“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 30 August 2013 02:00

A zonzo, cercando Mr. Samuel

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Complice il caldo e l’imminente chiusura dei battenti virtuali del Pickwick, mi godo le spiagge assolate, la frescura dell’acqua, ritmi meno preordinati e urbani. Il 10 agosto (S. Lorenzo io lo so... etc., la citazione pascoliana è d’obbligo...) però mi giunge un biglietto di Mr. Samuel, non so come, non so recapitato da chi, so solo che c’era. Il nostro gentile anfitrione, che ha accolto tante penne sotto la benevola ala del suo sorriso, mi invitava a recarmi a Cetraro (CS), al mercato, per un abboccamento e per degustare insieme uno chou allo zabaione. Quale ghiotta occasione (e non solo per lo chou), sicché ho preso senza indugio il mio storico mezzo di locomozione e mi sono recata sul posto.

Di Mr. Samuel nemmeno l’ombra, in compenso mi son goduta la festa di colori del mercato. Per chi vive da sempre in città il mercato è un luogo magico, che nulla ha a che vedere con i pretenziosi mercatini alternativi, quelli supposti a chilometri zero, dove la frutta è spesso priva di sapore e qualità, ma guai a dirlo, sarebbe politicamente scorretto, ché invece bisogna dire che quella roba sì ha davvero sapore... Ma per fortuna ero in un mercato vero, tra i gialli dei meloni e i verdi e rossi dei peperoni, il nero violaceo e lucente delle melanzane e il giallo rosato, chiazzato di porpora delle pesche. E poi ancora il giallo dei limoni, il bianco pallido degli agli, il rosso vivo dei pomodori e il verde brillante dei fichi. E i mille colori dei pesci, ché Cetraro è paese di pescatori, silenziosi e dignitosi accanto ai loro camioncini, attorniati dalle vespe, senza scacciarle, ma lasciandole posare sui nasi e solo talvolta allontanandole con un gesto gentile, quasi una carezza. E poi gli odori... quello pungente eppure delicato dell’origano, e il basilico, inframmezzato da quello più forte dei formaggi di pecora, e il profumo acre delle olive e del pesce in salamoia macerato nel peperone, e a tratti la promessa succulenta del pollo arrosto. Mi aggiravo tra i banconi, alla ricerca vana di Mr. Samuel e di un paio di uova fresche da fare a zabaione (piacere raro e proibito per una cittadina...), e osservavo la varia umanità che mi circondava. I venditori e soprattutto le venditrici, le “furitane”, le donne del contado circostante, con le loro ceste di vimini, i volti cotti dal sole e arrotondati dalla gioia che danno i frutti della terra. Identiche a se stesse, quasi scolpite nel legno, nella storia, eterne. E la gente attorno, gli acquirenti. La maggior parte locali, usciti a far la spesa, ma anche gente di fuori (come me, dopotutto...). Niente uova e niente Mr. Samuel. Carica di buste torno a casa.
Combinazione ha voluto che anche la sera mi ritrovassi da quelle parti, stavolta per iniziativa di altri amici, villeggianti anche loro in queste piagge, attirati dalla 10° sagra del pesce. E così mi son ritrovata, a sera, negli stessi luoghi del mattino. Le due strade del mercato nuovamente affollate di chioschi, non più di alimenti grezzi, ma di mille preparati che allettano la vista e il palato. Prezzi tutto sommato modici e popolari. Incolonnandosi in una (apparentemente) lunghissima, ma di fatto scorrevole fila, si accedeva alle delizie del mare: frittura di pesce, impepata di cozze, pennette al sugo di gamberetti. Tutto buono e profumato. Peccato che tra le bevande proposte non ci fosse, da nessuna parte, un sano bicchiere di vino bianco (ma nemmeno rosso ahimè...), per esaltare col dono di Dioniso i doni di Poseidone...
Di alto livello anche il versante dolci, con i cannoli riempiti al momento di ricotta, le paste di mandorla, i mustaccioli calabresi (preparati con il mosto e il miele di castagno, dal profumo e dal sapore inimitabile...), i liquori, le marmellate, il miele. E poi gli oggetti di artigianato, le terraglie (di gusto un po’ grossolano a dire il vero...), le chincaglierie, i giocattoli. Insomma tutto l’armamentario di una festa di paese, abbastanza genuina. Ma veniamo alla parte spettacolare, in senso etimologico, ovvero veniamo allo spettacolo. A pancia piena si è più bendisposti nei riguardi del mondo, tuttavia... non potevamo fare a meno di notare la mancanza, evidente, di una mente ordinante e organizzante che desse un senso a tutto quello che scorreva davanti agli occhi e nelle orecchie. Meno male che il cibo ci aveva bendisposti...
Innanzitutto lo spettacolo dei giganti (ci aveva assalito il dubbio che fosse il complesso musicale, considerato che da queste parti, d’estate, vengono a raggranellare spiccioli personaggi di antica fama, come Gino Paoli o la PFM...), invece scopriamo che si tratta di due fantocci, forse di cartapesta, alti almeno un paio di metri, rappresentanti un uomo e una donna in costume tradizionale, dai quali spuntano le gambe degli attori (?), che eseguono un sorta di tarantella al suono rullante di due tamburi, mentre un terzo personaggio, infilato in una sorta di asino o muletto, di proporzioni reali e dunque minuscolo rispetto ai giganti, scorazza tra i piedi dei due, correndo a capofitto. Spettacolo suggestivo e coinvolgente, peccato non fosse spuntato da nessuna parte un menestrello, o un cantastorie, o chiunque altro a raccontare chi fossero i due personaggi, donde originasse la tradizione... insomma mancava qualsivoglia caratterizzazione che rendesse l’esibizione uno spettacolo.
Nel frattempo, mentre dal palco si diffondeva musica ballabile di epoca e stile differenti (dal latino-americano al tuca-tuca, alla dance, come se il dj non riuscisse a decidere a quale fascia d’età rivolgersi...), sono comparsi nella piazza del paese I Cantaturi i Sanginitu (cantori di Sangineto), vestiti in tradizionali abiti di velluto nero, con cioce e calze di lana per gli uomini e ampie gonne per le donne. Probabilmente danzavano una tarantella, ma purtroppo noi li vedevamo danzare sul ritmo di qualche ballo di gruppo... Quando infine hanno guadagnato il palco ci siamo avvicinati per ascoltarli e magari danzare. Sulle qualità canore sorvoliamo, ché a quanto pare gli standard di selezione erano alquanto generosi. La musica era allegra e coinvolgente, peccato che il repertorio scelto, un misto di canzoni tradizionali e nuove creazioni dialettali (abbiamo visto gente che aveva acquistato il loro CD...), insistesse sull’unica nota d’u pilu (per ammissione del cantante le canzoni popolari parlano sempre i pani, di cibo, e i pilu, di sesso). Considerato che il pubblico in ascolto e danzante fosse composto soprattutto di anziani e bambini in età prepuberale (due categorie in linea di massima distanti da tale pensiero dominante...), l’insieme appariva grottesco, forzato e tutto sommato poco divertente. Ma eravamo bendisposti e non ci è sfuggito il miracolo dei bambini per mano, a danzare un grande girotondo al ritmo di queste povere musiche che li facevano sfrenare affratellati. Ma seppur bendisposti, in chiusura, non possiamo che interrogarci sul senso di manifestazioni del genere, che hanno il lodevole intento di far conoscere i paesi e la loro cultura all’occasionale villeggiante, abituato a consumarne solo il mare e il sole. Al di là dell’aspetto commerciale, delle migliaia o centinaia di persone coinvolte nell’evento, si vorrebbe vedere qualcosa di più, si vorrebbe toccare qualche corda più profonda, si vorrebbe uscir fuori da facili stereotipi. Si sarebbe voluto vedere il mondo contadino, quello che avevamo incontrato la mattina al mercato. Si sarebbe voluto capire che rapporto hanno i giovani con la tradizione. Si sarebbe voluto sentire il sapore e il profumo di un sostrato antico e vederlo trasformato dalla linfa della vita che scorre. E invece siamo tornati a casa come eravamo partiti, più sazi solo nel corpo.

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