“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 19 June 2013 02:00

Una festa quasi perfetta

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Era una serata fantastica, stavo ballando ad occhi chiusi sulle musiche di Guetta e Tiesto, col drink in una mano e la mia droga nell’altra. Ero a casa e solo, con la musica house nel lettore mp3, una lattina di Sprite in una mano e una penna nell’altra.

 

Ballare, scrivere, leggere, guardare film e anime, giocare ai videogiochi, dormire, la doccia bollente, masturbarmi: era così bella la vita ad occhi chiusi, così bella senza il mondo! 

Questa era una delle mie solite serate da sballo, la mia alternativa da astemio solitario al divertimento delle piazze, dei pub, dei locali “in” e delle discoteche.

Avrei fatto l’amore anche io e l’avrei fatto con un materasso che quanto meno sarebbe stato sobrio e privo di malattie sessualmente trasmissibili, e che non avrei mai dovuto convincere ad abortire per colpa del mio portafoglio vuoto.

Sarei stato solo, ma almeno non lo sarei stato in mezzo ad altri. Avrei avuto più di un metro quadro per ballare e nessuna zanzara si sarebbe strusciata a me con addosso un chilo di trucco, i tacchi a spillo e il reggiseno push-up cercando di nascondermi le sue vere intenzioni: si può essere reticenti verso qualcuno che dice di amarci, mai verso qualcuno che ci dice che vuole succhiarci il sangue o ucciderci.

 

Avrei conosciuto anche io altri, perché scrivere dopotutto serve solo a conoscersi. Escludendo ovviamente chi con le parole riesce a farci i soldi da vivo. E avrei avuto anche io le farfalle nello stomaco, quelle della Barilla comprare in offerta a 0,99. E avrei avuto anche io le farfalle nello stomaco perché conoscersi è un’epopea tragica, perché dopotutto conoscere gli altri è una necessità ma conoscere se stessi significa avere rispetto, significa amare.

 

Ma purtroppo la mia serata idilliaca sarebbe finita ben presto. Guardai quell’“errore” appeso spesso al muro e solitamente in basso a destra sul desktop, l’orologio, e mi resi conto che ero in ritardo e che dovevo uscire. Un mio caro amico, che odiavo, sarebbe partito a breve per l’Africa e aveva organizzato una piccola festa a casa sua. Questa era forse la mia ultima occasione per dirgli quanto fossi deluso e incazzato con lui per averla fatta piangere dopo tutti quei discorsi fatti assieme, per abbracciarlo e dirgli che nonostante le sue convinzioni e speranze lui non sarebbe cambiato mai. Ho sempre ammirato l’ottimismo delle persone convinte di poter cambiare in un modo o nell’altro senza dover passare dalla casella “odio e disperazione, guerra e malattia, tortura e morte”, e lui era sicuramente una di quelle!

Eppure la realtà è che noi non cambiamo mai, rimaniamo per tutta la vita quella persona che nel momento cruciale farà la scelta sbagliata di cui si pentirà, rimaniamo il bambino che eravamo con le sue paure e necessità, con la sua fantasia e un certo amore per le proprie feci. Vivere esperienze e viaggiare non fa altro che rivelarci tutta la diversità in noi, ma non si sfugge mai da se stessi.

Certo all’apparenza un fiore sbocciato e il suo seme hanno poco in comune, sono quello che noi chiameremo “due persone completamente diverse”, eppure sono la stessa cosa e nemmeno gli OGM di melanzana una volta piantati danno vita ad un albero di cocco: chi l’ha mai visto un sasso che diventa il mare?

Ma non si può che provare invidia per i beati ingenui che dopo ogni viaggio sentono ancora la necessità di dover partire e cambiare convinti di essere già cambiati! Proprio così come non si può provare tenerezza per quelli che, quasi ignorando del tutto le leggi dell’umidità dei genitali e le necessità della solitudine, pensano ogni volta che l’amore precedente non sia stato “vero amore” e che la persona incontrata dopo sia invece sicuramente quella “giusta”.

 

Mi ritrovai così per vie oscure e infernali, dantesche oltre ogni immaginazione, strade in cui non avrei nemmeno voluto sedermi per suonare la chitarra se fossi stato morto di fame.

Alla seconda traversa una macchina di due individui poco raccomandabili si ferma e mi dice di non proseguire oltre perché poco più in là “ci sono alcuni che si stanno ammazzando a legnate”.

Mi ritrovo così perso in piena notte e dopo aver superato un cinema porno mi ritrovo dinanzi una porta sulla quale è scritto “la divina provvidenza” e ricordandomi la triste fine dell’omonima imbarcazione verghiana mi allontano saggiamente. Finalmente trovo la casa, busso, e come da copione mi apre una ragazza sconosciuta che mi dice di chiamarsi Lilith, la prima moglie di Adamo nonché il noto demone biblico portatore di “disgrazia, malattia e morte”.

 

Salgo allora delle strette scale e mi ritrovo in un appartamento pieno di persone sconosciute provenienti dalle più svariate parti del mondo, il mio amico è come al solito ai fornelli a friggere polpette. Lo saluto calorosamente anche se non riesco a ostentare una certa espressione di scontento, non è bello sentirsi una delle tante persone della serata ed avere un appuntamento con una persona che non avrà più di cinque minuti a disposizioni per parlarti. Mi guardo di nuovo attorno e vedo tante persone che mi avrebbero detto “ciao, come va?” senza che gli interessasse minimamente; incazzato mi dirigo dunque sulla terrazza dove intendo mettermi comodo e trascorrere il resto della serata da solo: raramente nella mia vita ho trovato migliore compagnia del cielo, anche annuvolato.

Vi è inoltre la sicurezza di un muretto dal quale potrei buttarmi senza farmi troppo male, tra l’altro dubito che qualcuno, compreso il mio amico, si accorgerebbe della mia improvvisa mancanza a questa festa quasi perfetta.

 

Ovviamente anche sulla terrazza, sedute su un telo, ci sono tante altre ignote persone ed è in questi casi che più mi manca avere quel così diffuso gusto per la “compagnia” e per la baldoria, quel tristissimo ma utilissimo senso di divertimento ed eccitazione nel “conoscere persone nuove” nella principale speranza di ridere e scoparci.

Già fra italiani si è abbastanza diversi ed è abbastanza difficile capirsi e volersi veramente bene, conoscersi intimamente; se si tratta poi di provarci con afgani e australiani il cui nome è impronunciabile e impossibile da tenere a mente che almeno ciò avvenga in una condizione in cui quelli non hanno fumato erba e possibilmente che si conosca una persona alla volta e non tutte assieme!

Io ho sempre adorato la diversità, non per grandezza d’animo ma poiché diverso sono sempre stato, però esservi di fronte in queste condizioni mi fa solo stare male.

 

C’è tanto spazio sulla terrazza e io sono in disparte, ed ecco che stranamente un altissimo e muscolosissimo turco mi si presenta e viene a sedersi proprio accanto a me. Dopo un po’, sentendomi osservato, mi giro di scatto e mi rendo conto che il turco mi sta fissando e sorridendo. Già immagino la scena, io che scappo e lui che subito mi raggiunge, mi prende sottobraccio e mi sculaccia fino alla stanza dove poi mi stupra. Contro quell’ammasso di muscoli ogni resistenza sarebbe inutile, anzi lo ecciterei solo di più, la pazienza dopotutto è la madre di tutte le virtù e mi converrebbe essere ben disposto nei suoi confronti e chiamarlo “topolino mio”. Una ragazza arriva dal nulla con delle candele che dispone sulla terrazza e ne mette una fra noi due sul telo: ora sì che la situazione si è fatta romantica. Guardo il turco, gli sorrido e con un soffio spengo la candela esclamando “non mi piacciono le candele, e poi così siamo più comodi”.

Lui si alza e se ne va, fra quarant’anni potrei pentirmi di aver spento così brutalmente questa storia d’amore, io potrei pentirmene ma il mio ano no.

 

Attorno a me tutti sembrano molto contenti e allegri, bevono e fumano, ridono e non si capiscono, qualcuno suona la chitarra. Queste persone si potrebbero definire “aperte”, ma rimane il fatto che non hanno alcun interesse a dirti la verità, potresti anche solleticargli il perineo ma c’è davvero interesse nel parlare a qualcuno la cui intimità ti è irrimediabilmente preclusa? È già così difficile prendersi cura degli amici che si hanno, che interesse c’è nel cercarne altri?

La compagnia… cosa c’è di più deprimente!? Mi sentirei molto più a mio agio accanto a un pedofilo che non accanto a tutte queste persone che per tutta la vita sentono il bisogno di riunirsi in questo modo poiché incapaci di affrontare la propria solitudine. “Frequentarsi” è una parola che mi ricorda le frequenze della radio, quelle che sballano e cambiano sempre quando c’è il tuo pezzo preferito, che scompaiono puntualmente nel buio della galleria... Che interesse c’è nel conoscere persone con cui non si intende condividere anche un breve destino? Meglio starsene in mutande a casa a vivere il proprio disperato erotico stomp. Le parole e le risate che sento non sono altro che rumore, ed il rumore è la morte intellettuale e sentimentale di ogni uomo. La mia non è solo tristezza, io li guardo e li invidio, e poi li disprezzo e mi fanno pena, ma mi faccio più pena io.

 

Dannati hippie anacronistici con la loro leggerezza, a sorridere senza un motivo e a goderne, a non capire e a riderne, col loro facile relativismo, con la loro finta felicità e leggerezza che è l’insostenibile peso che deve reggere chi gli sta attorno, chi condivide la loro stessa fantomatica società. C’è forse qualcos’altro se non una incredibile paura della diversità nel loro credersi tutti uguali? Perché noi non siamo uguali, non lo saremo mai, e non lo diceva Hitler ma Levi-Strauss! Credono di essere la rivoluzione e fanno i primitivi, curano il loro look da trascurati più di un qualsiasi borghesuccio che ostenta la sua falsa ricchezza, vogliono vivere una vita di ricchezza e per vivere fanno un po’ meno di quanto basta, e vivono accontentandosi di patetici confronti.

Non hanno idea del sacrificio, di cosa significa essere adulti, di quanto sia necessario e impossibile essere eroi: sono esseri incapaci di catarsi.

 

...Per favore posa la chitarra e lascia in pace De André, lui ha creato le canzoni che ti piacciono e la tua più grande ambizione invece è laurearti per andare a vivere in Spagna dove bere e fumare costa meno: tu sei il suo fallimento, anche se non provi vergogna almeno abbi ritegno.

 

Dopo un paio d’ore, raggiunto il limite, decido di andarmene e vado a salutare lei... Ha gli occhi socchiusi e le chiedo se è stanca, mi sorride ma per la prima volta non trovo alcuna bellezza nel suo sorriso: sorride perché ha fumato e mi sento umiliato.

Perché loro, perché lei, non chiederei nient’altro che provare a renderli felici per davvero e vedendoli pagare e alterarsi chimicamente per sorridere mi rendo conto di quanto grande sia la mia incapacità... La cosa più preziosa della mia solitudine è sempre stata illudermi di non essere inutile ed è ciò che invece il mondo ogni giorno mi ricorda e rinfaccia: ecco perché non esco mai, perché ecco perché ogni uscita è per me uno stupro. Che voglia di morire che mi venne, quanto pesanti sono sempre state per il mio cuore le droghe leggere! Non ho mai avuto nulla contro la droga o i drogati, ma davvero non tollero chi cerca scappatoie dall’infelicità.

Nessuno più di me poteva capire quanto bella e a volte necessaria fosse una vita ad occhi chiusi, ma poterli riaprire in ogni istante, sforzarsi e faticare, non dimenticare l’importanza di essere tristi e soffrire, sentirsi patetici e codardi durante il divertimento e la fuga dalla realtà: questo è essenziale ed è precluso a chi sceglie alcune forme di spensieratezza.

 

Disgustato dal mio stesso moralismo, avrei voluto dirle tante cose ma non amo sprecare parole che non verranno ricordate, specie per persone importanti.

Stetti dunque in silenzio a guardarla un po’ con dolcezza, dopotutto se anche l’avessi fatta ridere nonostante la sua tristezza non ci sarebbe stato nulla di eccezionale, poiché il merito sarebbe stato mio solamente in minima parte. Ah, quanto l’avrei voluta in quell’istante una bella e gigantesca canna, una qualsiasi droga per ritrovare il coraggio di tornare ad amare! Ma va da sé che anche se me l’avessero offerta, io l’avrei rifiutata: la felicità va meritata. 

 

Così le diedi un bacio sulla guancia, salutai il mio amico che sarebbe partito, gridai un “ciao” a tutti gli altri ragazzi di questa festa quasi perfetta che quasi nessuno ricambiò, e me ne tornai nel mio grembo, nella mia stanza, con una tristezza infinita, ma a suo modo preziosissima, nel cuore.

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