia né per la buona né per la cattiva società, si stanca delle frequentazioni troppo assidue e ha i creditori alla porta, da cui si nasconde tacendo e rannicchiandosi tra i cuscini del divano.
Ama – questo giovane non ancora trentenne che aspira a diventare critico, letterato o poeta – guardare il fiume che s’increspa di detriti e di schiuma; ama i riflessi del sole che battono sulle vetrine dei negozi; ama gli ambulanti dei chioschi ed il rumore delle fanfare, il suono prodotto dal tacco delle scarpe maschili, i colori che prendono i viali dei giardini tra Ottobre e Novembre.
Abita in tre stanze d’un vecchio albergo in rovina, cui si accede soltanto da una scala di servizio: alle pareti carta lucida a fiorami rossi e neri, tende di damasco, litografie di Delacroix e pesanti mobili di legno scuro con sopra un dito di polvere, un camino senza legna, una bottiglia di laudano sulla tavola, un vecchio paio di ciabatte in un angolo, una vestaglia posata su una sedia macchiata di caffè, residui di tabacco fumato tre giorni prima, un grande letto di quercia e − nello studio, illuminato da una sola finestra, altissima e sporca − due o tre penne d’oca e poi tubini d’inchiostro, calamai vecchio tipo, boccette di nero da miscelare con acqua fredda, fogli intonsi e fogli scritti, mentre pochi libri sono poggiati per terra, tra il letto in disordine ed un grosso specchio in cui si guarda con fissazione impeccabile, continua, ossessiva.
Di lui si dice che il cuore sia un vulcano, capace di erompere in scosse furiose ma anche di tacere in maniera assoluta, dando la sensazione del vuoto, dell’abisso, della fine di ogni attività e di ogni battito. Di lui si dice ami le donne di carnagione nera – “le fanciulle superbe dell’Africa” – di cui segue i passi in strada per notare come la gonna fruscia e s’adagia alle forme abbondanti. Di lui si dice abbia avuto per amante Jeanne Duval, la bellissima mulatta che fa impazzire Parigi col suo “mare d’ebano”, il suo “oceano nero”, la sua “foresta aromatica”. Mentre lui – fingendo di non badare a ciò che si mormora – recita la parte del giovane triste che siede sul divano, accavalla le gambe e – pensieroso – emette brevi frasi illuminanti: “Sono cresciuto sotto il cielo quadrato delle Solitudini”; “Mi sono orgogliosamente rassegnato alla modestia”; “Non considero la letteratura e l’arte se non tese a un fine estraneo alla morale” e “Mi fa orrore tutta la gentaglia moderna, mi fanno orrore gli accademici, i liberali, i virtuosi. Mi fa orrore lo stile scorrevole”; “Scrivo per una decina di anime che forse non vedrò mai, ma che adoro senza averle viste” (frase che  ha  rubato a Stendhal); “Vi prego: non parlatemi più di chi non dice nulla”.
Mentre interpreta la sua parte spia il movimento che una dama compie nell’intrecciare un laccio del corpetto; nota come due labbra femminili si mordono di languore e di voglia; misura l’abbondanza di seno di una cameriera.
Solito a subire e sopportare umiliazioni, pare abbia anche tentato il suicidio ma molti sostengono si sia trattato di una recita per ottenere attenzione. Difende il diritto di contraddirsi e quello di andarsene, lasciando insoddisfatta una platea, un’intera sala in attesa, una bella donna discinta.

 

Lei.
È detta “La Presidentessa”. Figlia di un prefetto volubile, violento, manesco e di una guardarobiera senza né molti meriti né molta bellezza, lei ha venticinque anni, suona il piano e il violino, canta, legge romanzi francesi, inglesi, italiani. Di professione fa l’amante, con la stessa calcolata attenzione con cui si esercita quella di medico, di cocchiere o fioraio.
Allegra, spregiudicata, abbondante, ha pelle chiara come il burro, ancora più chiara per il contrasto col castano scuro dei capelli; ha glutei larghi e formosi, piedi minuscoli che decora con piccoli fili d’oro bianco o d’argento smaltato. Dipinge le unghia di colori soffici, quasi invisibili. Adora l’assenza di stoffa alla schiena perché la schiena sembri – a chi la osserva da dietro –  una tela che attende ancora il suo pittore.
Simbolo di bellezza opulenta e satinata, fascia il corpo con abiti regolari, decorati da piccoli dettagli sbarazzini. Colleziona dipinti d’ambiente, statuine primitive, coroncine di fiori. Frequenta il Cafè Momus, dedicandosi alla conversazione per il gusto d’essere notata mentre conversa. Inclina leggermente le spalle, mostra l’oscurità nera della linea sottile tra i seni bianchissimi, poi rialza il busto lasciando – a chi l’ammira – il desiderio di sognarla ancora. Sorride spesso e il suo umore è roseo, limpido, palesemente felice.
Ormai lontana dalla povertà dell’infanzia, ama e viene amata da sciocchi facoltosi che la rendono astuta, ricca e contenta. Adora l’arte ed è arte ella stessa. Un calco di gesso, nei mesi precedenti, ha generato imbarazzi, ammirazione, fremiti a mezza Parigi: i capezzoli turgidi, le natiche piene, le lunghe cosce affusolate su un manto di petali; i capelli confusi coi fiori, un piede reclinato con elegante naturalezza, le linee dei fianchi calcate dalla voluttà della posa; il sorriso beato, sfacciato, sincero.
“La Presidentessa” è fissa, nel mezzo del Louvre, per mano di Jean-Baptiste Clésinger: “La Presidentessa” è La donna punta da un serpente.
“Morsa dall’aspide del piacere / Come una statua di Clésinger / erompe estasiata e piegata, / in un inimitabile spasmo”. Sono versi che Théophile Gautier compone in piena notte, essendogli impossibile riposare dopo aver visto quella nudità per la quale tutti si gonfiano di desideri irrealizzabili per poi sgonfiarsi con un piacere solitario.
Ama i grandi drappi blu notte, le tende spesse come barriere, i vasi in ceramica con gli orli dorati; ama il rumore delle monete, i vini eccellenti, i maccheroni napoletani, certi formaggi che si trovano solo in provincia; ama il respiro affannato degli uomini, la voluttà peccaminosa di certo tono maschile, il desiderio che riesce a procurare. Odia i falsi pudori, le frasi interrotte per imbarazzo, coloro che non usano un linguaggio diretto, che altre direbbero sboccato o volgare. Ama – alle cose – dare il nome che le cose si meritano.
Per quanto balbetti negli incontri imprevisti e inattesi, sa tenere a bada gli ammiratori più stupidi. Adora l’intelligenza, la cultura, la dotta loquacità del sapere. Dona un soprannome ai grandi letterati che frequentano la sua casa: Gautier – il Gautier scopertamente innamorato che sogna il “suo culo verde” immaginandola “a cavalcioni sul ramo più alto di un albero” mentre “grida alla luna” – è “Théo”; Victor Hugo è chiamato “Papa Hugo” mentre Flaubert è detto “Sire di Vaufrilard” (ma nessuno ne ricorda il motivo).
Nel vestirsi segue i consigli degli amici pittori, preferendo stoffe chiare ai colori più bui e – nonostante questo – Louis Gustav Ricard non trova di meglio che farle indossare un abito nero con satin rosso ne La donna col cagnolino.
Di lei si dice che si sia formata eroticamente leggendo certi romanzi di contrabbando. Di lei si dice che le piaccia farsi raccontare l’osceno mentre sorseggia bevande fresche nella sua stanza preferita: il salotto dalla grande vetrata. Di lei si dice – soprattutto – che abbia un trucco infallibile nel fare l’amore: lascia che gli uomini la dominino, cedendo con passività da preda, da ostaggio, da prigioniera. Soddisfatti, questi uomini notano quanto la bellezza di lei sia rimasta intatta, radiosa, imprendibile: come non avessero appena abusato della sua carne. “Passata la bufera” – scrive Scaraffia – “l’uomo assumeva la stessa rilevanza del serpentello sulla gamba della statua, un misero animaletto umiliato dalla perfezione che aveva creduto di sconvolgere e sottomettere”. Così “questo oggetto sessuale puramente passivo” (da una lettera di Virginia Rounding) mostra il proprio trionfo, sorridendo soddisfatta. Poi passa all’incasso.
“Possa il mio sperma zampillare da casa mia fino a casa tua” scrive ancora Gautier che aggiunge, in una sua fantasia non si sa se realizzata: “Ernesta [la moglie dello scrittore] vorrebbe darti una bella leccata al clitoride e io pure…”.
E tuttavia “La Presidentessa” ha scelto qualcun altro: il giovane di cui abbiamo già scritto e che adesso siede ancora al divano, continuando a emettere frasi illuminanti: “Perché la fantasia è tanto più pericolosa quanto è più facile e aperta…” le sembra – adesso – di sentirgli dire.

 

Loro.
“Bonsoir, Monsieur”. Lei diventa per lui immediatamente la Musa, la Madonna, la Divina che non si può neanche sfiorare, la Signora inaccessibile, la Venere Bianca, l’Amante, l’Angelo.
I suoi occhi sono “d’incanto, mistico chiarore”, simili ai “ceri che il giorno sfuoca” senza riuscire a cancellarli del tutto; la sua pelle ha il tono dell’”alba bianca e vermiglia”; il suo odore s’impone come l’incenso delle messe ecclesiastiche; la sua voce è un violino, il suo petto un altare. Nulla sembra sapere “dell’angoscia, della vergogna, dei rimorsi, degli affanni, del pianto”; nulla sembra sapere “del rancore, dei pugni stretti nell’ombra, delle lacrime di fiele”; nulla sembra sapere “delle rughe, della paura d’invecchiare, dell’osceno tormento di leggere l’orribile”.
Donna “della gioia, dei giochi e della luce”, lui ne immagina una sola volta la tristezza: è tardi, la luna si staglia nel cielo come una fiammante medaglia, Parigi è addormentata, la notte somiglia ad un fiume vastissimo mentre il vastissimo fiume ha il colore della notte. Fantasmi sembrano guizzare lenti, rasenti alle case, ai portoni, simili a gatti furtivi dalle orecchie tese e dalla coda appuntita. All’improvviso – mentre questa libertà serale sembra rinfrescare pure l’anima – lei parla, con voce malferma ed incerta da bambina: “Niente quaggiù, è sicuro: per quanto si imbelletti l’egoismo umano prima o poi si rivela. E che duro mestiere è essere bella, che squallido lavoro per la gelida, folle ballerina, struggersi in un sorriso meccanico”. Un bisbiglio ancora poi di nuovo il silenzio, interrotto soltanto dai propri passi all’unisono, braccio al braccio, la testa di lei poggiata alla spalla di lui.
Scherzano con l’anonimato: lui le invia biglietti traboccanti passione distorta ed opaca, talora confusa: vuole “carezzarne i seni fino a schiacciarli”, punire la sua carne gioiosa, avvelenare le labbra da cui sogna un castissimo bacio. “Vi odio quanto vi amo!” le scrive, con un impeto che non si trattiene. Non si firma – mai – ma è come se lei già sapesse che è lui ed è come se lui sapesse che lei attende le sue parole, qualche suo verso, un segno d’interesse e presenza. “Voi siete più che un’immagine sognata e diletta, voi siete la mia superstizione” le scrive ancora ed occorre immaginarlo in preda a tremendi furori, che s’infrangono tra le pareti della sua stanza.
Lei diventa quasi un’ossessione assumendo la forma di una clessidra, di una fetta di pane, di un gatto la cui pelliccia “manda un profumo così dolce” da esserne “tutto intriso”, dopo “averla carezzata una volta” soltanto.
“Non c’è forse qualcosa di essenzialmente comico nell’amore?” le chiede, protetto ancora dall’anonimato, mentre fantasticano sul modo d’incontrarsi: nel mezzo di una platea di teatro; nel centro di una strada affollata; in un caffè, ad un’ora dal tramonto, soltanto per pochi minuti. Lei non può fare a meno di lui, lui non può fare a meno di lei: qualcosa di inevitabile sembra inevitabilmente accadere.
Lei lo pensa ogni volta che incrocia un altro amante e, pensandolo, gli scrive: “Sono tua dal primo giorno in cui ti ho visto. Ne farai quel che vorrai, ma sono tua nel corpo, nella mente e nel cuore”.
Lui la pensa ogni volta che vive qualche impegno necessario o noioso e le scrive: “Quando faccio una grossa sciocchezza, mi dico: Dio mio! Se lei lo sapesse!”.
Nel pieno di un agosto assai afoso decidono, finalmente, di incontrarsi. Accade a casa di lei. Qui, tuttavia, le testimonianze divergono.
C’è chi giura d’averli sentiti piacersi e bloccarsi all’istante, già felici d’essersi piaciuti ed intenzionati a non rovinare, per questo, il momento. C’è chi invece afferma che la donna si offre all’uomo con una spudoratezza che lo annienta, rendendolo un imberbe impotente, un imbarazzato incapace. Altri sostengono che l’amore di lui non resiste all’esperienza di trovarsi davanti – piuttosto che una donna di carta e d’immagini – una di carne e di sangue. Quel che è certo è che, rincorrendolo, sentono lei chiedere a lui: “Quale gelo mortale è soffiato su questa bella fiamma?”, che è frase da prendere come un verso poetico, forse; forse è da prendere come una metafora sull’incapacità fisica di lui a soddisfarla.
Nei giorni seguenti imbarazzo, meno scritture, non meno passione tuttavia.
Quando lui diventa l’autore di cui tutti parlano e che produce scandalo con una sua pubblicazione, sente in dovere di scriverle: “Tutti i versi compresi tra la pagina 84 e la pagina 105 appartengono a voi”. Così le attribuisce parte del proprio successo.
Lei lo desidera ancora: “Malgrado quello che è successo, l’appuntamento per domani rimane. Voglio vedervi, fosse solo per allenarmi al ruolo dell’amica”; “In quale commedia o piuttosto in quale dramma stiamo recitando?”; “Non so che cosa pensare e confesso di essere profondamente turbata. Il vostro comportamento è stato così strano negli ultimi giorni, che non ci capisco più niente, niente”.
L’ultimo tentativo è di una dolcezza infinita: è tardi, il crepuscolo ha già abbandonato la ribalta alla sera; scende una pioggia fitta, insistente, sporca; le carrozze s’affrettano, riconducendo i padroni a casa. Nessuno spettacolo sembra poter allietare: i teatri sono chiusi, nessun circo è in città, nessun ballo è previsto. Lei si avvicina al piccolo tavolo chiaro, dalla scatola sottrae un foglio, afferra una piuma, la tinge d’inchiostro, pensa e compone le frasi: “Quando ve la sentirete, scrivetemi e venite. Sono indulgente. Vi perdono la ferita che mi avete inferto”. Poi continua: “Sicuramente soffrirò, ma sopporterò ogni dolore per esservi gradevole”. Chiude con: “Vi prego, venite”, che ha il tono di una preghiera detta da chi non ha più fede.
Non ottiene alcuna risposta.

 

Un’immagine.
La parete di fondo è composta da una muratura su cui, fragili abbozzi verticali, alludono a cime d’alberi, cumuli nuvolosi, corpi maschili.
Una tela, rivolta, è nell’angolo in basso a sinistra mentre a destra c’è un’uscita che fa intendere il proseguimento del luogo: un corridoio, un’altra stanza, forse altre persone. Sul ciglio di quest’apertura due amanti sembrano stringersi: l'uomo è ridotto ad essere un’ombra, mentre la donna è una creatura graziosa, pulita, bianca vestita di bianco: se ne tocca quasi la leggerezza della veste.
Domina al centro un pittore, al cavalletto: giacca grigia, pantalone marrone a brevi fasce orizzontali, la tavolozza rettangolare coi colori; il viso scurito dai peli, il braccio destro intento agli ultimi tocchi, il pennello come un proseguimento naturale delle dita. Davanti ha un lavoro di cui ci piace non tanto ciò che vi è dipinto quanto quel drappo logoro, presumibilmente impolverato, i cui chiaroscuri sembrano quelli di un sipario, rimasto impigliato.
Anime in pena a destra e sinistra: volti barbuti, incappellati, imbronciati, più o meno attenti, vagamente definiti nelle loro espressioni: talora nette, talora sfocate. In terra strumenti musicali, un cane e un gatto, completano la resa simbolica data dal bimbo e dalla modella nuda, incarnazione della Verità.
Il nostro sguardo ha un compito adesso: portarsi sulla parte destra del quadro perché noti due figure, nettamente distinte. La prima è una donna vestita di nero, colletto bianco di pizzo o cotone, pelle chiara, un po’ gonfia, come sporcata dall’ombra o da un rossore invadente. Le braccia e le mani – non vedibili – possono immaginarsi incrociate sul petto, sul grembo o intente a tenere i lembi dello scialle, di cui affascina il ricamo prezioso: una cornucopia di fiori e di foglie che sfumano nei disegni geometrici. D’ella non si nota che una guancia, il naso, le labbra, un sopraciglio, parte dei capelli, un lobo. Lei è lei. Lei è la lei di cui abbiamo scritto.
E lui? Lui staziona più in fondo ancora. La giacca tra il rosso scuro e il marrone, il foulard verso il giallo, s'intuisce appena la camicia bianca mentre le gambe sono affondate nell’ombra; lui siede sul tavolo: la mano sinistra poggiata non direttamente al legno ma a un libro mentre la destra fa da leggio ad un altro libro ancora. Capelli neri, folti, ma incapaci di coprire la fronte; lo sguardo fisso alle pagine; la bocca serrata, come a non emettere neanche un respiro.
Mentre tutto si svolge (una donna mostra la sua nudità, un avventore guarda un disegno distendendolo a terra, il cane allunga il muso, il gatto gioca muovendo una zampa mentre le altre figure producono un chiacchiericcio crescente, sibilato, fastidioso) lui pare fuggire, cercando (e trovando) la concentrazione, la solitudine e l’assenza, nella lettura.
Questa immagine – L’Atelier di Gustave Courbet – li ritrae assieme: divisi da pochi centimetri, immobili, colti nel momento in cui la loro storia − che qui termina − deve ancora iniziare. Lei è Apollonie Sabatier; lui è Charles Baudelaire. Loro saranno amanti.

 

 

Giuseppe Scaraffia
Apollonie Sabatier, la Presidentessa
in Cortigiane. Diciotto donne fatali dell'Ottocento
Milano, Mondadori, 2010
pp. 238; 157-175

 

Roberto Calasso
Le Folie Baudelaire
Milano, Adelphi, 2008
pp. 425

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