“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 16 December 2012 18:36

Sono solo un uomo d'affari

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   la città risplende di baluginanti luci al neon, e fluorescenti gas, e scarichi di auto che rendono il tramonto straordinariamente artificiale, bellissimo, innaturale, affascinante, mistico come nessun pittore o direttore della fotografia sarebbe in grado mai di pensare e realizzare

   non è affatto vero che la natura soltanto sia in grado di creare singolari spettacoli per la stupefazione umana, anche l’artifizio di industria caos smog e inquinamento produce inimmaginabili rappresentazioni visive che giammai madre natura potrebbe soltanto vagheggiare

   abito in un lussuoso superattico al centro della metropoli, sono un uomo d’affari, ricco e snob all’inverosimile, adoro gli stravizi soltanto se sono molto cari perché posso permettermeli con tutti i soldi che guadagno

   non ho cucina in casa, telefono e ordino direttamente al servizio in camera del grattacielo

   non ho più famiglia, vivo solo da anni, conduco una vita sana quanto basta anche se non disdegno un buon bicchiere di whisky canadese e costosissimi sigari cubani d’importazione   

   posseggo quattro vetture d’epoca: una Mustang, una MG, una Jaguar e uno spider Alfa Romeo del 1963, che soddisfano i miei gusti per il sofisticato e voluto demodé

   avevo un cane un tempo, un raro esemplare di levriero viennese da camera, di pelo lungo e soffice che facevo spazzolare tutti i giorni da un coiffeur pourchiens, ma non avevo tempo per tributargli le dovute attenzioni, lo lasciavo nel superattico a soffrire di solitudine, sul parquet del mio appartamento si è lentamente rovinato le zampe, gli si sono arcuate al punto da stentare al semplice passeggio per le strade della metropoli d’acciaio, si è poi lentamente deperito fino a quando una sera, dopo alcuni giorni di mia assenza per certi complicati affari fuori città, me lo sono trovato stramazzato in terra, cadavere, col muso violaceo: mi dissero che era morto d’inedia, mancanza d’affetto forse

   il mio attico è ipertecnologico: accendo il sistema centralizzato delle luci mediante comando vocale e quando sono a letto spengo il lume sul mio comodino in carbonio e cristallo al solo sfiorare d’un dolce soffio d’alito; ho tredici televisori al plasma nel mio appartamento, uno per ogni stanza, compreso nei bagni, in quello padronale lo schermo piatto è incastonato nella parete in maioliche del vano doccia per allietarmi anche quando mi lavo o faccio qualche orgia con delle prostitute, anch’esse interpellate mercé il servizio in camera

   la mia professione mi occupa al punto che le donne a pagamento sono il solo svago sentimentale che io possa prendermi, loro sono bellissime ed affettuose, telefono e fisso un appuntamento, ci divertiamo o fingiamo di farlo, le pago e vanno via baciandomi: non posso chiedere altro

   un tempo avevo una donna, estremamente bella e intelligente, un avvocato, un penalista brillante che faceva tremare chiunque la incrociasse in una solenne aula di tribunale

   all’epoca in cui la conobbi era impegnata in un maxiprocesso contro una multinazionale del crimine, mi parlava ogni giorno di assassini, trafficanti di droga organi e bambini, politici corrotti, spionaggio industriale, quando le dicevo che il mio lavoro era duro e dai sacrifici inimmaginabili, lei molto serenamente mi diceva

“meno male che ci sono io qui a condurre un lavoro sereno che mi fa dormire la notte” ma ho sempre pensato che facesse dell’ottimo humour nero all’inglese

   era senza dubbio una donna colta e dagli infiniti interessi culturali, magari talvolta un po’ kitsch in certe sue scelte d’arredamento, ma glielo perdonavo per tutto l’affetto che mi portava, e poi il kitsch andava di moda

   donna certamente erudita, ma dai gusti meno raffinati dei miei: nel mio sofisticato e vaneggiante mondo fatto di lusso da consumato dandy metropolitano quasi non si raccapezzava, diceva di non comprendere i mie morbosi e inutili sprechi da ricco snob, ma aggiungeva anche di amarmi con una ingenuità non degna del penalista cazzuto che era

“mi sono dato da fare per anni a tirar su quattrini, ho patito la fame da ragazzo e patisco ancora per fare il lavoro che faccio” le dicevo con certa noncuranza nel frasario non troppo gentile “ed ora che ho sfondato e che sono ricco da far schifo, ora che sono giunto in cima alla collina, voglio godermela questa vita, il mio lavoro è duro, credimi, e mi comporta sacrifici che nemmeno t’immagini” le sussurravo confessandomi, talvolta quasi svelandole i miei intimi segreti professionali: ma non le ho mai profferto con precisione quale fosse la mia vera occupazione in società

   in mia considerazione ho sempre reputato di svolgere un ruolo sociale assolutamente inevitabile e snodale e di possedere di conseguenza un codice etico da rispettare con un deontologico silenzio da clausura   

   ogni mattino faccio mezz’ora di tappeto, poi un’ora circa di cyclette, dopodiché mi rilasso nella mia jacuzzi all’ombra del gazebo in legno libanese posto al centro del mio terrazzo, da cui promana una vista eccezionale, un lungo sguardo che si estende fino all’estremo orizzonte del metafisico paesaggio metropolitano

   vesto all’italiana, anche se non disdegno qualche sofisticato modello all’inglese, ho il mio sarto di fiducia che mi taglia e confeziona abiti che mi calzano alla perfezione, abiti carissimi entro la cui costosità mi sento finalmente sicuro, al riparo dalle brutture della nostra società ultraviolenta

   dopo la cura del corpo passo un’ora a fare colazione nel mio salone arredato con minimale gusto zen, mangio leggero e macrobiotico, leggo i giornali nazionali e stranieri e intanto ascolto musica classica emessa in filo-difussione osservando compiaciuto la mia pregiata collezione d’arte che arricchisce le pareti: sono un ricco, lo so perfettamente e lo ammetto con candore, e adoro comportarmi così

   il mio lavoro mi consente siffatti lussi ed anche qualcosa in più, frequento settimanalmente una palestra di karate ed ogni venerdì pomeriggio mi alleno al poligono di stato, sono un tiratore provetto e cerco sempre di migliorarmi, ho sempre amato la competizione, sinceramente parlando in una gara preferisco vincere, anzi il mio avversario preferisco annientarlo, finirlo: solo così si arriva in vetta, si diventa il padrone della collina

   ma la mia ragazza di un tempo, il penalista, non la pensava come me, era una pacifista lei ed anche una sincera democratica, amava la semplicità delle cose e la sincerità delle persone

   la prima volta che abbiamo litigato fu quando scoprì che nascondevo una pistola calibro 9 nel cassetto del mio secretaire barocco del salone

“cos’è mai questa? rispondimi” mi disse con aria seria e accigliata

“e non lo vedi? è una pistola, tesoro” nascondevo la mia sorpresa

“lo vedo che è una pistola, ma che ci fai tu con questa? e dove l’hai presa? chi te l’ha data?” incalzava, la sua prassi di avvocato prendeva il sopravvento sulla sua natura normalmente semplice ed amorevole con me

“beh… mi serve anche per il mio lavoro, credimi, talvolta può diventare pericoloso quasi come il tuo”

“bugie!” era la prima volta che diceva una cosa del genere e assumeva questo tono con me “a che ti serve una pistola nel tuo lavoro? allora dimmi cosa fai?” ero alle corde

“tesoro…” non sapevo che dirle “scherzavo! vado a sparare qualche colpo al poligono ogni tanto, ecco tutto; anzi, se proprio lo vuol sapere Signor Avvocato, sono detentore anche di regolare porto d’armi” e glielo mostrai alla svelta, lei lo vide e sorrise di gusto: sulla tessera c’era una foto di me di come ero prima, con i capelli lunghi e orribili basette arruffate che s’allungavano sulle gote, una camicia sbottonata di quelle da mercato rionale e uno stupido sorriso da morto di fame: che orrore! soltanto all’idea di indossare di nuovo una camicia come quella, preconfezionata e squallidamente anonima, ora mi verrebbe l’orticaria

   ma lei sorrise ancora, si lanciò al mio collo e me lo riempì di soffici baci al sapore del suo rossetto alla mandorla, facemmo l’amore per qualche ora, poi la lasciai a casa a riposare, avevo da lavorare

   dopo poco lei mi lasciò, “incompatibilità di caratteri” fu la motivazione ufficiale, lei sempre più in carriera, presa dal suo maxiprocesso contro la delinquenza internazionale, eppure sempre più dolce, innamorata ed affettuosa; io invece sempre più coinvolto dal mio lavoro ultra-redditizio, sempre più cinico, sempre più stronzo: la risoluzione del nostro contratto sentimentale fu, come dire, un atto dovuto

   da allora non ho più avuto una vera donna, una fidanzata: ogni tanto mi è bastato interpellare il sempre efficiente servizio in camera del mio grattacielo polifunzionale

   mi buttai a capofitto nel mio lavoro, avevo sempre più clienti, sempre più pratiche da evadere, sempre più richieste su di un mercato già fin troppo saturo di concorrenza, ma nel mio lavoro bisogna saperci fare, ed io, potete crederci, ci so davvero fare: nel mio ramo posso finalmente dire di essere il migliore: ho sfondato!

   posso professionalmente qualificarmi come curatore fallimentare, il mio lavoro consiste in liquidazioni: opero solo su commissione, il cliente m’interpella per via telefonica – ogni volta un numero nuovo, ogni cliente un recapito diverso, non si può mai sapere – e m’indica chi, cosa, come e dove operare

   sul lavoro preferisco l’anonimato, niente generalità, nessuna intimità, zero confidenze, chi mi vuole deve solo e semplicemente contattare il Sig. Mak: io sono Mak!

   ogni volta mi reco personalmente dal committente di turno, questi mi presenta la pratica in questione, dove liquidare ed entro quanto tempo, per i sistemi e la logistica penso a tutto io; i miei prezzi sono alti, lo ammetto, ma i risultati sono ottimali, mai nessun intoppo, mai nessun reclamo, vado colpisco e torno a riscuotere, mai nessuno si è lamentato e mai nessuno si è rifiutato di pagare la mia salata parcella: anche a questo, talvolta, serve la mia cara calibro 9

   ogni liquidazione viene all’incirca 20.000 euro, è una cifra onerosa, lo so perfettamente, ma senza di me il committente dovrebbe pagare molto di più, o allo stato, o ai suoi rivali, o peggio ancora a qualche pericoloso principiante incapace nel suo lavoro

   io invece liquido da dio: lì dove passa la mia implacabile professionalità possiate star sicuri che documenti, pratiche, prove andranno evase per sempre, e che testimoni, avvocati, giudici o poliziotti non avranno più da che ridire; chi si mette nelle mie mani per un lavoro sa di certo che non avrà più grattacapi per il futuro: io sono la Nemesi

   normalmente preferisco incontrare i miei clienti in un elegante bar di un costoso albergo del centro, solo nel caos della metropoli si risulta perfettamente anonimi; colpisco il mio cliente coi miei modi raffinati, col taglio elegante dei miei vestiti, coi miei baffetti sempre curati e il mio portasigarette d’oro; offro scotch ai miei clienti e se uno di loro non regge oltre il terzo bicchiere, allora inizio ad alzare il prezzo, si tratta sicuro del solito imbecille eroso dalla paura della concorrenza, se chiedo oltre il solito pattuito son certo che non si azzarderà a protestare

   pretendo poi un anticipo, normalmente la metà della tariffa e che nessuno si permetta di rifiutarmela; poi passo agli estremi della pratica, luogo, data, tempi tecnici, talvolta, se trattasi d’un cliente difficile, posso pure anticipare qualche dettaglio sulle modalità d’esecuzione, ma mai del tutto, i miei metodi sono unici ed inimitabili; i clienti vengono da me perché sanno che possono fidarsi e che non fallisco, mai

   pago il conto al bar, colpisco il cliente con la mia falsa generosità poiché tutto verrà alfine caricato sull’importo finale, prendo l’anticipo che ripongo nella mia ventiquattrore in pelle nera con anima d’acciaio, e subito penso a svolgere il mio lavoro; quando finalmente la pratica è evasa e tutti sono contenti, e il committente e il suo rivale, torno al bar del centro per il secondo appuntamento, ricevo la seconda rata del mio onorario e vado subito via, lasciando stavolta il conto da pagare a lui: è mia abitudine

   non è raro che abbia a che fare con gente poco pulita, molto spesso rispettabilissima in società, ma lercia, sordida sin nel profondo: sono spesso grossi industriali o politici, anche avvocati dalla discutibile professionalità, talvolta preti o attori famosi, altre volte gente più comune ma dall’anima non tersa, credetemi

   io non faccio differenze sul mio lavoro, se mi paga va bene chiunque, nessun problema per il sottoscritto, sono democratico

   il mio maggior cliente è sempre stato Don Diego Salazar y Mendoza, messicano arricchitosi con commerci clandestini durante la guerra fredda, col passare degli anni faticosamente ripulitosi ed oggi rispettabilissimo caposaldo economico della nostra società delle immagini e della comunicazione

   Don Diego, nel suo giro semplicemente appellato El Gordo – per i suoi oltre 140 chili di stazza – oggi è a capo di multinazionali del petrolio e della chimica, dirige rotocalchi, squadre di calcio, industrie farmaceutiche, catene alimentari, negozi di intimo donna e chissà quante altre porcherie, ma soprattutto è presidente di una fondazione umanitaria per i poveri del Centro-Sud America

“non dimentico mai le mie origini” ripete ad ogni intervista

   lui è uno dei miei committenti, sicuramente il più assiduo e generoso, ho per lui da svolgere circa dieci pratiche all’anno e non è inusuale che mi paghi più del consueto per una liquidazione, vuole essere certo di star tranquillo, visto tutti i nemici che si ritrova e paga tanto per non avere più grane con il fisco, con la polizia o con le altre associazioni umanitarie

“pensaci tu Mak” mi dice semplicemente e mi allunga mazzette di banconote per più di 30.000 euro; normalmente mi faccio pagare in contanti, niente assegni (troppo compromettenti), possibilmente in mazzette di banconote usate e non rintracciabili, sono fissato per certe piccole manie, sono metodico, liturgico

“d’accordo Don Diego” guai a chiamarlo El Gordo, sarebbe capace d’impiccare qualcuno per questo “avrà i risultati desiderati nel giro di un paio di giorni, stia tranquillo” lo rassicuro

“lo sai, mi fido solo di te, sei meglio di una avvocato e costi di meno; io qui sono circondato solo da deficienti o avvoltoi! dovresti passare fisso alle miei dipendenze, caro Mak” mi dice sempre

“non posso Don Diego, lei lo sa, ho il mio giro d’affari, ci rimetterei”

“ti capisco Mak, gli affari sono affari, sempre, anche se sporchi” e sorride

   con El Gordo è diverso, con un pezzo grosso come lui non posso permettermi di fissare incontri in un bar, è un tizio troppo conosciuto e furbo per farsi sorprendere a contrattare con me, sono io che mi reco da lui

   El Gordo abita al superattico del più alto grattacielo della metropoli, con una veduta mozzafiato da far invidia anche a quella di casa mia: da lì si può ammirare la metropoli in tutta la sua vastità di ferro e cemento pulsanti, da lì ci si può smarrire in tutti i suoi colori allucinati e sfolgoranti, coinvolti nell’eterno ribollio del tutto, e la vista si perde per decine di chilometri da lassù, fin giù verso l’oceano 

   mi riceve nel suo immenso ufficio modernissimo e tecnologico, mi offre whisky canadese di prima scelta ed enormi cubani, conosce i miei vizi

“allora Mak, tu immagini perché ti ho fatto venire qui, vero?” mi ha detto l’ultima volta che ho lavorato per lui

“non certo per una visita di cortesia, Don Diego”

“come ti butta la vita, Mak?

“sul normale, come al solito”

“il lavoro tutto bene?”

“certo Don Diego, altrimenti non sarei qui”

“e l’amore? quella ragazza di cui mi parlavi, come ti va con lei?”

“non la vedo più da anni, Don Diego”

“dovevi trattenertela quella, col tuo lavoro una donna ti serve, ti rilassa i nervi, Mak”

“ha ragione Don Diego”

   ho sempre pensato che il mio lavoro non fosse del tutto legale, insomma che non avessi le carte in regola come qualsiasi altro uomo d’affari o libero professionista di questa società, ma come già detto di concorrenza ce n’è tanta sul mercato, spietata come non si possa immaginare, un mercato che tira tantissimo, ed io sono il migliore, sono sulla cima della collina; da quando poi lavoro per uno come El Gordo mi sono convinto di essere qualche passo fuori dai confini della legge, la rasento forse, ma non ci scivolo mai dentro

“veniamo a noi: questa volta si tratta di un avvocato, mi dà una fastidio che nemmeno puoi immaginartelo, occorre il tuo intervento” era sempre nei guai El Gordo, sempre coinvolto in qualche processo per corruzione o falso in bilancio o evasione fiscale o talvolta pure peggio

“capisco, Don Diego e per quando dovrei operare?”

“entro la fine della settimana Mak, se tutto va per il meglio ti rifilo pure 50.000 euro, mi toglieresti dai guai” disse e mi offrì uno dei suoi mastodontici sigari

   non c’era confronto fra me e Don Diego: io fine e raffinato, distinto nel mio spezzato sportivo all’inglese, con foulard al collo, fisico tonico e slanciato, perfettamente sbarbato; lui grosso, pachidermico, flaccido, calvo e sempre sudato, con quel sigaro stretto fra dita grasse come würstel, con un orrendo anello con pietra nera al mignolo e con indosso il solito gessato grigio, amava darsi arie da gangster anni ’30, s’era fatto confezionare una ventina di quei deformi e orrendi doppio-petto gessati da uno che piuttosto che sarto l’avrei definito tagliaboschi

“d’accordo Don Diego, a sua disposizione come sempre”

“grazie Mak, risolvimi tu questo impiccio perché quell’avvocato di merda me lo ritrovo sempre fra le palle, quindi pensaci tu, documenti, carte e tutto” e sorrise ancora, io ritirai il robusto anticipo e andai via trafugando due sigari dalla scatola posta sulla sua massiccia scrivania in pietra del Sinai 

   stavolta toccava ad un avvocato; con El Gordo, come con altri dei miei committenti, non era certo la prima occasione che mi capitasse come cliente un avvocato

   nel mio business c’è sempre un committente che propone un lavoro e che paga, poi c’è una pratica da evadere, il lavoro per cui mi adopero con professionalità percependo parcelle salate, ed un terzo, che io chiamo il cliente, dal quale recarsi e contrattare per la liquidazione finale; ricevo la pratica, mi reco dal cliente e propongo l’affare, cercando di arrivare alla liquidazione nel modo più veloce e indolore possibile per entrambi, certe volte basta una sola seduta per chiudere la pratica, certe altre occorrono più sessioni, appostamenti, perdite di tempo, addirittura minacce, da me puntualmente annotate in parcella, per addivenire alla più equa e congrua soluzione del busillis; poi, che il cliente sia d’accordo oppur no, io la pratica la devo chiudere comunque e giungere alla liquidazione per cui sono stipendiato: come ha detto Don Diego “documenti, carte e tutto” e stavolta toccava ad un avvocato

   avevo avuto da Don Diego l’indirizzo del cliente e mi recai presso la sua dimora, lo trovai sveglio e propenso alla chiacchiera, ma non persi tempo con lui, come con qualsiasi altro cliente prima di lui, sul lavoro sono inflessibile, di ghiaccio, non sono ammesse distrazioni, niente deroghe, ricevo lauti pagamenti per restare sulla vetta ed essere il migliore nel mio campo

   nell’arco di due giorni la pratica era chiusa, il cliente abbondantemente liquidato, il committente soddisfatto, i documenti del processo insabbiati per sempre: considerate voi, adesso, se il mio lavoro sia del tutto legale oppure no

   telefonai a Don Diego, era il mio solo committente che chiamassi di persona, aveva telefoni protetti El Gordo e c’era di che star tranquilli

“Don Diego, le dovrei parlare della pratica che mi ha proposto” gli dissi con una gelida gentilezza che per nulla rasentava il servilismo

“c’è forse stato qualche intoppo?” sembrava ansimare, con quel solito rantolante sbuffare nel parlare che s’accompagnava all’incessante sudorazione da pinguedine

“affatto Don Diego, ma c’è solo una piccola modifica sul nostro contratto”

“non capisco un cazzo di quello che dici, presentati stasera da me nel grattacielo” tuonò in forma di comanda, era abituato ad ordinare quel pancione

“d’accordo Don Diego, a stasera”

   arrivai al grattacielo alle 20:00 precise, fui perquisito alla reception come al solito, depositai lì la mia amabile calibro 9 con manico d’avorio, poi il mio arrivo fu annunciato, El Gordo diede il suo ok ed io presi l’ascensore: 127° piano

   un viaggio liscio e rapido in un ascensore con vetrate che dava sulla metropoli: all’imbrunire la metropoli diventa bellissima, con le sue luci che sembrano tanti palpiti di vita elettronica e ansimi da orgasmi al neon, con le auto colorate che corrono sulle autostrade, ennesime formiche fluorescenti che lavorano e sgobbano per arrivare sempre a domani, a domani: ma perché?

“entra pure Mak, gradisci un whisky?” mi disse El Gordo con una gentilezza talmente affettata che nascondeva male la sua palese minaccia

“certo, doppio” non me lo feci ripetere

“allora: qual è il problema? cos’è questa storia della ‘piccola modifica’? di che modifica si tratta?” la sua voce sembrava rombare, io terminai di mandar giù il mio doppio whisky e gli dissi con freddezza chirurgica

“Don Diego, la sua pratica è stata evasa”

“bene” urlò “allora dobbiamo festeggiare” e mi offrì uno dei suoi prelibati sigari di contrabbando “lo sai che mi hai messo paura sotto con quella telefonata? vuoi un altro goccio?”

“certo, abbondante” accendemmo i nostri sigari e mi scolai d’un sol colpo anche il secondo bicchiere “un altro per favore” fui subito accontentato

“ma questo affare della modifica? ancora non capisco, di che si tratta?” sorrideva aprendo appena la tagliola oscena delle sue labbra tutte coronate di goccioline di sudore

“voglio il doppio”

“COSA?” 

“voglio parcella doppia, Don Diego”

“e per quale cristo di motivo? non ti sarai mica montato la testa Mak?”

“il motivo c’è Don Diego e quando glielo avrò svelato sarà d’accordo con me, mi creda Don Diego”

“senti amico, mi devi inventare un motivo coi controcazzi perché io ti rifili sull’unghia 100.000 euro questa sera” e spense con violenza il suo sigaro appena acceso nel suo enorme posacenere di cristallo tempestato di diamanti

“l’altroieri lei mi ha consegnato l’indirizzo del cliente, appena uscito di qui ci sono andato senza nemmeno tornare a casa a cambiarmi, non avevo altro da fare, ero in vena e coi nervi saldi; sono arrivato al suo indirizzo, ho bussato e mi è stato aperto il portone, poi sono salito all’appartamento e mi è stata aperta la porta di casa, ho visto l’avvocato: era una donna, lei Don Diego non me l’aveva detto questo?”

“e allora? fa forse qualche differenza?”

“in effetti no, il cliente è cliente, ma ne sono rimasto sorpreso un po’! le ho parlato per qualche minuto e l’avvocato mi è sembrato una persona a modo, mi ha offerto da bere del whiskey canadese, sembrava conoscere i miei gusti, poi mi ha offerto sigarette greche d’importazione e abbiamo parlato appena della pratica e di tutte le sue controversie, l’avvocato non mi sembrava affatto incattivito con lei, Don Diego, mi ha solo detto che faceva tutto questo solo in nome della giustizia”

“balle, quella lì è solo un lurido mastino” e ha riacceso un altro sigaro di marca

“comunque: sorrideva ed è stata gentilissima con me, nonostante le proponessi quel che le proponevo”

“e che gli proponevi stronzo? tu sei pagato per agire non per proporre”

“d’accordo Don Diego, ma le ho detto che si trattava di una donna e le donne hanno sempre esercitato un certo ascendente su di me, mi sono come bloccato e incantato dinanzi a lei, penso che lei sappia che sia anche molto bella?”

“in effetti se non fosse quella carogna che è, la pagherei per essere la mia puttana, quella stronza”

“non esageri ora, Don Diego! abbiamo parlato ancora qualche minuto, la pratica per cui ero da lei sembrava non interessarle e nemmeno a me interessava più, a dire il vero; poi ho pensato che il lavoro è lavoro e viene prima di tutto: ho cessato ogni tentennamento”

“bravo ragazzo, niente cazzate mi raccomando”

“poi l’avvocato si è alzato ed è andato a prendersi un bagno caldo, mi ha confessato che l’aiuta a rilassarsi e a prendere decisioni importanti; mi ha detto di aspettare solo pochi minuti che sarebbe tornata; ho sentito l’acqua scrosciare nella vasca ed il cricchio leggero dell’immergersi del suo corpo, non ho resistito, sono entrato nel bagno per vederla, era bellissima tutta nuda e bagnata, mi ha fatto segno di avvicinarmi tendendo le braccia e mostrandomi i suoi seni inturgiditi dall’acqua crosciante”

“e com’era quella stronza? porca?”

“le ripeto di non esagerare, Don Diego… lei sa che non mischio mai queste cose col lavoro; quando l’ho vista lì dentro, così, rilassata sorridente del tutto inerme e protesa, ho rammentato il motivo per cui ero da lei: ho tirato fuori la mia calibro 9 e sparato due colpi a segno, in fronte e al petto… la sua pratica è liquidata per sempre, Don Diego”

“bene ragazzo, m’hai tenuto il fiato sospeso che fra un po’ quasi vomito! bene, ma non mi hai detto perché vuoi altri 50.000, Mak”

“io quell’avvocato lo conoscevo”

“che dici, Mak?”

“si, lo conoscevo ed il mio codice etico m’imponeva di abbandonare il lavoro, poi però ho pensato che i soldi sono soldi ed eccomi qui a batter cassa, Don Diego”

“e a me cosa importa se tu la conoscevi? questi sono problemi tuoi, Mak”

“no, sono anche suoi Don Diego, è lei che mi ha pagato per ucciderla”

“balle, vai a farti fottere tu e quella puttana”

“non la chiami così, almeno ora che è morta e non può più farle niente” allora Don Diego sorrise appena, si stiracchiò con aria superba sullo schienale della sua immensa poltrona in pelle chiara, tirò un’altra boccata e riprese a parlare con tono di sfida

“e dimmi un po’, mio caro Mak, chi era mai quella pollastrella? doveva certo essere una tipetta molto brava se ti ha fatto titubare, tu che hai un ghiacciolo al posto del cuore? dimmi, chi era mai questa stronza che dovrebbe costarmi 50.000 maledettissimi euro in più?”

“era la mia donna, Don Diego, la donna che amavo, ricorda?”

“cosa? quella lì?.... già… l’avvocato!”

“esatto Don Diego ed ora, prego, mi dia il malloppo intero: 100.000 euro”

“cazzo, Mak: ma come hai potuto ammazzarla?”

“è il mio lavoro Don Diego, mi dia i soldi, prego”

“d’accordo, ma se hai capito chi era potevi tirarti indietro e uccidere me magari... come hai potuto, Mak?”

“sono solo un uomo d’affari, io”

“mi fai schifo”

“anche lei, ma mi dia i soldi adesso”

Don Diego non fiatò nemmeno, aprì un cassetto della sua scrivania e ne tirò fuori mazzette da 5.000 euro fino a quando non raggiunsero la cifra pattuita, le presi tutte e le infilai con calma nella mia ventiquattrore in pelle nera con anima d’acciaio, tirai giù l’ultimo sorso di quell’ottimo whisky e senza chiedere il permesso mi appropriai della scatola di sigari di Don Diego, lui guardò soltanto ma non disse una parola, pensava a fumare

   presi per la porta, mi girai per salutare con una specie di inchino che sapeva più di sfida che d’altro

“alla prossima volta, Gordo” sfioravo la morte senza rendermene conto

“certo Mak, torna quando vuoi” dalla voce sembrava rabbonito

   andai all’ascensore e feci a ritroso i 127 piani di quel grattacielo, il più alto della metropoli, entrai nel mio Jaguar, lo accesi posando con calma la valigetta sul sedile del posto-passeggeri, la mia automobile aveva il cambio automatico, alzai il piede dal freno e partii, penetrando a tutta velocità la nostra splendida metropoli che soffocava di luci grida e orgasmi trattenuti dei suoi trenta milioni di abitanti tutti appesi ad un filo per la sopravvivenza, amavo quella metropoli bastarda, soprattutto quand’era notte e tutti si esaltavano del suo farneticante furore

   presi l’autostrada balenante di luci, il posto migliore per ammirare nella sua maestà il più alto grattacielo della metropoli, 127 piani di vita e di morte su commissione, di proprietà di Don Diego Salazar y Mendoza detto El Gordo                

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