“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 04 July 2013 02:00

Empire o dell'Arte

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Che cos’è l’Arte? Senza soffermarci troppo nei dettagli delle teorie antiche e moderne in merito, cosa che dilungherebbe troppo la trattazione di questo scritto, possiamo sintetizzare dicendo che, se per gli oggettivisti antichi il senso ontologico dell’arte è da ricercare nella relazione immanente tra estetica ed opera, per i soggettivisti moderni l’essenza artistica è una valutazione tutta umana, e quindi scevra da canoni ben precisi di uno standard estetico.

Opera d’arte diventa dunque un giudizio soggettivo (e opinabile). Ma in base a che cosa (anche nel relativismo in cui viviamo) possiamo affermare che per “noi” un ente sia oggetto d’arte ed un altro no? Il film preso ad esempio è l’emblema di questo quesito. Empire, opera del massimo esponente della pop-art Andy Warhol, è un film inaccettabile. Un’unica inquadratura fissa che riprende per 24 ore l’Empire State Building. L’enorme durata, sproporzionata per qualsiasi produzione cinematografica, dà già un’idea dell’inqualificabilità del lavoro di Warhol. Per gli antichi, ad esempio, il tempo era un fattore fondamentale nella produzione di un'opera. A tal proposito Aristotele scrisse nella Poetica dell’importanza nella tragedia di unità di tempo, luogo e azione. Fattori questi completamente sfasati nel film in questione, dove l’azione è inesistente, il luogo è circoscritto e reso nullo ed il tempo è praticamente insostenibilmente infinito. È interessante notare che anche un moderno quale Edgar Allan Poe ha dato rilievo al fattore tempo e alla sua unità. Questi ne La filosofia della composizione (Rizzoli, Milano 1997) infatti scrive: “Se un’opera letteraria di qualunque tipo è troppo lunga perché la si legga in una seduta sola, dobbiamo rassegnarci a fare a meno dell’effetto, di enorme importanza, legato all’unità di impressione. Perché, se occorrono due sedute, fra l’una e l’altra si frappongono le vicende del mondo, e ogni parvenza di totalità ne viene immediatamente distrutta”.  Il tempo sembra rivestire quindi un ruolo chiave, a nostro avviso però va in questo caso fatto un distinguo. Non possiamo certo scartare un romanzo di mille pagine dalla catalogazione di opera d’arte solo perché troppo lungo. Le “vicende del mondo” che si sovrappongono tra una lettura e l’altra dell’opera a cui si riferisce Poe, sono sicuramente determinanti per l’effetto totale dell’unità di impressione, ma non devono costituire una regola fissa ed un impedimento. Nel caso della letteratura quindi ci sembra di poter affermare che l’opera, a prescindere dalla sua lunghezza e dalla modalità di lettura temporale del fruitore, deve rispecchiare un “Mondo” immediatamente percepibile al di là delle vicende umane che ne intervallano la lettura. Il virgolettato non è solo accentuativo, per Mondo infatti intendiamo riferirci alla concezione heideggeriana dell’arte. L’opera d’arte è innanzitutto un oggetto fisico, una “cosa” (che sia l’arte concettuale del Novecento o meno): “i quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina” (L’origine dell’opera d’arte, La Nuova Italia, Firenze 1979). Tale oggetto ha un suo esibirsi in quello che è in tutto e per tutto una percezione sensoriale del fruitore. Ma l’essere oggetto della cosa ha un “di più” che lo trasforma in opera. Un paio di scarpe, utilissimo per camminare su questa “Terra” (ed anche questo virgolettato ha, sempre d’accordo con Heidegger, il suo perché che vedremo a breve), non possiamo certo classificarlo tra le opere d’arte se la sua funzione è solo utilitaristica. Questo “di più” è precisamente un rimando, un collegamento che trasforma l’oggetto (la cosa) in “messa in opera della verità”. Illuminante è l’esempio del tempio greco che il filosofo tedesco illustra: un tempio, un edificio in quanto semplice oggetto fisico, non riproduce nulla, nel suo ergersi rappresenta solo se stesso. Ma in quanto opera, cioè produzione di un autore che voglia racchiudere nel suo prodotto di composizione “nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina”, esso diventa metafora che delinea “la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino. L’ampiezza e l’apertura di questi rapporti è il Mondo di questo popolo storico”. L’opera d’arte messa a nudo dischiude quindi tutto il Mondo che la circonda, tutta la cultura che le dà origine e la muove. Ma il Mondo non basta. Aggiunge Heidegger: “Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo rapporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l’opera tiene testa alla bufera che la investe rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. […] Essa illumina a un tempo ciò su cui gli uomini e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo la Terra”. Cultura e Natura, cioè Mondo e Terra, sono i due elementi racchiusi nell’opera d’arte che rivelano la verità celata in essa, un passaggio che va dall’opera alla “cosa” che essa rappresenta. Il sovvertimento operato da Warhol e dagli altri esponenti avvicinabili alla pop-art, come il francese Marcel Duchamp con i suoi ready-made, è un capovolgimento della transizione “da opera a cosa”. L’oggetto fisico, come può essere l’Empire State Building o la piramide di barattoli che Warhol formò e mise in mostra col nome di 100 Brillo Boxes (100 scatole di detersivo Brillo), o anche l’orinatoio che mezzo secolo prima Duchamp aveva presentato in un’esposizione d’arte col nome di Fontana, si trasforma in 'opera' grazie sempre a proprietà relazionali, ma che non abbiano un riscontro qualitativo intrinseco all’oggetto stesso. Un elemento importante per compiere questa rivoluzione è l’utilizzo di un titolo. Come abbiamo visto Duchamp aveva intitolato il suo orinatoio, una ceramica in tutto e per tutto uguale a quelle che abbiamo nei nostri bagni, Fontana, un titolo fuorviante. Ma basta mettere un titolo per trasformare l’oggetto in opera? Secondo il filosofo e critico americano Arthur Danto, che alle lattine Brillo dedicò un articolo, il titolo è un elemento cardine. Esso infatti cangia il senso dell’oggetto e lo trasforma in un surrogato dello stesso che diventa metafora per esprimere altro da sé. Inoltre, la mano dell’autore, cioè l’essere artista, rende, per uno strano marchingegno tautologico, il prodotto un'opera d’arte: “Fuori dalla galleria sono scatole di cartone. […] Se però riflettiamo meglio, scopriamo che l’artista non ha potuto, di fatto e necessariamente, produrre un mero oggetto reale. Ha prodotto un’opera d’arte, essendo l’uso che ha fatto delle scatole di cartone Brillo un espansione delle risorse a disposizione degli artisti, un contributo ai materiali degli artisti, come lo era stata la pittura a olio” (The Artworld, in The Journal of Philosophy, 1964). L’atto rivoluzionario operato da Warhol e gli altri diventa quindi una potentissima trasformazione del reale. Un'Arte che sembra voler contraddire se stessa, prendendosi anche per i fondelli, e che tramuta in altro ciò che il soggetto percepisce immediatamente. È come il fenomeno della transustanziazione, un pezzetto di pane, uguale in tutto e per tutto ad altri pezzetti di pane che, per opera del sacerdote, diventa un ente nuovo senza però sostituirne la sostanza. L’essere Arte diventa quindi trasformare in Idea ciò che l’occhio fisicamente mostra come mero oggetto fisico. Possiamo dunque parlare di una vera e propria metafisica dell’Arte, la “cosa”, l’oggetto immanente trasformato in ente trascendente e questo intero processo di trasformazione è l’essenza dell’Arte di Empire. Un’Arte che, insieme a tutte le altre, cioè nella sua essenza e finalità ultima universale, è (d’accordo con il neuroscienziato Vittorio Gallese) “liberarsi del mondo per ritrovarlo più pienamente”.
Ormai da tempo circola solo la versione ridotta del film. La nuova durata è di un’ora circa. Che siano 24 o soltanto una, lo spettatore rimane, anche per un solo minuto, abbagliato da quell’assurda trasformazione cui sta assistendo sullo schermo, e si chiede quale Mondo e quale Terra si celino dietro quella Cosa trasformata in Opera.

 

 

Retrovisioni
Empire
regia
Andy Warhol
prodotto da Andy Warhol
paese USA
lingua muto
colore b/n
anno 1964
durata 24h

 

 

 

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