“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 01 September 2013 00:00

DFW: istruzioni per l’uso

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Credo che sia caratteristica di ogni grande scrittore quella di lasciare nel lettore un segno del proprio passaggio: magari ci si potrà non ricordare il titolo esatto, magari si potrà storpiare il nome ma un pensiero, un’intuizione, una traccia emotiva di un qualcosa che abbiamo letto dovrebbe restare. Ci sono poi scrittori che vanno ancora oltre, che hanno la capacità di creare subbuglio in tutti gli organi deputati a ricevere, digerire e assimilare letteratura - nel senso di farli dimenare tutti assieme all’unisono come adolescenti ad un rave - fino a lasciare il lettore abbattuto da un’estasi epifanica. Autori capaci di “far palpitare teste come cuori” e in questo caso più che la traccia di un passaggio si verifica la metamorfosi del lettore. Può così accadere che lettori che fino a quel giorno sono stati spietatamente cinici ed hanno affrontato la letteratura come si affronta la vita occidentale, poco tempo a disposizione ma quella fame bulimica tipica di chi vuole assaggiare tutto con una velocità trasversale incompatibile con il concetto stesso di ‘profondità’, lettori dall’atteggiamento che Baricco definirebbe “barbarico”, che individuano lo scrittore da non perdere e puntano spediti quello che è stato ufficialmente riconosciuto il suo prodotto migliore, per fagocitarlo e mettere una bella tacca sul loro curriculum e poi via, passare ad altro; ecco, lettori così, quando si imbattono in qualcuno come David Foster Wallace, potrebbero radicalmente modificare il proprio approccio alla letteratura e non solo, e potrebbero decidere di cominciare a perdere qualche giro.

Nell’approccio a questo scrittore, se ne siete proprio digiuni, sconsiglierei di iniziare col suo capolavoro universalmente riconosciuto, Infinte Jest (IJ), opera di dimensioni geologiche che gli è valsa l’appellativo Ginsberghiano di “migliore mente della sua generazione”, il libro più discusso del momento, di cui tutti parlano ma che pochissimi hanno comprato e di quei pochissimi sono ancora meno quelli che sono arrivati all’ultima riga della pagina 1179: “e la marea era molto lontana”. Suggerirei un atteggiamento un po’ più cauto nell’avvicinarvi al grande e potente “occhio rosso di Sauron” (Infinite Jest, appunto); tenete presente che stiamo parlando di un libro di quasi 1200 pagine fittissime, seguite da quasi 200 di note scritte in un corpo che mette a dura prova anche chi possiede dieci decimi di visus (note che, ve lo dico subito, non sono evitabili: l’autore vi inserisce dettagli fondamentali ai fini della comprensione del libro, ma vi assicuro anche che le parti più ilari, quelle in cui mi sono trovata piegata in due a darmi grandi pacche sulle ginocchia, ecco io le ho trovate proprio nelle sue note), che a loro volta rimandano a delle sub-note che costituiscono un gentile ma enfatico invito a servirsi di lenti d’ingrandimento.
Consiglierei, quindi, di saltare il primo giro e di passare un po’ oltre sullo stesso scaffale dedicato ai libri di DFW della libreria in cui, spero, vi troverete dopo aver letto questo articolo, e vi consiglierei di partire con un altro suo capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico: Una cosa divertente che non farò mai più, un reportage narrativo sulle crociere extralusso che è diventato un classico dell’umorismo postmoderno. In questo libro Wallace prende di mira uno dei settori dell’industria dell’intrattenimento di massa della società americana contemporanea (ma la rappresentazione è sicuramente estendibile a buona parte dei paesi occidentali), quello delle crociere, e lo sottopone ad una satira così vera che mentre ridi sai benissimo che la cosa più indicata sarebbe invece quella di cominciare a piangere.
Bene, dopo questo libro con ogni probabilità il potere dell’anello si sarà attivato e voi sarete assolutamente intenzionati e determinati a finire il percorso che avete intrapreso per giungere fino a lui, IJ. Magari deciderete di fermarvi per un altro giro e di affrontare e vincere Il Re Pallido, la roba grossa che stava scrivendo quando scelse di “eradicare per sempre la sua mappa” dalla faccia della terra impiccandosi cinque anni fa nel garage di casa, il suo romanzo postumo sulla vita e sulla fatica di viverla, proseguirete con qualche suo libro di racconti mozzafiato, tipo Brevi interviste con uomini schifosi, e a questo punto avrete perso ancora parecchi giri, ma sarete comunque pronti per IJ. Ovviamente le vostre aspettative nel frattempo saranno salite enormemente: dato che tutte le opere minori che avete letto vi avranno lasciato segni indelebili, è lecito a questo punto che vi aspetterete di toccare vette inesplorate raggiungendo l’apice di un climax.
Cosa sia stato per me quel libro non posso ancora descriverlo sobriamente, dato che lo sto ancora cavalcando (sono alla sua terza lettura) e non so quando e se terminerà mai il mio viaggio in quest’opera mondo, che ti spiega come nessuno ha mai spiegato cosa significhi far parte del genere umano al giorno d’oggi e quali e quante siano le forme di dipendenza che minano subdolamente il nostro cammino. Si tratta, la mia, di una lettura circolare per due ragioni: la prima di natura oggettiva, poiché quando si arriva alla fine del libro è necessario ricominciare, essendo il finale descritto all’inizio del libro, in un momento cioè in cui il lettore non può ancora afferrarne a pieno il significato e, quindi, trattenerlo nella memoria; la seconda è di natura soggettiva perché induce in me dipendenza proprio come la cartuccia letale (dal titolo Infinite Jest) che nel libro rappresenta il filo che unisce tra loro le tre storie principali (quella che si svolge all’interno di una rinomata accademia per tennisti; quella che si svolge in una casa di recupero per tossicodipendenti e quella che tratta di un gruppo di terroristi separatisti sui generis, in sedia a rotelle, e della loro missione di accaparramento per fini non troppo legali di questa cartuccia che scatena in chi la guarda una dipendenza letale). La dipendenza nel mio caso ovviamente non è letale, altrimenti non sarei qui a scriverne, o forse sì, perché mentre ne scrivo il libro lo sto ancora rileggendo e poi lo “rileggerò ancora e ancora etc” e non so quando lo finirò, che il cerchio, si sa, non ha né inizio né fine.

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