“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 June 2013 02:00

Per un Amleto

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Macelleria Ettore mette in scena Amleto?
Si nota subito: la parte d’inchiostro più importante della frase scritta qui sopra è il punto interrogativo. Appartiene al titolo ma sembra curvare l’intera preposizione, tramutando, l’affermativa, in un’interrogativa. Scrivere “Macelleria Ettore mette in scena Amleto” avrebbe significato qualcosa mentre scrivere – come abbiamo fatto – “Macelleria Ettore mette in scena Amleto?” significa tutt’altro: il punto interrogativo è la differenza.
È questo punto interrogativo (primo indizio) a suggerirci che, Amleto?, non è Amleto.
Quando sediamo, scegliendo il nostro angolo di percezione, riceviamo un dono dalla sorte: abbiamo di fronte il piedistallo con le luci che serviranno allo spettacolo. Le luci sono il secondo indizio. Il terzo è dato dalla foggia degli interpreti: maglia nera, pantalone nero, scarpe nere: non vi è alcun costume e, dunque, non vi è alcun inganno apparente.
Il punto interrogativo, le luci, la mancanza d’inganno apparente: i tre indizi che ci permettono di ripensare ad Amleto? di Macelleria Ettore, scrivendone.

“Chi è la?”; “Bernardo?”; “Hai avuto una guardia tranquilla?”; “Chi è là?”; “Chi ti ha dato il cambio?”; “Di' un po’, c’è Orazio là?”; “Allora, questa cosa è apparsa di nuovo stanotte?”. Sono gli interrogativi che ritroviamo nella prima pagina dell’Amleto di Shakespeare: sette. Sono diciassette nella prima scena, settantanove nel primo atto: a metterli assieme, uno di seguito all’altro, colmeremmo interamente lo spazio destinato all’articolo.
Gli interrogativi appartengono a Claudio e Polonio, ad Orazio e Bernardo, ad Amleto padre e ad Amleto figlio ed a Laerte, Ofelia, Gertrude, ai buffoni e ai becchini: fatta eccezione per il teschio di Yorick, quasi tutti nell’Amleto formulano almeno una domanda. Gli interrogativi sono formulati da (quasi) tutti e riguardano (quasi) ogni argomento: il tempo, l’orario, l’apparizione o la sparizione dello spettro; un viaggio compiuto o da compiere, una somiglianza vera o presunta e l’amore, la guerra, la pazzia. Si va da “Che significa questo, mio signore?” a “Davvero?”; da “Che ora è adesso?” a “O vergogna, dov’è il tuo rossore?”; da “Che c’è, Ofelia?” a “Chi sopporterebbe le frustate e gli insulti del tempo, il torto degli oppressori, l’offesa degli arroganti, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e gli insulti che il merito paziente riceve dagli indegni, quando da solo potrebbe darsi quietanza con un semplice stilo?”.
Brevi o lunghi, accennati o tormentosi, gli interrogativi sono parte essenziale dell’Amleto: lo formano; gli danno ritmo e senso; ne scandiscono la nascita, lo sviluppo, la conclusione. Forse perché – in Amleto – il mondo è a soqquadro e, quando il mondo è a soqquadro, occorre rimetterlo in sesto chiedendosi come. Forse perché – in Amleto – nulla è come sembra ed occorre distinguere ciò che è da ciò che sembra. O forse perché l’Amleto è anche una recita, anzi, è la recita che Amleto scrive per la compagnia dell’Amleto perché la compagnia dell’Amleto la metta in scena e – se così fosse – i dubbi di Amleto diventano i dubbi ch’egli assegna a tutti gli altri: personaggi ed interpreti.
Ma se Amleto è una recita (“Dov’è questo spettacolo?”) Amleto – oltre che autore del testo – è un attore (“Vengono per il dramma. Devo fare il matto”) ed allora chi recita Amleto recita chi recita finendo per recitare due volte: gli interrogativi appartengono al testo ed al personaggio ma, gli stessi interrogativi, appartengono così anche all’attore.
Questo ragionamento (della cui tortuosità ci scusiamo) fa comprendere che l’interrogativo del titolo Amleto? appartiene agli attori di Macelleria Ettore: noi abbiamo dinnanzi degli attori, questi attori s’interrogano su un’opera piena d’interrogativi.
Se il gioco fosse volutamente chiarito e reso evidente, sentiremmo pronunciare frasi del tipo: “Come posso caratterizzare Amleto?”; “Come faccio apparire il tormento di Ofelia?”; “Con che ritmo pronuncio questa battuta?”; “Come devo muovere la mano in quest’occasione?”; “Occorre che batta il piede quando pronuncio la parola ‘piede’?”. Ma il gioco è più sfumato, leggermente nascosto e sfrangiato, ed è visibile soltanto ad uno sguardo che presti attenzione: “Spalti del castello… freddo… e punge… e paura”; “Spettro… vista orrenda… vedere qualcosa… al buio… allucinazione… ricordo”; “Pazzia… possibilità… filtro per vedere… teatro… costruzione del personaggio”.
Ciò cui assistiamo è la recita di come si lavora ad una recita ovvero è l’Amleto che, non essendo ancora l’Amleto, non può che essere Amleto?, ove il punto interrogativo (oltre a fungere da richiamo al contenuto formale e sostanziale dell’opera) rimanda ed allude al lavorìo faticoso e spossante e perturbato ed incerto e celestiale e dannato e costantemente fatto, sfatto e rifatto che svolge un attore, sovente scorticandosi l’anima con le stesse pagine cui cerca di rendere un’anima.
A darci conferma di quanto gli interrogativi del testo siano gli interrogativi di chi lavora sul testo sono le luci. Amleto? prevede – infatti –  tre tipologie d’illuminazione.
La prima è fredda, sbiancata fino al pallido, ed illividisce i brandelli provati o recitati dell’opera (il frammento di un monologo; lo scambio di un dialogo; un a-parte improvviso). Investe l’interprete consentendogli un momentaneo “chi è di scena”.
La seconda è un fascio più caldo e più ampio – come ad evocare il giorno e le prove fatte di giorno – e colora i due interpreti quand’essi riflettono sul testo cui stanno lavorando (“Se fossi Amleto proverei ad essere Ofelia”) investendo di sé la trama perché ne appaia il ruolo o un dettaglio del ruolo (“La prima volta che mi hai baciata; il mare di notte; ridere insieme; quando ho assaggiato le tue lacrime; quando mi sono ubriacata; quella volta che sono partita e tu eri geloso perché pensavi avessi un altro; quando ti ho preso a pugni; quando ti ho detto ‘Ti amo’”).
La terza è un bagliore da fine giornata, un’oscura presenza di luce calante, un buio ornato da contorni di rado pulviscolo: le prove sono finite o sono in pausa e ciò che rimane sono un uomo e una donna. L’impegno teatrale non scompare (come fosse una piacevole malattia che t’intossica e che ti porti tra i muscoli anche quando sei a cena, osservi una vetrina o fai l’amore) ma ciò che viene restituita è la dimensione privata di chi avrà una dimensione pubblica, uguale e diversa.
Le tre tipologie d’illuminazione (che generano un interrogativo, nostro questa volta: la scelta di scenografare con i fari quanto è dovuta all’intangibilità di Cappella Sansevero? Su di un palco consueto, tra quinte consuete, assisteremmo alla stessa caratterizzazione policroma?) consentono a Carmen Giordano di evidenziare quanto Amleto? sia la rappresentazione di un momento creativo – un impasto di prosa d’autore e di fatica personale – in cui la prosa d’autore investe e muta e sostanzia la fatica personale tanto quanto, la fatica personale, caratterizza e segna e riforma la prosa d’autore.
Un uomo e una donna sono attori, questi due attori hanno due ruoli, questi due ruoli appartengono all’Amleto; l’Amleto prevede due ruoli, questi due ruoli necessitano di due attori; questi due attori sono un uomo e una donna: movimenti apparentemente contrari (dalla vita al teatro, dal teatro alla vita) generano un incontro nel mezzo (la vita del teatro, il teatro della vita): questo incontro nel mezzo è Amleto?.
Detto che abbiamo qualche dubbio sui cinque minuti terminali dell'opera (nei quali la follia di Amleto si traduce in una fisica violenza di botte – rielaborazione esterna della violenza interna subita da Ofelia, perché l'identificazione attori/personaggi sia completa – per richiamare all’indifferenza amorale di chi guarda e rimane inattivo: la conta dei morti del teatro shakespeariano; l’indifferenza ai soprusi subiti da altri o da noi), ecco che il terzo indizio – l’assenza di costumi – si è già chiarito da sé: non vi sono merletti e fogge scolpite di ricami sontuosi e drappi che scendono e grandi mantelli e calzari dell’epoca a piedi infiocchettati da nastri e fettucce tanto quanto non c’è un castello, la sua sala, il suo trono e le altre camere, le mura merlate, i giacigli segreti e la tenda dietro la quale si spia per morire spiando: non siamo ad Elsinore, non ancora almeno.
Siamo in una sala prove. Qui si vive, affaticandosi, cercando di mettere su uno spettacolo, destinato a chissà quale giorno. Allora, e soltanto allora, forse Amleto? diventerà Amleto.

 

 

 

Fringe E45
Amleto?
testo e regia Carmen Giordano
con Stefano Pietro Detassis, Maura Pettorruso
produzione Macelleria Ettore_teatro al Kg
in coproduzione con Artè-Teatro Stabile d'Innovazione di Orvieto, La Corte Ospitale di Rubiera
durata 1h
Napoli, Cappella Sansevero, 18 giugno 2013
in scena 18 e 19 giugno 2013

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