“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 04 October 2013 02:00

Come eravamo. Napoli, settembre 1943

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Dal buio della sala emergono lentamente, illuminati dai riflettori, i personaggi sulla scena. Alcuni sono in piedi, altri sono variamente seduti, altri ancora a terra. Le luci di Cesare Accetta non scoprono e non rivelano, piuttosto tagliano, illuminano i personaggi parzialmente, sempre comunque immersi nel buio che li circonda, nel nero della scenografia, in quel buio dove la Storia ha volutamente relegato Napoli e la sua coraggiosa rivolta antitedesca durata quattro giorni, dal 27 al 30 settembre 1943.

Il perché di questa damnatio memoriae lo racconta il primo personaggio-narratore, Antonio Casagrande, quando la lama di luce si accende e gli dà vita. La Storia dei vincitori della guerra ha preferito raccontare ed esaltare la Resistenza del Nord perché organizzata, ordinata, diretta da una struttura politica. Il Partito Comunista Italiano ha glissato, sottaciuto le Quattro Giornate napoletane catalogandole come una rivolta di scugnizzi e poveracci, sminuendo la portata rivoluzionaria di un popolo che per primo in Europa si è liberato da solo dall’oppressione nazista. Come poteva "una città sempre uguale a se stessa", vittima dei suoi cliché, operare una tale rivolta senza che avesse un colore politico se non con l’odio verso l’ottuso tedesco e gli ancora più ottusi imperii del colonnello Scholl a capo della città? Eppure anche Napoli ha avuto i suoi morti ed i suoi eroi. I primi a morire sono stati bambini e ragazzi di diciassette anni come Adolfo Pansini, poi uomini e donne che ovunque, in ogni quartiere si armavano come potevano per cacciar via i "Teteschi".
La pièce Napoli ’43 di Enzo Moscato è un racconto corale di quelle Quattro Giornate, una tragedia greca narrata da corifei di ogni età, ognuno toccato dalla sua lama di luce sbieca. Tagli, sovrapposizioni, citazioni letterarie stranianti come il Don Abbondio "d’a parrocchia d’Ascensione” che trovano il contrappunto nelle immagini sceniche di Mimmo Paladino proiettate sul lato destro, per il pubblico, del palco. Nelle trame della narrazione vi è Vladimir Majakovskij nel testo Il flauto di ossa che rimanda al suo Flauto di vertebre, vi è anche Cèline con i rimandi ai sepolcri, alle caverne accoglienti di Napoli, inoltre vi è inserito il sonoro di alcune scene tratte dal film Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, unico racconto cinematografico che ha il valore del documento storiografico. Casagrande e Moscato sono i due narratori che legano i frammenti delle storie dei protagonisti di allora. Benedetto Casillo vestito da pazzariello, Gino Curcione nel ruolo di una musicista popolana, Salvatore Cantalupo è un collaborazionista, una superba Cristina Donadio è la spia dei tedeschi "miez ‘o Torrione" che dai trionfi della delazione finisce nel disonore della fucilazione e della vendetta popolare. Con una gonna di tulle su cui sono cucite delle piccole ossa orribilmente vezzose con una svastica nera che le domina la schiena, la Donadio è tutto ciò che i napoletani hanno odiato in quei giorni. Di fronte ad una prepotenza cieca nasce il desiderio di fare ammuina”. Un soldato racconta della ricerca dei Tedeschi forse rifugiati nelle catacombe, alcuni deportati in Polonia nei vari campi di concentramento raccontano come li abbia aiutati "la cazzimma eletta a dea, ad arte".
Quasi tutti i personaggi sono distinguibili dal loro abbigliamento, quasi tutti indossano una cartucciera attorno alla vita: sono civili, ma per quattro giorni militari permanenti rischiando la vita, perdendola. Tutto è funzionale alla resa scenica. Luci, costumi, gestualità, l’iterazione delle battute che è una costante della drammaturgia di Moscato che si fonde con le litanie, con il motivo tipico della ballata popolare. Così la pièce di Moscato costringe il pubblico a recuperare la memoria, a decodificare una struttura solo apparentemente sconnessa in nome di un Teatro che non ha mai perso la sua funzione civile, puntando ad una coscienza e ad una consapevolezza critica di cui, purtroppo, oggi si sente la mancanza.
Dunque tagli, lacerazioni, destrutturazioni, ma anche cuciture, graffi, segni bianchi immersi nel nero. Perché la storia che Moscato racconta nel suo stile del pastiche linguistico dall’italiano al tedesco passando per il greco antico di Sofocle, per i detti popolari, per quel dialetto antico di cui oggi non si ha più memoria, vuole ricucire uno strappo fatto dalla Storia ufficiale, vuole invitare a meditare su una tela di settant’anni fa che oggi sembra non appartenere più a questa città senza memoria, senza slancio. Ora sì, sconfitta.

 

 

Napoli '43
drammaturgia e regia Enzo Moscato
con Antonio Casagrande, Benedetto Casillo, Cristina Donadio, Enzo Moscato, Salvatore Cantalupo, Gino Curcione, Ciro D’Errico, Enza Di Blasio, Gino Grossi, Carlo Giutto, Rita Montes, Serena Furfaro, Paco Correale, Salvatore Chiantone, con i giovani Giuseppe Affinito, Caterina Di Matteo, Francesco Moscato, Giancarlo Moscato, Manuela Mosè, Lucia Celi, Rosa Davide, Donatella Sbriglia
luci Cesare Accetta
costumi Tata Barbalato
musiche originali Claudio Romano
immagini sceniche Mimmo Paladino
produzione Compagnia teatrale Enzo Moscato
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 40'
Napoli, Teatro Nuovo, 1° ottobre 2013
in scena dal 28 settembre al 13 ottobre 2013

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