“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 10 July 2013 06:41

Macondo all'Orto

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“Mentre Macondo celebrava la conquista dei ricordi, Josè Arcadio Buendìa e Melquìades scossero la polvere della loro vecchia amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un laboratorio di dagherrotipia”.                                                           

G. G. Màrquez, Cent’anni di solitudine

 

Nello scenario suggestivo dell’Orto Botanico di Napoli un superlativo Paolo Cresta, nei panni di José Arcadio Buendía, ci getta nella sfera di un mondo immaginario collegandolo all’idea nietzschiana dell’eterno ritorno dell’identico. Una ripetizione che si configura come desiderio di potenza e autonomia.

Macondo, il paese immaginato, è infatti proprio il frutto dell’attività creatrice di un soggetto, che non vuole che il suo mondo subisca hegelianamente alcuna identificazione con altri universi di senso, perché ogni conciliazione è tout court contaminazione di una purezza che ha lo stigma della solitudine. Una solitudine vissuta nell’interazione del rapporto io-mondo, che non è un'illusione della coscienza, non è uno strato ideologico che copre il reale deformandolo, in quanto “essa è reale, appartiene al reale”. Le cose, gli oggetti, si offrono all’intuizione del soggetto senza alcuna dietrologia, tutto è quel che appare, senza costruzioni di sorta, senza interpretazioni che ne modifichino o ne alterino l’assoluta differenza.
E proprio il tema della differenza e dello scarto, di chi rifugge dall’omologazione del progresso, è il tema che Cresta riesce a rendere bene riferendosi al mondo onirico di morti che tornano, delle improbabili assunzioni in cielo, delle predizioni degli zingari, dei neonati con le code di porco, delle ragazze che mangiano la terra, dei cantori che con la loro musica accompagnano un delirio capace di sconvolgere ogni sorta di inerme assito concettuale. E nel compiere tale trasvalutazione di tutti i valori viene a designarsi una dimensione altra, che non risponde più alla concezione lineare del tempo, bensì a quella dell’eterno ritorno dell’insensato, dove nulla ha la necessità dell’Assoluto, proprio perché la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell’identico e del negativo, dell’identità e della contraddizione. Macondo è realmente al di là del bene e del male, è un luogo-non luogo dove la sfera della sessualità assume contorni che più nulla hanno dell’Edipo di Freud, perché a stagliarsi all’orizzonte è la forza liberatrice dell’ Antiedipo, vibrante del lirismo corrosivo e crudo di Tropico del Capricorno di Miller, che già negli anni '20 denunciava la profonda ostilità contro la vita presente nella concezione freudiana dell'inconscio come luogo di credenze secondarie e indotte, frutto della repressione scientista della sessualità. Proprio l’Edipo moderno comunica, negli anfratti di un tempo senza tempo, l’immaginario di un mondo in cui non è più possibile  privatizzare, colpevolizzare, includere il desiderio nelle zone note degli ambiti familiari.
In tal senso, la scelta d’interpretare separatamente i personaggi caratterizzanti, quasi divisi da un’invisibile barriera che destina a mete differenti, dedicando loro un monologo intenso tra tragico ed umoristico, tradisce evidentemente l’intento autoriale di presentare la vera protagonista della pièce, la vera presenza assente dell’intero spettacolo: la solitudine che è propria dei Singoli. Diversi, infatti, sono i personaggi che affollano la scena di Cent’anni di solitudine, con le loro storie, le loro convinzioni, le loro scelte, le loro rinunce; personaggi della stessa comunità di Macondo ma destinati all’incomunicabilità, all’isolamento. È la solitudine la vera condizione di un uomo che si batte, si affatica nel tentativo di muoversi verso un orizzonte per non arrivare purtroppo da nessuna parte e ritrovarsi puntualmente nello stesso punto.
Il tempo si ripete, il tempo torna sui suoi passi per ripercorrere orme già tracciate nel labirinto dell’esistenza, testimone del dramma dell’uomo, della sua inchiesta periodicamente vanificata, un’indagine rivelantesi spesso fallimentare. Che cosa può egli pertanto fare dinanzi alla ciclicità di un tempo che si fa solo portavoce di una profonda solitudine? Si lascerà andare a patetici pietismi, piangendo e fuggendola come la più laida delle donne, o reagirà afferrando ferinamente le briglie d’una vita che rischia di volger al termine incompiuta, interminata? Lo sa bene l’attore protagonista che nell’epilogo della rappresentazione teatrale immagina la morte ammonire Josè Arcadio Buendìa, esortandolo a ‘‘compiere il proprio dovere prima di terminare il sudario”. Il sudario porta in sé la testimonianza del sacrificio, la coscienza della fatica cui l’uomo deve sottoporsi per sentirsi sgravato e mondo quando la morte busserà alla sua porta e, pretendendo il conto del viaggio, analizzerà vigile le spese e le scelte fatte. Non scenari apocalittici, non superstiziose e medievali immagini raffigurano la morte nella conclusione paradigmatica del romanzo rappresentato: la morte non è una sconfitta, piuttosto un richiamo alla vita proprio perché ricorda a ciascuno di "compiere il dovere’’, di agire impossessandosi del proprio tempo che altrimenti scorrerebbe imbattuto. ‘‘Se non fosse per qualche dente saltato’’ – recita Cresta − ‘‘si direbbe che sia una donna piacente’’.
Da horror vacui, dunque, la morte diventa la voce della coscienza, il grillo parlante che suggerisce all’uomo di riappropriarsi della vita prima che sia troppo tardi, di completare il sudario senza impreziosirlo d’inutili monili che, se da un lato ritardano l’appuntamento con l’inevitabile Atropo, la Moira fatale, dall’altro appesantiscono il viaggio dell’uomo, costringendolo ad affaticarsi per trattenere invano quell’ultimo granello che comunque svuoterà la clessidra. La morte non toglie senza preavviso, non sottrae l’uomo dal suo incarico, piuttosto avverte, redarguisce, spinge ad assumersi l’impegno. È il messaggio che aleggia nell’epilogo teatrale che immagina il protagonista giocare a scacchi con la morte − richiamo esplicito a Il settimo sigillo di Bergman − una partita dove l’uomo compie le sue scelte, muove attentamente i suoi passi, memore di giocare con una concorrente abile e spietata ma comunque vulnerabile.
Tutto, dunque, conduce l’uomo all’inautenticità del vivere, tutto tranne il morire, che mette l’esserci davanti al nulla delle molteplici possibilità. Esistere, da ex-sistere, significa, del resto, emergere dal nulla in cui siamo sospesi per provare a compierci come progettualità.

 

*La recensione è anche il frutto della collaborazione e del confronto con il collega Roberto Messore.

 

Brividi d'Estate 2013
Cent'anni di solitudine
di
Gabriel Garcìa Màrquez
adattamento Annamaria Russo e Ciro Sabbatino
regia Ciro Sabbatino
con Paolo Cresta
musiche dal vivo Ringe Ringe Raja
Napoli, Real Orto Botanico, 7 luglio 2013
in scena dal 5 al 7 luglio 2013

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