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Monday, 08 July 2013 12:20

Diario (parziale) di un Festival

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La prima sensazione è che “guardare”, “vedere”, “fissare”, “spiare”, “scrutare”, “osservare” ed altri sinonimi non siano adatti ad Alto Fest, rassegna immaginata e prodotta da TeatrInGestAzione e resa possibile – oltre che da sponsor privati – da volontari e donatori di spazi.

Considerare l’evento un Festival di Teatro sarebbe un errore e non solo perché non è specificatamente il Teatro – nella sua forma più o meno canonica – ad essere posto in luogo ma, soprattutto, perché l’impressione è che AltoFest sia una semina piuttosto che un raccolto: non lo si frequenta per ottenere ciò che è pronto e maturo ma per comprendere cosa, un giorno e forse, potrebbe esserlo.
Proviamo a  rafforzare il concetto immaginando la città come un campo di terra, con le sue strade come solchi e  gli appartamenti privati come dei piccoli fori nei quali viene inserito un seme, in questo caso un seme artistico: la speranza è che l’insieme di terra, seme ed acqua (mettiamo l’acqua sia quest’esperienza momentanea) generino qualcosa di leggermente robusto, in grado di resistere e crescere nel tempo.
A suggerire implicitamente la metafora la condizione spaziale della rassegna: proprio come s’allargano i campi da lavoro acquisendo nuovi appezzamenti vicini Alto Fest tende a distendersi  conquistando – di anno in anno – ettari in aggiunta: dopo il centro storico di Napoli ecco Materdei e la Pedamentina, Benevento e Caserta.
Per questo, piuttosto che abusare di uno dei termini con cui abbiamo cominciato l’articolo, è probabile che il verbo da usare davvero per Alto Fest sia “attraversare”: attraversiamo parte della città come si attraversa un campo di terra, avendo la sensazione di una diffusa distribuzione di brevi frammenti d’arte potenziale, di schegge primarie, di accenni all’inizio.
In questa stanza, nella stanza accanto, in quella casa. Nel negozio di candele o profumi, in una delle sale del ristorante, fuori ad un balcone, su un terrazzo, in un bagno. Nello spazio di passaggio tra un interno e un esterno, dietro a una porta, tra le scale. In un angolo di una piazza, sul ciglio di una strada, al centro di una piccola via laterale. Ecco dove avviene Alto Fest, ecco perché è rassegna che – innanzitutto – si “attraversa”.
Se ciò è corretto la conseguenza è, naturalmente, anche un mutamento nelle modalità di valutazione della proposta: bando per qualche giorno alle categorie necessarie e fondanti di cui usufruiamo di solito per produzioni d’Arte ben strutturata, optiamo per una duplice modalità di analisi: circolarità del fatto scenico e capacità d’impatto visivo del medesimo.
La circolarità è aspetto necessario perché – deposto per principio l’assetto che impone frontalità (io sono qui che recito, tu sei lì che mi osservi, questa linea diritta ci separa facendo del luogo due luoghi distinti in confronto: il palco e la platea, il proscenio e la cavea) – una performance di AltoFest dev’essere davvero in grado di definire il proprio rapporto col luogo ospitante occupandolo nella propria interezza fino a riformarne, se possibile, natura reale o apparente. Non dunque la riproposizione in piccolo del rapporto teatrale ordinario ma la formazione di una differente relazione possibile tra chi condivide l’interno dello stesso perimetro.
L’impatto visivo è aspetto necessario perché – riposta o rifiutata la fattura tradizionale del fatto di scena (drammaturgia, composizione scenografica, recitazione del vero attraverso un finto che alluda o passi per vero) – una performance di AltoFest, data anche la sua brevità media, deve toccare in fretta corpo e vista dello spettatore, coinvolgendolo nel breve lasso di minuti o secondi. Accentuazione della norma teatrale secondo cui concentrando il tempo s’intensifica il valore e l’incidenza dei segni, la proposta artistica ha il dovere di impressionare attraverso il rafforzamento della propria energia.
Assunti questi criteri ci siamo aggirati dando, qui e lì, un’occhiata curiosa che non riflette, si badi, il valore dell’intera rassegna ma solo il grado di crescita potenziale dei semi in cui ci siamo imbattuti.  


Dinai
Percorso per spettatore solo alternando stanze e terrazzo, luogo chiuso e luogo aperto, oscurità e chiarore. Dinai apparentemente è un processo di pulitura del denaro: si offre una banconota alla performance, questa viene lavata, profumata e stirata perché – rimessa a nuovo – consenta l’accesso all’oscuro tugurio nel quale avviene un incontro d’intimità artistica. Sei tappe complessive (a disegnare un cerchio che rimanda la circolazione tonda del denaro) che giocano con assenza ed esplosione di luce (il passaggio da una camera al terrazzo acceca, acceca il passaggio dal terrazzo alla camera successiva); con il teatro dei sensi (i propri piedi vengono denudati, massaggiati, lavati e asciugati dalle interpreti); con la vicinanza tattile e la cooperazione accennata tra performer e spettatore. Il senso di Dinai tuttavia è altro dalla (piacevole) sensazione in offerta: il collettivo femminile A2ªd, infatti, non ripulisce ma rigenera la banconota, la rende di nuovo toccabile, sana, per certi versi spendibile ancora ma spendibile meglio: per un incontro. Così il denaro muta il suo corso (lavatura dei piedi) e la sua sostanza (lavatura della carta-moneta) divenendo non il mezzo attraverso il quale acquistare qualcosa o qualcuno ma con cui incrociare qualcosa o qualcuno: il teatro e chi se ne fa portatore. Così facendo Dinai avalla, in automatico, anche la bontà del sostegno all’Arte: non usiamo il denaro per ciò che ci viene sussurrato all’orecchio da voci pre-registrate e dateci in cuffia (vacanze, vestiti, auto, case, regali, acquisti futili ma sentiti necessari, investimenti frettolosi ma creduti sicuri) ma ci serve per condividere una storia segreta che appartiene a qualcun altro.
Infine: la performance modifica (parzialmente) il nostro stesso vedere: lasciati riandare all’esterno ci viene offerta una pagina bianca su cui segnare ciò che rimane, ciò che ci sembra vada fissato al momento. Ecco che Dinai aggiunge questo breve episodio ulteriore consentendo di riflettere un istante sull’appena vissuto. Questo, forse, è ciò che davvero abbiamo acquistato.
Opera che sfrutta adeguatamente lo spazio a disposizione, coinvolge grazie alla dimensione personale dell’esperimento: si è costantemente a contatto con le interpreti che si susseguono (ad una si parla, un’altra si spia, di un’altra ancora si sfiorano i polpastrelli bagnati, di una si fissano gli occhi, alla prima si torna oramai stupefatti). Necessita di ulteriore crescita, di sviluppo drammaturgico, di ulteriori realizzazioni d’inventiva perché avvolga del tutto chi vi partecipa ma quest’accenno si mostra incoraggiante.


Topografie invisibili
Ciò che rende Topografie invisibili non è esattamente ciò che promette. Definibile come un percorso dei sensi in cui – bendati ed in strada – dovremmo inseguire l’ombra di una fanciulla che fugge, siamo condotti d’immediato in un’auto: qui sentiamo il tragitto percependone sommovimenti, curvature, soste e ripartenze mentre la voce (registrata) della donna ci parla del proprio patire, delle proprie incertezze, del proprio cammino, dissoltosi ad un passo dal mare. Ci muoviamo stando seduti, dovremmo vedere pure se al buio. Ma ciò che davvero succede è che scolorisce la voce femminile e si bada soprattutto o soltanto a colui che ci fa da guida fidata sussurrando, ora all’orecchio destro ora al sinistro, i contorni della situazione in cui dovremmo essere immersi. Ecco che Topografie invisibili diviene, per chi scrive, soprattutto uno spunto per riflettere sul rapporto tra autore e fruitore in cui, chi riceve, finisce per dipendere totalmente da chi dispensa.
Si genera una monodirezionalità (in luogo della cooperazione presunta o prevista) che suggerisce brevi spunti sulla natura dei processi di acquisizione, valutazione e riattivazione di un fatto artistico: “Siamo al porto”, ad esempio, non è frase che basti a cancellare la certezza che siamo in auto e non ad una banchina ma è comunque un inciso cui dobbiamo appigliarci con la stessa naturale propensione alla menzogna con cui ci si appiglia alle invenzioni di un testo o di un dramma. C’è qualcuno che dice qualcosa, noi sappiamo che questo qualcosa è fasullo, il fasullo ci risulta chiaramente fasullo ma noi continuiamo comunque ad ascoltare questo qualcuno.
Per cui, volendo fare valutazione della performance scriviamo che la dimensione spaziale è ridotta poiché l’esterno si limita all’interno dell’auto; che è fragile la parte sensoriale (la cecità non basta ad attivare gli altri sensi, a maggior ragione se si considera che siamo posti in una condizione ferma, fissa e neutra); che la ragione presunta del nostro moto (la ricerca di una ragazza di cui non percepiamo che una voce plausibile, il lembo di un foulard, la carta di una lettera, un sassolino come ricordo) ha scarso vigore mentre si rivela di parziale interessante l’indotta subordinazione del singolo spettatore che finisce per attendere la frase che segue come un lettore attende la pagina dopo, come chi si è perduto attende in un’indicazione sul tragitto che resta da compiere.  


Accettati
Tra le scale di un palazzo, pestando i chiaroscuri di piccole finestre a volta e di alte insenature architettoniche, ci si imbatte in questa breve galleria di disegni (Federica Terracina) e foto (Davide Adamo) che hanno per tema la mostruosità, declinata per fobia personale. Il tentativo, esponendo la propria ricerca (evidentemente agli albori) è di indurre chi osserva a generare il proprio contributo partecipativo: quale immagine è mostruosa per noi? La visione – che meriterebbe forse uno spazio espositivo più adeguato (basti pensare che si confonde con You Are Here di Maria Carmela Milano) – espone una concezione mascherale del mostro: l’altro della maschera come intimo opposto da sé, come emblema di doppiezza tendenziosa, di diversità ingannatrice, di sprofondo veritiero e perturbante o come identità a se stante ed autonoma, in grado di opporsi o fronteggiare la consueta maschera carnale che chiamiamo “viso”. Così ci s’imbatte in volti coperti da stoffe o da confuse trame di colore, da fattezze di coniglio annerito, da bende variopinte e parziali. In quanto esposizione statica, Accettati è opera che s’incontra senza dannarsi: pur appartenendo ad Alto Fest ne è sul bordo, al margine, sulla linea di confine e la si costeggia come diretti verso l’altro e l’altrove. Lo spazio non risulta davvero contagiato dall’opera mentre la nota che può interessare (in un lavoro che necessita di scavo o inventiva ulteriore per dirsi davvero una proposta credibile) è il tentativo di generare un lascito da parte di chi osserva: un disegno, una frase, un commento, una propria confessione più segreta. In questo l’unico vero elemento di relazione significativa.


Crìos – Thinking of Sarah Kane
Adattatosi all’interno d’un piccolo negozietto di saponi naturali, Crìos cerca di mettere in danza l’ossessione ciclica e torturante di Sarah Kane. Non si lavora per allusione ma per interpretazione: Sarah è la donna che vedremo scivolare, mutarsi d'abito, sparire. La performance è costituita da una voce che, dal fondo del luogo, ridice le parole della scrittrice nella forma di un breve campionario che si replica calcandosi di continuo mentre l’interprete (Luisa Squillacioti) definisce una brevissima partitura di passi − tra banconi, tavola e cassa, mensole, scalette di legno, una poltrona di lato − di cui colpiscono soltanto l’andamento volutamente circolare (allusione ad un’esistenza che si piega, si chiude, si raggomitola sempre più fino ad annullarsi in se stessa) ed un breve frammento (l’unico probabilmente) in cui davvero performer e luogo ospitante entrano in contatto tangibile: la donna si avvicina alla porta di vetro del locale, lì rimane a fissare la vita che passa nel vicolo mentre le dita della mano sinistra afferrano, carezzano, lambiscono, sfiorano poi lasciano la maniglia: nel gesto delicato la scelta di un’autoreclusione che porta all’autocondanna. Apprezzabile il tentativo della Squillacioti di impossessarsi dello spazio per tramutarlo in qualcosa di intimo, di accaldato e di proprio (meglio si sarebbe prestato un ambiente casalingo) ma la sensazione di reciproca estraneità tra questo e la performance rimane evidente, tanto quanto rimane evidente qualche incertezza di merito: il passaggio a terra, semifetale, tra gli abiti appena dimessi – ad esempio – colpisce in negativo dando la certezza di un lavoro cui occorre tempo, idee e fatica per una gestazione fruttuosa.


Party digitale
“Indaga le nuove forme di intrattenimento. Mentre nel sistema tradizionale l’intrattenimento era prodotto dall’esibizione di una persona di talento di fronte ad un gruppo di persone, nell’arena mediatica contemporanea invece individui eterogenei si scambiano contenuti in maniera orizzontale, fruendone online in solitudine. Molti di noi apprezzano la rapidità e la semplicità di questa forma d’intrattenimento, che può essere fruita ovunque e in qualunque momento. Party digitale esplora la possibilità di ricreare dal vivo i parametri dell’intrattenimento”. Questa la presentazione in brochure.
Invero Party digitale va visto per una sola ragione: comprendere come non deve realizzarsi una performance artistica. Un tavolo accanto al quale il libanese Bassem Mansour e la kuwaitiana Dana Alijouder si muovono leggermente sinuosi, microfono in mano, emettendo guaiti e strascini ed incidenze stridule e scarsamente ritmate, ora contrastando ora sovrapponendo questi lacerti di vocalità (volutamente) incomprensibile, che non trasmette e non passa significati o suggestioni. Di base un tappeto sonoro formato da smartphone amplificati. Durata: quaranta minuti. Quaranta minuti di nulla assoluto nel quale i due rimangono totalmente isolati dal contesto che li cinge (nessun rapporto sussiste col luogo ospitante), fissi nella loro posizione iniziale, mentre gli spettatori – accanto e sul fondo della sala – cominciano celermente a distrarsi, badando ai particolari della stanza o all’esterno assolato, dopo aver tentato a fatica di comprendere il senso ed il valore dell’evento. La fragilità artistica genera un oscuro tentativo autoreferenziale che s’impone a chi osserva come un accadimento ingiustificato, privo di un minimo di qualità percepibile. Party digitale non indaga le nuove forme di intrattenimento (basti pensare all’assenza di relazione tra performer e pubblico); non genere neanche allusivamente un’arena mediatica (la condizione, paradossalmente, è quella tradizionale: l’esibizione di qualcuno che abbia talento – presunto – di fronte ad un gruppo di persone); non scambia contenuti né esplora la nuova condizione social della comunicazione (non comunica) dell’arte (non è – ancora? – arte).
“Grazie per l’energia che ci avete dato” dice in inglese Bassem, al termine. La frase appare un’ironica beffa: conclusione inevitabile di questa evitabile esperienza.


Studio su figura 1
Chiara Orefice definisce se stessa come una fragile figura dipinta: un lieve vestito azzurro con piccoli tocchi di colore, il volto leggermente sbiancato da un tono più chiaro, le labbra arrossate dal trucco. Immagine di forza delicata e sensibile, definisce la coreografia dedicandola a Francis Bacon ed ai suoi studi su figure riplasmando il suo stesso volteggio con movenze che le riformino, di volta in volta, apparenza e sostanza: sembra fatta di cera o di d’altro materiale che si può lavorare perché abbia un nuovo aspetto, una forma diversa. Ma il merito della performer è soprattutto quello d’aver adattato il suo intervento artistico al luogo (una nicchia in fondo a una stanza in fondo a quel magnifico posto che è il pensatoio CasAtelier Cervo), di cui accompagna ogni curva, ogni linea, ogni incrostatura o dettaglio adattando i propri muscoli, i propri gesti, le proprie espressioni. Così flette la schiena fino al possibile richiamando – col corpo – il mezzo tondo della volta; adagia piatta la schiena su un tavolo piatto, si fa linea sottile nell’incrocio ad angolo tra parete e parete, muove le dita suonando come un’arpa ferrosa una grata di lato, s’appuntisce a triangolo quando allunga le braccia verso il muso (triangolare) di una statua-cavallo lì in mostra. Come liquido che si ferma per sciogliersi ancora, ella perlustra tutto lo spazio possibile rigenerandolo diversamente: dal tavolo partono incisi graffianti, un sospiro affannato o più placido segna il passaggio da frammento a frammento, certi scatti da possessione momentanea o da prigionia silenziosa avvalorano il centro (nudo) della scena. Finisce quando finisce la luce, il buio cala improvviso al pari di un telo che ricopra un bel quadro, mentre s’alzano convinti gli applausi.
Chiara Orefice, in definitiva, ha avuto il grande merito di “dare luogo” davvero alla propria esigenza artistica: la sua danza non è stata accolta e ospitata dallo spazio così come s’ospita frettolosamente qualcosa che passa per passare ma s’è stabilita lì, possedendo con grazia l’intero perimetro. Il valore di Studio su figura 1 ci è parso innanzitutto questo.


Freeze
Definire Freeze una performance di danza non è appropriato, non almeno nella forma veduta per AltoFest. Rari i passaggi in cui il corpo (di Cinzia Pietribiasi) manifesta improvvise scosse di ballo, come per malattia accennata e non frenabile, mentre Pierluigi Tedeschi si limita a fare da accenno teatrale: vestito con un completo scuro, scrive e riscrive un foglio da ricetta, fissando di volta in volta la donna, cui riserva miti consigli e sguardi più attenti. I due – separati da una porta nera che è istallazione artistica portata sul luogo e significante separazione ed incontro, diversità e coincidenza, limite e coincidenza – finiscono, come in un’opposizione da specchio, per piegare le ginocchia in appoggio a due distinte sedute e qui replicano, l’uno riflesso dell’altro, i medesimi gesti: il tocco alla sveglia per provocarne il rumore (è giunta l’ora, diremmo); la piccola bottiglia di spumante versata nel bicchiere di vetro (si brindi alla scelta), il farmaco portato alla lingua (la causale che anticipa e motiva l’ultima scena). Rivedremo i due, dopo una breve scomparsa, sulla soglia della porta, ora aperta: distesi, languono l’uno sull’altro come addormentati di un sonno che è un sonno di morte.
Se non fraintendiamo in eccesso, il titolo rimanda ad una categoria della danza da strada che impone, nel pieno del movimento, il suo arresto immediato. Ma è anche richiamo al congelamento anestetico di moti d’animo, di gesti, di esperienze ed esistenze: ci si dà l’interruzione (momentanea o definitiva) e lo si fa senza strepiti, lacrime o sussulti ma con la forma neutra e apparentemente incruenta della pillola assunta in gran fretta.
L’opera sembra matura, per quanto assai breve e solo parzialmente adatta/adattabile/adattata al luogo in cui è stata ospitata (si nota un certo imbarazzo, ad esempio, nel calarsi sulla soglia dell’istallazione centrale per mancanza di spazio effettivo) ed è interessante soprattutto perché alla meta-danza (accenni di passi soltanto provati su cui si riflette a voce alta) associa frammenti di recitato che testimoniano la voglia del duo di superare la nettezza codificata dei generi. L’imposta frontalità della visione (che produce, come conseguenza, una relazione diretta col pubblico affidata ad un solo lungo sguardo pre-finale) e lo scarno adattamento al contenitore murario in cui l'opera è situata ne sono – invece – i limiti accidentali.

 

 

 

 

Alto Fest
Dinai
regia Enya Daniela Idda
con Francesca Brioschi, Daniela Palluello, Visnal Irene Mursia
produzione A2ªd SpazioElaboratorio
durata 25'
Napoli, interno privato, 4 luglio 2013
in scena 4 luglio 2013 (data unica)

Topografie invisibili
di e con Roberto Marcelo Sánchez-Camus
durata 25'
Napoli, centro storico, 4 luglio 2013
in scena dal 3 al 7 luglio 2013

Accettati
di Federica Terracina, Davide Adamo
dipinti e disegni Federica Terracina
fotografie Davide Amato
Napoli, interno privato, 4 luglio 2013
in scena dal 3 al 7 luglio 2013

Crìos − Thinking of Sarah Kane
coreografia Luisa Squillacioti
con Luisa Squillacioti
durata 15'
Napoli, Kiphy Saponi Naturali, 5 luglio 2013
in scena dal 3 al 6 luglio 2013

Party digitale
di e con Dana Alijouder, Bassem Mansour
durata 40'
Napoli, Evaluna Caffè, 5 luglio 2013
in scena dal 3 al 6 luglio 2013

Studio su figura 1
coreografia Chiara Orefice
con Chiara Orefice
durata 20'
Napoli, CasAtelier Cervo, 7 luglio 2013
in scena 6 e 7 luglio 2013

Freeze
di e con Cinzia Pietribiasi, Pierluigi Tedeschi
durata 25'
Napoli, CasAtelier Cervo, 7 luglio 2013
in scena dal 3 al 7 luglio 2013

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