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Thursday, 01 August 2013 06:17

Dire ciò che è

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CORO:

   Tutto sparisce in vario modo: misera

   Troia, già piú non è:

   diverrà della patria il nome ignoto.

ECUBA:

   Udite, udite?

CORO:

   Il fragore di Pèrgamo!

ECUBA:

   è tremuoto, è tremuoto!

CORO:

   E struggerà tutta Ilio!

ECUBA:

   Tremule, tremule membra,

   guidate i piedi miei dove in esilio

   servil trascorra i cadenti anni miei.

CORO:

   O misera città! Ma pure, volgere

   devi il tuo passo ai legni degli Achei.

 

Ci troviamo presso l’accampamento degli Achei, la città di Troia è distrutta, gli dèi sono lontani, a dominare è la legge del “pathei mathos”, dell’apprendimento attraverso la sofferenza, della Giustizia, che concede di comprendere solo a chi ha saputo reggere tutta la tensione del tragico patire, presto mutato in pentimento e quindi in consapevolezza.

In scena ci sono solo le quattro figure femminili create da Euripide, tutti gli altri personaggi e il coro sono rintracciabili tra le righe della loro vita scenica. Ecuba, Elena, Andromaca e Cassandra si caratterizzano subito per la tensione che si stabilisce tra un atteggiamento dominato dalla disperazione per l’infausta sorte che le vedrà prigioniere dei Greci e un altro contrassegnato dalla presa di coscienza della realtà di fatto. Tale realtà, nella rivisitazione drammaturgica di Mitipretese e Saravo, di cui si è molto apprezzata la distribuzione dei ruoli, la scelta dei costumi, delle luci e dei suoni, non riguarda tanto gli aspetti drammatici dell’incedere rovinoso e desacralizzante della guerra combattuta tra i Troiani e gli Achei, ma piuttosto il formarsi, nella vicenda esistenziale delle protagoniste, di crepe in cui i valori gravitanti intorno all’amore per la Patria e per la famiglia precipitano con tutto l’orizzonte di senso che li puntellava.
A nulla vale lo strisciare sulla terra di Ecuba, gesto estremo compiuto nel tentativo di mantenere un contatto con un mondo ormai perduto. Una volta collocata nel nulla, non riesce ad ampliare il proprio spazio, immersa nel deserto sconfinato delle possibilità ancora da venire, non è più in grado di rintracciare il fondamento da cui proviene e allora cade, perché nulla più la sostiene. Non le resta che la reazione più umana che possa esistere, non le resta che piangere e gridare il suo dolore. Quando tutto sembra perduto e nessuna risposta dotata di senso può ristabilire l’ordine delle cose, all’uomo non rimane che umanizzare con il pianto ciò che si presenta con la freddezza ineluttabile di un moto senza anima. Il pianto è suscitato dalle foto dei defunti, unico richiamo a un mondo perduto che si cerca gelosamente di custodire in valigie in cui ciascuna delle protagoniste sigilla simbolicamente il suo universo di significati, nella consapevolezza che conoscere è ricordare ciò che si è stati, per agire in nome di ciò che si è. Ecco allora che la violazione del mondo sacro di Cassandra, la virtù non rispettata di Andromaca, la gioventù sacrificata di Polissena e l’assassinio di Astianatte costituiscono uno smacco tale da indurre a investire di biasimo persino gli dèi, verso i quali l’incipiente pregare assume sempre più i contorni di un imprecare. Del resto, il rivolgersi ai numi per lamentare un iniquo trattamento non fa che rinviare le protagoniste a se stesse e alle proprie responsabilità, annullando ogni pretesa di fissare nelle colpe di Elena le conseguenze del proprio agire.
Tutte le azioni delle divinità, infatti, non sono altro che reazioni a certe azioni compiute dagli uomini: Atena si allea con Poseidone per sterminare la flotta dei Greci vincitori, perché Agamennone ha fatto profanare il suo tempio, Poseidone affronta Ulisse, perché questi gli ha accecato il figlio, Era e Atena si vendicano perché Paride ha preferito Afrodite. Proprio Elena, d’altro canto, non accetta che le si punti il dito accusatore del risentimento e veste, in un clima di crescente tensione emotiva, i panni di colei che disvela la verità, usando la parresia per ridisegnare i rapporti tra gli dèi e gli esseri umani. I primi si nascondano, non osano mai apparire per dire ciò che è, perché anche loro, in quanto simpliciter immortalis, ma non del tutto divini, sono colpevoli. Elena, così, quasi diventa la paladina del parlar chiaro, contro il divino silenzio, che deve spingere gli esseri umani a scoprire e dire il vero. In quanto donna, non può usare la parresia per dire la verità circa le questioni politiche che hanno condotto alla guerra, ma può accusare pubblicamente gli dèi e le Troiane dei loro misfatti. A queste ultime, soprattutto, implora un atto di coraggio e quindi rivolge loro l’invito a guardarsi dentro per ammettere le proprie mancanze, rinunciando al gioco facile di “chiamare Afrodite ogni follia umana”.
Ma la presa d’atto che Elena chiede a chi l’accusa non tiene conto di quanto siano fragili le spalle su cui piomberà il macigno di una verità, che costringe le protagoniste ad affrontare un deserto sconfinato, a esporsi ad una solitudine indifesa. Elena da elein, colei che ha la forza di annientare, colei che ha causato la morte di molti guerrieri nella pianura troiana, che ha introdotto la Discordia nella casa di Menelao, diventa ora la mina vagante di un destino che sconvolge tutti i piani prestabiliti. Un destino, però, che non è più cieco come nell’Agamennone di Eschilo, perché è gestibile da chi ne è investito. A Elena, in altre parole, Paride avrebbe potuto resistere, perchè su di lui, faber ipsius fortunae suae, mai sono fatalmente ricaduti gli errori dei padri.
Ancora rivivo nella mia mente i gesti, i silenzi, le urla di dolore, le inflessioni, le intonazioni di chi magistralmente ha saputo vestire i panni delle troiane.

 

 

Teatri di Pietra
Le Troiane – Variazioni sul mito
drammaturgia e regia
Mitipretese e Luigi Saravo
scenografo Emanuele (Lele) Silvestri
oggetti ed elementi di scena Bruna Calvaresi
costumi Annamaria Porcelli
con Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti, Mariangeles Torres
Napoli, Villa Imperiale Pausilypon, 26 luglio 2013
in scena 26 luglio 2013 (data unica)

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