“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 23 July 2013 02:00

L'ultimo canto del pagliaccio

Written by 

Una calura che sembra minacciare pioggia avvolge la città, ma l’Orto Botanico, luogo magico, si avvolge di fresco e di respiro di piante. Un cortiletto interno di quello che doveva essere uno degli ambienti di studio, oggi si immagina corpo di guardia, è la nostra platea, la campata di un’esedra con volta a crociera il palco. Semplice e perfetta la scenografia: una specchiera a tre ante al centro, un attaccapanni e un mobiletto basso con la radio a destra, una scrivania di legno con la macchina da scrivere a sinistra.

Commissariato-Casa-San Carlo. Tre luoghi, profondamente diversi, sono evocati attraverso pochi oggetti ancipiti, ché a seconda della scena cambiano senso e denominazione, lasciando intatto il profumo dell’epoca, il 1931, che vogliono evocare. Una evocativa luce rossa segna l’inizio della rappresentazione. Con passo pesante sulle tavole di legno entra in scena il commissario Luigi Alfredo Ricciardi. È buio, si sente il ticchettio della macchina da scrivere. È alto, stempiato, fisico asciutto. Camicia bianca, pantaloni scuri, bretelle con i bottoni.
Ricordo una sera di qualche anno fa, in cui presi in mano Il senso del dolore, prestatomi incautamente da un amico (che presto lo riavrà!). De Giovanni lo avevo conosciuto vedendo il memorabile spettacolo sulla presa di Torino... ero curiosa di vedere come se la cavava come giallista (genere letterario pericoloso che induce affezione e dipendenza nel lettore...). Ricordo di essere rimasta sveglia, incollata a quelle pagine, anelando di sapere come andava a finire, centellinando febbrilmente le ultime pagine per scoprire il colpevole e allo stesso tempo non far finire il gioco.
E ora quelle pagine prendono vita, assumono un corpo, quello di Nico Ciliberti, una voce, una consistenza. E si alleggeriscono. Di ciò che allora aveva rallentato la lettura senza diventare vera letteratura. Non è compito semplice trasferire da un mezzo all’altro una storia. Il rischio è la perdita, la banalizzazione nel mero svolgersi dell’azione, e invece qui tutto si tiene, tutto ciò che è importante. Certo, conoscendo già la soluzione si guarda alla scena con occhio diverso, cercando di vedere dall’inizio dov’era nascosto quell’indizio, che sin dall’inizio avrebbe dovuto far capire. Ma questo è il bello del genere...
Non era compito semplice affidare tutto il breve romanzo, con la sua piccola folla di personaggi, così diversi, ad un unico attore, eppure ciascuno di loro ha preso vita, ben caratterizzato in pochi gesti, una cadenza regionale, un tono di voce. Non diventano davvero personaggi, d’accordo, ma non lo erano nemmeno nel romanzo, dunque va bene così. Tutto è molto semplice, si potrebbe dire banale, ma non lo è, e raffinata è la soluzione di affidare alcuni personaggi, o meglio, alcune sfumature dei personaggi, a voci fuori campo e senza corpo che dialogano con il multiforme corpo/voce di Nico Ciliberti. Infine, a parte la capacità di rendere la suspence senza annoiare, spicca la capacità di aver dato vita ad un personaggio così complesso come il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, colui che vede i morti, come fotografati nel loro ultimo istante di vita, che ripetono nelle ultime parole come e perché sono morti. “Il bambino morto stava là in piedi”, all’angolo tra Santa Teresa e il Museo. “Scendo? Posso scendere?” ripete incessantemente. Deve essere caduto dalla finestra. Ecco, questo era il tratto del romanzo più difficile da rendere sulla scena, quel misto di onirico e visionario che accompagna la narrazione, resa qui apparentemente senza sforzo nei pensieri ad alta voce del commissario, che si rivolge alla platea, (a volte con qualche ingenua incertezza, ma perfettamente plausibile) come se parlasse a se stesso, ché queste cose non si possono raccontare. Non si può raccontare quell’indicibile dolore, quel marchio di sofferenza che si porta addosso, negli occhi, quel dolore fisico e quella febbrile caccia al colpevole, unico ristoro per la sua anima tormentata. Ricciardi “sentiva l’emozione, più di tutto: coglieva di volta in volta il dolore, la sorpresa, la rabbia, la malinconia. Perfino l’amore”. E così sarà anche per Arnaldo Vezzi, odioso cantante d’opera, morto prima di interpretare Canio de I pagliacci, ucciso nel suo camerino con l’ultima aria che stava cantando. Ma non vi dico altro, troppi indizi guastano la fantasia.

 

 

 

Brividi d’Estate
Il senso del dolore
di
Maurizio De Giovanni
regia Annamaria Russo
aiuto regia FabioTodisco
musiche Luca Toller
con Nico Ciliberti
voci Andrea Canova, Gabriele Carraturo, Rosalba di Girolamo, Marcello Magri, Isabella Martino, Marco Palumbo, Fabio Todisco, Ramona Tripodi
disegno luci Gennaro Cedrangolo
scene Bernardo Pinto
produzione Il Pozzo e il Pendolo
lingua italiano
durata 1h 40’
Napoli, Real Orto Botanico, 19 luglio 2013
in scena dal 19 al 21 luglio 2013

 

 

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook