“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 11 September 2013 02:00

Cargo di Matteo Galiazzo: storia di un romanzo esploso

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Come sia arrivata ad impossessarmi di Cargo nella sua irreperibile versione cartacea è una cosa che non posso nemmeno cominciare a raccontare, servirebbe un articolo a sé che intitolerei Come sono riuscita ad accaparrarmi Cargo in cartaceo e avrebbe il sapore di un fantasy talmente fantasy da risultare troppo poco credibile. Quindi non funzionerebbe.
Comunque niente paura, a voi non toccherà, se vorrete leggere questo libro, trattare con un pusher un po’ nerd che spaccia libri introvabili (peccato per voi però), dato che da poco è stato ristampato in ebook al prezzo di un caffè, tra l’altro.

La prendo un po’ alla larga, dunque. Letteratura e scienze matematiche sembrano due universi paralleli difficilmente interconnessi, invece non è così e non chiedetemi il motivo, che forse voi lo conoscete e io no, però ho constatato che le due cose si attraggono a vicenda in modo sorprendente. Ci sono scienziati e illustri matematici che hanno scritto dei capolavori letterari (uno tra tutti: Douglas Hofstadter, vincitore di un Premio Pulitzer nel 1980 con Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante), e ci sono scrittori che nel bel mezzo di una loro fulgida carriera si sono messi a scrivere di matematica, astrofisica e roba del genere e in quest’ultimo caso, non so se vi rendete conto, i rischi di un passaggio da un universo in cui regna l’anarchia ad uno regolato da rigide leggi draconiane - dove se dici qualcosa di sbagliato su di un certo teorema, o usi un termine al posto di un altro, non c’è nessuna licenza poetica che tenga, hai detto una boiata punto e basta − sono alti. La domanda che sorge spontanea è: chi glielo fa fare di esporsi in tal modo e perché? La risposta che mi sono data è: perché gli piace e non possono desistere dal farlo. Certo qualche volta i risultati hanno fatto sì che chimici e fisici si allontanassero “emettendo tremendi barriti”, ma il pubblico dei non tecnici, ossia dei lettori, ha accolto questi atti eroici con un vero trionfo. Mi vengono in mente: La stella di Ratner, di Don DeLillo, Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito di David Foster Wallace, e Cargo, appunto, il libro di cui voglio parlarvi.
Matteo Galiazzo definisce il suo romanzo come un “romanzo esploso” con brandelli ovunque: “immaginati un libro di fantascienza incapsulato in un giallo incorporato in una finta divulgazione scientifica incastonata in una commedia: qualcosa del genere”. Inoltre dice di pescare “dalla matematica, dall’economia, dalla biologia, dalla fisica e da tutte le scienze che mi seducono con l’atteggiamento del pasticcione curioso: insomma dico parecchie eresie”.
Quando apri il libro (questo vale per il cartaceo in mio invidiatibile possesso, non so se a voi apparirà la stessa cosa) trovi subito una bella citazione matematica di Kurt Gödel e già le mie antenne cominciano a vibrare, poi butto un’occhiata all'indice e leggo: pag. 3: Parte prima; pag. 93: Parte dopo; pag. 151: Non parte affatto; e mi viene da pensare a quella cosa che ho letto da qualche parte su Galiazzo, ossia che lui dopo aver sfornato dei libri di successo (Una particolare forma di anestesia chiamata morte, 1997; Il mondo è posteggiato in discesa, 2002; Cargo, 1999, che è diventato un cult di nicchia) ha smesso del tutto di scrivere e pare si sia messo a fare un lavoro ‘normale’ e cose ‘normali’; quindi, il dubbio che mi è sorto osservando questo indice è: cosa è mai accaduto tra il prima e il dopo? Degli Ufo lo hanno rapito e riprogrammato?
Tornando al libro, il primo capitolo si chiama “frattale uno”, il capitolo successivo “frattali da uno a sei” e così via per finire con un “frattali da centodiciotto a infinito”. I primi frattali, diciamo fino al sei, sono tutto un prendere tempo (è l’autore a dirlo), nel senso che lui stesso ci confessa di trovarsi un po’ in imbarazzo per il fatto di essere abituato a scrivere in prima persona mentre questo romanzo lo deve scrivere in terza persona e questa cosa non gli “viene per niente bene, lo sanno tutti”. Il problema in realtà è che lui in terza persona non si diverte affatto: “In prima persona ci sono solo gesti e parole. Non c’è nessuna intercapedine, nessuna camera stagna di decompressione nella quale farsi vedere civili ed educati, dimostrare che sì si sta parlando di bordelli e alcool, ma è una descrizione che non ci vede partecipi in alcun modo. In terza persona non ti puoi buttare in mezzo e pogare, no, devi stare lì ai bordi e descrivere la scena, guardare gli altri che sudano senza poterli raggiungere. Ecco, io così non mi diverto”.
Quando sei sul punto di preoccuparti seriamente per lui ecco che inverte la rotta e fornisce una spiegazione logico/geometrica inespugnabile per questa sua ritrosia nello scrivere in terza persona, spiegazione che, però, non starò qui a descrivervi per non tirare troppo per le lunghe e non abusare della vostra pazienza ma che, credetemi, è qualcosa di stupefacente che ha a che fare con le rette e i punti, roba del tipo per un punto passano infinite rette e per due punti passa una sola retta, il che, applicato a questo concetto della prima e terza persona, ha del paranormale. Vai avanti e inciampi in alcune antinomie da manuale, leggi dell’astrofisica applicata in modo ineccepibile alla fenomenologia dell’attrazione tra uomini e donne, chiarendoci che se magari pensavamo che fossero tante le forze a condizionarne i comportamenti, poi ci rendiamo conto che l’unica forza esistente è quella dell’attrazione e allora dice cose del tipo “per rimanere stabile una coppia deve essere formata da due nuclei, l’uomo e la donna, che orbitano l’uno attorno all’altro con una velocità di rotazione che compensa esattamente la forza di attrazione [...]. Quando la velocità non e' quella giusta, e non è mai quella giusta, l’orbita non è più stabile e la distanza tra i due nuclei varia, diminuisce. I due tendono a collassare. L’attrazione diventa troppo forte e i due nuclei tendono a collidere, ma i nuclei sono piccolissimi e la possibilità che si scontrino è infinitamente bassa. Quindi non si scontrano mai. Si mancano l’un l’altro di pochissimo e la stessa forza d’attrazione li proietta lontani l’uno dall’altro, come una catapulta. Questo collasso della coppia può arrivare dopo un’ora o dopo anni. Le coppie che riescono ad avere una durata maggiore sono quelle che si accontentano di avere un’orbita molto ampia, o hanno un’attrazione reciproca molto bassa. Perché è più facile creare un sistema orbitale che sia stabile più a lungo se l’attrazione è bassa, o se l’orbita è larghissima”. Quindi? In concreto? Cosa ci vuol dire Galiazzo? Che la relazione funziona solo prendendola molto alla larga, vedendosi per esempio una volta al mese o se si rientra in quelle coppie privilegiatissime che hanno una vera e propria corsia preferenziale, ossia “i racchioni e le racchione che escono insieme”; questa, infatti, rappresenta la combinazione perfetta che potenzialmente potrebbe durare in eterno, per via dell’attrazione praticamente sotto terra, ovvio no? Oppure dice cose come “secondo me la costruzione di una sano rapporto con la pornografia si crea proprio all'oratorio con i preti” (e attenzione, il libro è uscito nel ‘99, prima di Papa Francesco, quindi in un tempo in cui dire certe cose in un certo Stato era piuttosto sconveniente, piuttosto). Però stavo per dimenticare quella cosa sugli americani: “gli americani sono stronzi. Gli americani sono stronzi? Proprio così. La parola americano contiene già la parola ‘ano’. Questo vuol dire che la porzione ‘americ’ significa ‘ciò che fuoriesce dal’. O qualcosa del genere” (per fortuna il libro e' uscito nel ‘99, quindi prima dell’11 settembre e comunque non mi risulta che sia stato tradotto ed esportato oltreoceano, ma non sappiamo se la CIA l’abbia schedato comunque).
Insomma, ok, bisogna riconoscere che Galiazzo ha coraggio da vendere, vi ricordo solo che un certo David Foster Wallace (lo so, nei miei articoli, sappiatelo, troverò sempre il modo di inserircelo, non riesco a trattenermi dal farlo, perdonatemi), comunque dicevo, proprio Lui in Persona, ha rischiato il linciaggio per molto meno, scatenando l’ira di non so quale associazione americana (gli americani vanno forte in questo genere di cose), solo per aver paragonato il romanzo ‘in costruzione’ ad un neonato deforme che insegue l’autore ovunque egli vada senza dagli tregua e, insomma, come la cosa di Galiazzo sui racchioni e le racchione anche questa mi sembrava una trovata ben riuscita e, invece, le ha prese di santa ragione (Wallace, non Galiazzo); comunque, associazioni a parte, bisogna ammettere che quanto a trovate geniali di questo tipo Galiazzo va veramente forte, bisogna alzare le mani e riconoscere a Cesare quel che è di Cesare.
Altra caratteristica di Galiazzo, che, ricordiamolo, nella presentazione che fa di sé nel sito Einaudi dice di non aver “mai letto Tolstoj, né Pasolini, né Salinger, né Hesse, non ho mai letto Pirandello, non ho mai letto Hemingway, Kerouac, Proust, Hugo, non ho mai letto Fenoglio, né Primo Levi, né Carver, né Conrad. Pensate a un autore che ritenete imprescindibile: molto probabilmente io non ne ho letto nemmeno una riga”, è quella di servirsi di un intero arsenale di trucchetti letterari postmoderni, un continuo affacciarsi e fare cucù dal sipario per ricordare al lettore che questo è un romanzo, è finzione quindi, ed è lui che lo sta scrivendo ed è lui che, pertanto, gestisce il timone e può fare tutto ciò che vuole: giochi di parole, giochetti da enigmistica (es. le iniziali dei nomi degli amanti di un personaggio compongono la frase “questa storia sta finendo” e siamo quasi alla fine del libro, giochi di tutti i tipi insomma, fino ad arrivare al limite estremo che è quello di ristrutturare l’accordo iniziale stipulato col lettore e togliergli l’incipit che gli aveva inizialmente fornito). Proprio così, lui, Galiazzo, autore e personaggio del suo libro, in un frattale collocato a metà libro, entra con un’amica (il calimero biondo) in una Feltrinelli e scopre che qualcun altro aveva usato anni prima lo stesso incipit che aveva scelto per il libro che lui sta scrivendo e il lettore sta leggendo; quindi, ristruttura l’accordo e sostituisce l’incipit, già letto, sottoscritto e approvato dal lettore, con uno diverso sull’idraulica dello ‘sciacquone del cesso’ (non sto scherzando, lo ha fatto davvero). Altro trucchetto divertente e molto astuto è quello di citare più volte le recensioni pubblicate sui suoi lavori precedenti, insistendo con le più spietate e stroncanti. Se queste recensioni siano state o meno realmente pubblicate è una cosa che non ho verificato, dato che, ai fini di quello che voglio dimostrarvi, la cosa è del tutto irrilevante: “Fastisioso e dimostrativo”, da “L’Espresso” (citata due volte); “Onanismo letterario?”, da “Il Giorno”; “Quella di Galiazzo è una scrittura sostanzialmente ingenua che si sforza di assumere stili e registri fuori dalla propria portata, con tanto di stucchevoli apologhetti” da “L’Unione Sarda” (citata due volte). Se state pensando ad atti di autolesionismo letterario vi sbagliate, è un’astuta e consumata tecnica postmoderna di dire da soli tutto il peggio dicibile su se stessi in modo da non lasciare ai terzi nulla da poter attaccare, un po’ la tecnica utilizzata dai Russi nella guerra contro Napoleone, no? Che si sono incendiati le case da soli. Alta strategia bellica letteraria.
Da subito, ancora prima che lui faccia capolino per dircelo, si coglie il debito che questo libro ha con Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante; in effetti non è che Galiazzo lo dica chiaro e tondo, parla di un certo debito con un certo autore, poi però si mette a disseminare sassolini bianchi un po’ in tutto il percorso e già da quando un suo personaggio si ferma davanti ad una vetrina, mesmerizzato dal vestito di un nuovo genialissimo stilista che, essendo un fanatico di Escher, fa vestiti su cui stampa i disegni del pittore, ecco da quel momento si è dissolto ogni mio possibile dubbio al riguardo; ritroviamo di nuovo il riferimento ad Escher nella descrizione di certi imballaggi i cui due colori sono il frutto di lunghi studi neurocromatici e che abbinati tra loro “con quelle bande oblique provocano anche nei soggetti meno predisposti una fortissima vertigine estetica [...]. Erano talmente brutti che la gente li comprava solo per poterli aprire, per togliersi dagli occhi quelle bande oblique”. Ho trovato anche parecchi debiti con Wallace, ma lui ha detto di non aver letto niente di niente e voi sarete stanchissimi del mio continuo inserire Wallace ogni volta che mi si offre un’opportunità, quindi questa cosa la lascio così, alla Galiazzo, in sospeso, chi poi avrà voglia di verificare se li troverà da solo questi debiti, con un controllo incrociato da Agenzia delle Entrate che gli costerà parecchio tempo.
La trama è esattamente come lui l’ha descritta, frammentaria, anche perché le storie si svolgono su mondi diversi, in mondi incastonati in altri mondi per la precisione. Dunque, c’è un investigatore che pedina una ragazza per oscure ragioni e che poi viene contemporaneamente assunto dalla ragazza che in un primo momento non sa di essere pedinata da lui e si mette a cercare anche un tizio di cui non sa nemmeno il nome e alla fine scopre di essere lui stesso una vittima; c’è la storia di un’intervista radiofonica ad una regista che si tramuta in un amplesso con l’intervistatore in diretta; la storia di due fratelli terroristi malati al sistema simpatico che per non morire devono imparare a gestire volontariamente tutti i loro organi, anche nel sonno (incappassi mai in un libro con dei terroristi normali, eh? Non ci sono più i terroristi di una volta), ed infine c’è la storia di un ragazzo che non si riesce a laureare per colpa di un paradosso.
Dopo la fine della storia Galiazzo non è che si limita ad alzare il sipario e a fare i ringraziamenti, no, lui comincia a farvi vedere tutti i trucchi del mestiere e poi si mette a smontare lì in bella vista tutto l’allestimento teatrale, fa una cosa che ho visto fare solo nei film americani e di Bollywood, che mentre scorrono i titoli di coda ci fanno vedere le riprese che sono state tagliate, gli attori che sbagliano e si fanno grasse risate. Ecco, Galiazzo fa la stessa identica cosa, ci mostra i suoi appunti, gli appunti del romanzo che avete appena letto, con tanto di tagli e commenti tra sé e sé, tipo: “usare da qualche parte la parola marronaia”; “inserire da qualche parte questi ringraziamenti”; “inserire nuovamente la questione...”. Qui non è che viene “incrinata la superficie dell’illusione letteraria per metterne a nudo i meccanismi” in modo Barthelmiano, no, qui l’autore ci si presenta alla porta di casa in ciabatte e pigiama e si piazza sul nostro divano a raccontarci com’è andata mentre sgranocchia e sbriciola da tutte le parti.
Insomma, a me questa lettura ha procurato dall’inizio alla fine risate di varia natura e intensità, e non pochi sobbalzi dalla sedia, ma sopratutto ha lasciato un tarlo, più che un tarlo un loop che mi si ripropone di continuo: perché Galiazzo ha smesso di scrivere?
Uno che scrive così può scrivere su tutto e inventarsi di tutto, quindi nessun blocco dello scrittore o roba del genere. Allora perché? Eh? Perché?

 

 

 

Matteo Galiazzo
Cargo

Einaudi, Torino, 1999
pp. 229
Ebook Roma, Laurana, 2013


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