“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 25 June 2013 02:00

Pene maschili

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Un uomo è due persone: se stesso e
il suo cazzo
.

                            Baryl Bainbridge

 

 

Cabaret, happening, drammaturgia recitata con mascheramento consapevole e con intersezioni musicali, interazione diretta col pubblico, fintate sbadataggini di dialetto o d’azione, relazione dichiarata e volutamente grottesca con il tecnico dei suoni o con quello delle luci (“curioso: chiamo il musico per le musiche e mi risponde il luciaio per le luci”): Monologhi del caxxo di Compagnia baby gang è un serioso tentativo vivace che – fondendo pantomima di trama a pantomima in apparenza improvvisa e spontanea – mira a fare eco o richiamo dei Monologhi della vagina di Eve Ensler. Vi riesce davvero?

Al capolavoro della Ensler le donne devono l’affermazione di una voce (in forma di molte voci) capace di cogliere, raccogliere, condensare, significare e testimoniare segregate pulsioni intestine e voglie da sottopelle e malesseri e convinzioni e rari piaceri e piaceri più intensi e turbative, timori o paure, dichiarazioni d’intenti, necessità e bisogni, ostinazioni e ironie che servano ad affermare i diritti al rispetto e ad uguali condizioni di nascita, crescita ed affermazione di sé (sessuale e non) da parte di questa maggioranza del cielo che è il femminile. Non è un caso, infatti, che le parole “vagina” e “carne” – nei monologhi della Ensler – si trovino nella stessa pagina, nello stesso paragrafo, nella stessa frase in cui vengono usati i termini “io”, “coscienza”, “fiducia in noi stesse”, “orgoglio”, “futuro” e – se la parola “vagina” è ripetuta centoventotto volte nei testi – essa è presente anche quando non la si trova scritta su carta, anche quando non la si sente nominare diretta (“Lentamente compresi come nulla fosse più importante del porre fine alla violenza nei confronti delle donne, che in verità la dissacrazione delle donne rivelava il fallimento degli esseri umani nell'onorare e proteggere la vita; e questo fallimento, se non l'avessimo rettificato, avrebbe significato la fine di tutti noi. Non penso di essere estremista. Quando si violentano, picchiano, storpiano, mutilano, bruciano, seppelliscono, terrorizzano le donne, si distrugge l'energia essenziale della vita su questo pianeta. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile e domato”). Questo perché la Ensler comprende quanto vi sia relazione diretta tra pieghe e luoghi della carne e le pieghe e luoghi della società. Genera, i Monologhi della vagina, una dichiarazione d’intenti che, dall’utero, si riversa nelle strade e nelle case e negli uffici tentando di non consentire più menefreghismo, maldicenza, disinteresse.
Invece il progetto dei Monologhi del caxxo non riesce mai – e mai davvero – a raggiungere la stessa intensità d’affermazione, mai davvero a produrre la stessa sensazione di necessità, mai davvero a porre in relazione approfondita, strettissima e nuova, la sessualità maschile al contesto nel quale essa s’adopera, s’afferma, prende o pretende, spesso tramutandosi in qualcosa di affine o diverso.
Da un lato il tentativo accenna soltanto alla penetrazione dell’intimo; dall’altro pare incapace di cogliere, afferrare e brandire la coincidenza (simbolico-effettiva) tra il fallo e la sua metaforizzazione in altro (potere economico, supremazia fisica, accumulazione di cariche e ruoli, di guadagni e di compiti). Costruendo una messinscena in quattro quadri (conoscenza di sé; percezione di sé; affermazione di sé; cura di sé) ed un’orazione conclusiva (il pene come rimando al Paese) questi Monologhi, pur strappando risate e qualche imbarazzo, hanno il limite d’ottenere solo e soltanto queste risate e questo imbarazzo. Troppo poco, data l’importanza dello spunto di base.
Potrebbe scriversi che Monologhi del caxxo manca di verticalità e di orizzontalità.
La verticalità – questo scendere a piombo dal cervello alla zona inguinale – si ferma alla superficie tattile dell’intimità maschile: piuttosto che scavare il pensiero e l’ossessione fallocentrica (di cui, ad esempio, la venerazione dell’uomo per il proprio membro è un aspetto), Monologhi del caxxo lo carezza soltanto limitandosi ad inscenare macchiette che alludano alla masturbazione, alle dimensioni, alle prestazioni ed al controllo medico. Reitera, lo spettacolo, uno schema preciso: luci alte e chiare illuminano la platea, domande dirette cercano di provocare stupore e silenzio, sovente riuscendovi; s’accenna a qualche doppio senso voluto; s’allestisce e si prepara l’accoglienza della piccola forma drammaturgica che deve trattare il tema specifico: un padre incapace di dialogare davvero con il figlio undicenne; il monologo di chi scrive e confessa “ce l’ho piccolo”; gli assoli tramutati in dialogo ed intenti a compiere l’elogio della fantasia immaginativa; un recitato a due voci (“L’omino tenero e carino soffriva per il suo pisellino”) che sospinga correttamente all’urologo. Ciò che ne viene è un divertito stimolo iniziale cui non segue rispondenza effettiva: si sghignazza, si ha qualche timore a rispondere, s’attende che gli altri s’espongano per esporsi poi noi, si nutre una curiosità su come il gioco continui ma, il gioco, continua con visioni teatrali sbiadite o consuete, che hanno il torto di non aggiungere nulla di nuovo rispetto al rimosso, al segreto o al mancante del tema.
L’orizzontalità dell’inchiesta – questo portarsi dal proprio centro del corpo alle più ampie distese sociali – si realizza per mezzo della sola orazione finale (incisi interni che danno il ritmo del testo: “Patria come padre”; “Paese del cazzo”; il verbo “venire”) composta alternando sconforto e disprezzo per la condizione presente con la speranza di una diversità di crescita e di maturazione tangibile: “L’Italia che verrà… questo Paese viene, viene, sta venendo… sta venendo… viene, viene… viene dopo”. E anche in questa parte di trama l’opera dimostra la propria inefficacia effettiva, non argomentando in maniera ulteriore bensì limitandosi soltanto all’allusione più facile o ai richiami più immediati e di facile presa.
Se un merito possiamo ascrivere davvero a Monologhi del caxxo (sottolineata la capacità nel rapporto con il pubblico più che nella realizzazione di segmenti teatrali convincenti davvero) è a margine dello spettacolo stesso, allorché si considera che – a differenza di quanto avvenuto con i Monologhi della vagina di Eve Ensler – non vi è corrispondenza di genere tra soggetto ed oggetto del tema: lì donne dicono di donne; qui donne dicono di uomini. La ragione, naturalmente, non può essere nella battuta dello spettacolo (“Perché due donne per parlare del cazzo? Perché ogni donna ne ha uno dentro di sé”) quanto, piuttosto, nell’incapacità veritiera degli uomini di interrogarsi sul proprio stato, sulla propria condizione, sul proprio ruolo (sessuale e non).
“Ha perso di senso” è tra le frasi che ricordiamo in chiusura. L’oggetto dichiarato è il membro ma – a chi scrive – sembra che s’alluda piuttosto all’uomo in quanto uomo, a quell’inutile “pezzo di carne attaccato ad un pene” di cui scrive Jo Brand, vero assente oramai, scomparso di cui si ricerca presenza facendo appello (paradossale e sincero): anche con questi Monologhi.

 

 

 

 

Fringe E45
Monologhi del caxxo

di e con Carolina De La Calle Casanova, Valentina Scuderi
regia Lucia Vasini
musiche originali Marcello Gori
luci Luna Mariotti
produzione Compagnia b a b y g a n g
in coproduzione con Fondazione Campania dei Festival, E45 Napoli Fringe Festival
durata 1h 35’
Napoli, Sala Assoli, 22 giugno 2013
in scena 22 e 23 giugno 2013

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