“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 26 September 2013 02:00

Il prologo, la recita, l'applauso

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Il prologo.
Sette sedie, di legno scuro o nero. Sette sedie tra pareti spoglie, nude, di cui si nota la consistenza dura, rigida, immodificabile. Assenza di quinte, di fondali, di suppellettili: la “camera squallidissima” è questo tugurio di pilastri e mura che – già al primo sguardo – dà senso di ristagno, d’attesa, d’oppressione. Non c’è la porta d’entrata. Non c’è lo strapuntino né la coperta né ci sono i due guanciali. Non c’è finestra, non c’è l’uscio né il canterano sul quale dovrebbero essere posati un colabrodo, una pignatta, una graticola. Non c’è il catino né il bacile; non ci sono le lenzuola, distese a fare da parete e divisione interna tra famiglia e famiglia, tra donna e donna. Né lettucci né altri arnesi sono previsti. Solo sette sedie e, su una di queste, il soprabito grigio stinto che servirà per un frammento successivo.

Perché questa vuotezza? Quale il senso dell’assenza di gingilli e di quinte di cartone o tela, finte uscite e riquadri incorniciati? Che valore dare alle sette sedie sistemate in quest’utero, volutamente povero? La sensazione di chi scrive è che siamo in un teatro-prima-del-teatro, ovvero siamo sì in una stanza in cui si convive a forza e povertà – compressione e coesistenza, fastidio reciproco, insopportabilità che genera strepiti, urla, accuse per una condizione di miseria che si misura come si misura davvero la miseria: per assenza, per mancato possesso delle cose – ma ancora di più questo è il retro e il prima, il precedente e la premessa, alla grande recita che andrà su palco quando il palco sarà un palco ovvero quando avrà sipario, colori e attrezzeria.
La Angiulli comprende che Miseria e nobiltà non è opera composta davvero da tre atti (come pure dice il testo) ma da un prologo (primo atto) e da una recita che segue (secondo e terzo atto) e comprende che le prime trentaquattro pagine dello scritto di Scarpetta sono la preparazione delle cinquanta successive: come appartenenti a una compagnia d’annata (anzi: a due compagnie costrette alla fusione per fame e per mestiere e che, pur non sopportandosi, sono obbligate a fare unione) le donne dunque stanno come stanno coloro che – soffrendo la compartecipazione a quest’impresa in fallimento – attendono un tozzo di pane, la venuta dei presunti (e rispettivi) capocomici, il contratto per la recita della commedia.
Per questo Luisella, Concetta e Pupella recriminano guardandosi di sbircio e – se ciò serve ad accentuare il contrasto e la voglia di conflitto – il fatto che le recriminazioni avvengano in ribalta dà carattere ad un’interna vocazione scenica, tramutando l’altra con cui si litiga nella spettatrice della propria farsa, esagerata ed illusoria.
Per questo le figure maschili fanno di volta in volta entrata, come a presentarsi in progressione, raggiungono le prime donne (ché di “prime donne” si deve parlare per quest’opera in cui al femminile tocca carattere, forza, nerbo, capacità di sopravvivenza e concretezza mentre gli uomini sono fuscelli, pantomime, sagome prive di sangue, muscoli e sostanza) e qui ristagnano, giocando alla macchietta comprimaria, al numero minore, al trastullo intimidito.
Per questo l’alterità di Luisella può essere rimarcata non solo affidandosi alla trama ma anche alla posizione in palco (di spalle, quando tutti sono posti sul d’avanti; seduta, quando tutti sono in piedi) ed agli a-parte, appena udibili perché fiatati appena (“Che schifo, mamma mia”; “Assa fa’ Dio”).
Per questo la prevista scena dello scarto della sedia alla venuta del marchesino (“Pascale prende una sedia spaiata e la butta via, ne prende un’altra sulla quale è il catino, ma vede che è bagnata e la butta via, ne prende una terza sulla quale è il braciere con la cenere, e la getta via, prende la quarta la pulisce bene e l’offre al marchesino. Tutto questo con molta fretta”) diventa una coreografia di gruppo, quasi una danza per abbagli, scarti, improvvise apparizioni in piena luce, mentre intorno domina il fioco, la mestizia, il fondo buio.
Per questo rimandi metateatrali (“Un piccolo ruolo ci sarebbe? La mettiamo di fondo, nell’angolo, nell’ombra…”); giochi di finzione (l’inciampo in tappeti che non esistono: “I tappeti non si vedono perché sono consumati ma ci stanno, ci stanno”) e piccole modifiche del testo (basti pensare alla seguente battuta – “vide de trova’ na cammera, na puteca, pure nu suppigno” – che, di Luisella, diventa anche di Concetta) s’aggiungono e rimarcano la teatralità al quadrato prevista da Scarpetta (i riferimenti continui al San Carlo; le frasi che alludono all’arte della scena; la vicenda metaforica dello scrivano, che narra invece della sovrabbondanza e della concorrenza di autori di drammi, farse e commediole; la brutta condizione degli artisti, costretti ad elemosinare il pranzo a chi, incolto, pure ha la tasca piena: "Siamo qui per guadagnarci una zuppa", dirà Felice/ principe di Casador).
Per questo quando s’ha da sognare, vagheggiare ed inventare di cibo e di mangiate (“Me voglio manna’ accatta’ miezu chilo de salcicce, nu poco de lattuca e nu litro de vino buono”; “Avimmo accatta’ tre custate d’annecchia, nu rotolo d’alice pe nce li fa’ nturtiera e duie litre de vino buono”) si guadagna il centro dell’assito ovvero il punto esatto in cui verrà posato il grosso pentolone, quasi a dimostrare lo stretto legame tra evocazione e concretizzazione: meraviglia del Teatro, in grado di rendere materia le parole, tangibili le fantasie, vedibili i portenti o i desideri.

 

 

La recita.
Un sipario dietro il sipario. Ovvero: un sipario all’apertura del sipario. Ovvero ancora: un sipario che è il vero sipario. Un sipario che – per i primi cinque minuti del secondo atto – svolge almeno due funzioni:
– fisso ancora immobile, comprime la recita nell’anteriore del palcoscenico definendo una striscia minima in cui i personaggi si ripresentano, anticipando ruoli e faccende cui stiamo per assistere.
– fisso ancora immobile, è il segno evidente che vedremo una finzione.
Aperto il primo contempliamo, dunque, questo secondo telo rosso che è segno e simbolo de “la paziella”. Sipario dietro sipario – dunque – per il teatro nel teatro, la farsa nella farsa, l’inganno che si aggiunge ad altro inganno, la recita che recita, il gioco che moltiplica i suoi giochi.
D’altronde: non è forse Miseria e nobiltà la scena inscenata di una scena tanto da prevedere progetto, regia, assegnazione dei ruoli e didascalie attoriali? Non si parla forse – in Miseria e nobiltà – di costumi, trucchi, baffi finti? Non è forse – Miseria e nobiltà – una commedia basata sullo scambio di persona, il tourbillon identitario, la menzogna e l’agnizione? E non è forse il doppio la vera cifra di quest’opera in cui tutti – davvero tutti – sono anche qualcun altro? Pascale diventa Ottavio Favetti, Concetta è la contessa Del Pero, Pupella è la contessina; Felice è il principe di Casador, Luisella fa da principessa ma recitano anche Vincenzo (si finge padre d’un bambino che non è il suo), Peppeniello (si finge figlio d’altro padre), il vero marchese Ottavio Favetti (si lascia chiamare “Bebè” dandosi per spasimante), Gaetano (acquista il titolo di “eccellenza” spacciandosi per tale).
Siamo dunque dinnanzi a un cabaret, a una forma maiuscola di caricatura, a una proposizione manierata ed eccessiva del falso, del fasullo, del finto mostrato in quanto finto. Nasi posticci, bianco il volto, rotondi rosa disegnati sulle guance sono la maschera imposta a tante figurine da carillon, da gioco a molla, scattanti, parodiche e farsesche.
Non c’è naturalezza perché non c’è verità se non la verità della recitazione: come pupazzi infiocchettati gli interpreti si muovono quasi danzando, saltellando o mimando smorfie, motteggi, gesti da pupattoli o da burattini e – perché sia più evidente che si tratta d’un insieme di scenette – l’Angiulli ha l’idea di concedere agli attori alcuni momenti di pausa, qualche respiro di riposo, un attimo nel quale il naso vero è libero dal naso finto, la voce vera risuona in luogo di quella fasulla, una posa si fa morbida, un’espressione è più immediata.
“Qua’ principe?... Qua’ marchese?... Signo’, vuie che dicite! V’hanno mbrugliato!... Chiste so’ quatte disperatune! Uno è don Felice Sciosciammocca lu scrivano, e l’auto è don Pascale lu salassatore!... E vuie ve l’avite creduto?... Mamma ma’, e che piezzo de battilocchio site, neh! Chillo era lu marchese! Chillo era lu principe!... Chella era la cuntessa!... Chell’auta la contessina!... ‘Sti quatte muorte de famme!”. La funzione rivelatrice assegnata a Luisella non può, dunque, che essere rivolta solo e soltanto a Gaetano, l’unico vero credulone di questo mascheramento consapevole, dichiarato ed allestito, del quale – noi che sediamo giù in platea – siamo stati avvertiti passo passo, con evidenza rimarcata. Spettatori complici cui non tocca l’illusione ma la sua creazione pratica e la sua avvenenza progressiva.

 

 

L’applauso.
L’applauso scatta immediato, alto, fragoroso, accompagnato da voci, chiamate, nuovi battiti, un’ulteriore uscita ancora. La sensazione di chi scrive – nel frattempo – è che bene abbia fatto l’Angiulli a ripudiare la messinscena semplice, tradizionale, sufficiente. Che senso avrebbe avuto la riproposta ennesima di una riproposta che si ripropone da decenni?
Parte dallo spazio vuoto – l’Angiulli – perché è in uno spazio vuoto che si compiono gli azzardi, che si può provare il nuovo. La rinuncia all’accatasto scenico verista (così abitudinario per Scarpetta quanto per Eduardo) è già il segnale d’un tentativo, d’una possibile lettura differente. Acuendo il fenomeno del doubling (alcuni interpreti giungono ai tre ruoli) certifica che di finteria si tratta e che occorre accettarla come s’accetta una bugia che già si sa bugia. Perché nessuno pensi al vero posticcio ed ingannevole l’Angiulli affida il ruolo del bambino ad un attore lungo due metri o poco meno; genera le coppie della trama insistendo sulla differenza anagrafica; provoca lazzi palesemente irragionevoli (così – ad esempio – mangiare il gelato è un cucchiaio mosso all’aria mentre le coppe, vuote, rimangono incollate sul vassoio). Soprattutto la regia – pur votata al rispetto del testo (ora scorciato, ora leggermente rivisto nella forma) – sembra intenta a ricercarne il meccanismo basilare. Trovatolo l’espone, mettendolo in risalto.
Miseria e nobiltà appartiene ad un catalogo che da troppo è fagocitato dall’amatoriale. Opera data per scontata, facile, popolare, per alcuni addirittura priva di valore drammaturgico, la si vede e si rivede in versioni fin troppo statiche, cerimoniose e immobili, come morte già prima di nascere. Ed invece – con questo Miseria e nobiltà – la partitura di Scarpetta si conferma scrittura abile, sapiente – complessa addirittura pur nella sua vocazione ad un finale agnitivo e matrimoniale – e ben disposta, dunque, ad assumere una forma nuova, un'altra essenza.

 

 

 

 

 

Miseria e nobiltà
da Eduardo Scarpetta
regia e drammaturgia Laura Angiulli
con Laura Borrelli, Agostino Chiummariello, Alessandra D'Elia, Michele Danubio, Roberto Giordano, Stefano Jotti, Antonio Marfella, Nunzia Schiano, Tonino Taiuti
impianto scenico Rosario Squillace
luci Cesare Accetta
assistente alla regia Flavia Francioso
responsabile tecnico Luigi Agliarulo
produzione Il Teatro coop. − Galleria Toledo
durata 2h 10'
Napoli, Galleria Toledo, 24 settembre 2013
in scena dal 24 settembre al 3 ottobre 2013

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