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Saturday, 15 June 2013 02:00

Una suggestione

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Il cerchio primo che traversiamo è una soglia carnale, un liminare confine che separa e divide il dentro dal fuori. Sospinti coma da una pulsione intestina siamo espulsi o scacciati, proiettati all’esterno: tracce bianche sporcano la nostra pelle minuta, gli occhi faticano a prendere luce mentre s’affollano ombre indistinte nel vocio indistinto.
Passiamo così dalla calda condizione uterina, che ci avvolge e protegge, al contatto col mondo: secco, spigoloso, naturale ugualmente seppur naturale in modo diverso. Questo primo cerchio è il luogo cui si giunge dopo aver percorso centimetri nel ventre materno ed è il luogo dal quale si parte per il nostro viaggio seguente: cominceremo a guardare più distintamente, muoveremo poi con scarsa consapevolezza le dita, le mani, le gambe, i piedi; emetteremo lamenti; un giorno tenteremo di camminare, cedendo subito all’incertezza dei nostri passi insicuri.

Il primo cerchio – origine della vita o meglio: soglia che valichiamo per venire alla vita pur essendo già vivi – è limite del covo in cui siamo celati; perimetro e tetto e porta della nostra prima casa abitata; spazio apparentemente angusto che contribuiamo ad espandere fino al gonfiore, fino al dolore, fino al parto espulsivo.
Non dev’essere un caso se la ritualità che genera apparenze ha come forma la forma del cerchio: un bastone traccia alla terra la circonferenza rotonda perché – in questo luogo altro nel luogo – avvengano evocazioni reali o immaginifiche. Non dev’esser un caso se il teatro assume dal rito questa forma del cerchio (Turner, Dal rito al teatro) – modificandola solo in parte – per inscenare epifanie ed esistenze. Si nasce dal buio del primo cerchio tanto quanto, nel cerchio teatrale, chi è di scena nasce dal buio del retropalco o delle quinte.
La suggestione – non sappiamo davvero quanto corretta – è suggerita dagli occhi alle mani, dalle mani alle dita, per la scrittura di quest’articolo: Il Cerchio Primo di Emma Cianchi (in assito Giuseppe Brancaccio) è certamente performance interessante nella sua composizione tecnico-spaziale: su un palco del tutto nero un cerchio di gesso bianco; sul fondo una rete o un velo sottilissimo; a sinistra un altro velo, rigido e curvo, che serba (semi-nascosta) l’ombra di un musicista: il performer danza, la danza genera pulsioni elettroniche, le pulsioni elettroniche si convertono in acuti sonori (una sorta di spilli capaci di pizzicare l’udito) e schegge visive (una sorta di lampi o di segni fluorescenti e zigzaganti): il tutto è accompagnato dal violoncello segreto – ed a-parte – di Raffaele Sorrentino. S’aggiungano: sulla parete di fondo proiezioni di stretti fasci a colori (bianco, verde, rosso); una cura assai accorta nell’utilizzo delle luci (ora un fascio unico, centrale e sbiadito, ora tre fasci netti e centrali; poi una bassa luce da destra, poi da destra un’alta luce più intensa) e – elemento dominante di scena – il tronco d’un albero che, riverso al contrario, discende dal centro del soffitto: ridipinto di chiaro e fasciato di garze, offre i suoi rami affondandoli a mezz’altezza.
Ebbene, questa complessa partitura visiva (composta per accenni e per simboli) è parsa, a chi scrive, generare la generazione ovvero la nascita, la fuoriuscita, il primo contatto con l’esterno; il passaggio dalla condizione del prima alla condizione di poi. Se l’immagine corrispondesse – pur solo di un minimo – alla verità del veduto potremmo azzardare uno spettacolo divisibile in quattro parti o sequenze.
La prima vede il performer disegnare, nel vuoto, l’interno e l’esterno di uno spazio ricurvo (come una cupola, come un igloo, come una mezza bolla, come il ventre di nostra madre): la mano sinistra ha la capacità di far percepire l’esistenza di una membrana pur non essendo, la membrana, visibile. Questa – che poggia idealmente sul cerchio tracciato per terra – è la tana, l’incavo, la grotta, la dimora ed il mondo di un individuo che non è ancora al mondo. Egli s’agita, si gira, si volta, s’accuccia e ristagna, si rialza e tocca, ritocca, quasi scalcia e colpisce ciò che lo tiene, ciò che lo serba.
La seconda vede il performer rompere gli argini: passare e ripassare, a ritmo sempre più sostenuto, il tondo bianco: s’alza la polvere generando una cortina fumosa mentre ogni traccia di gesso si perde: come vi fosse rottura, dilatazione, espansione necessaria perché accada ciò che deve accadere. Si noti: il passo accelerato produce un accelerato pulsare, simile a quello di un cuore che fa sforzo o pressione. Si noti ancora: il danzatore agita maggiormente il suo corpo, lo trascina sul legno e tra gli atomi pallidi del gesso scomposto, se ne appropria sporcandosi, fasciandosene le vesti cosicché questo bianco gli decori le mani ed i piedi, le braccia e le gambe, la schiena ed il petto, la nuca e la fronte: che sia metafora teatrale della placenta di cui siamo sporchi quando siamo afferrati? Ancora una nota: in un breve passaggio il suo corpo è dentro ed è fuori: busto, spalle, testa sono già fuori; ventre, cosce, polpacci e piedi sono ancora dentro: emersione parziale, parziale momento nel quale si è espulsi ed estratti.
La terza parte connota il performer come nato. Egli piega i propri arti, li rende spasimi, accenni o delicate curvature nell’aria mentre lo sguardo si proietta all’intorno. Un’intensa luce da sinistra lo ha investito quanto tutti noi siamo stati investiti nel momento in cui abbiamo scoperto che esiste un altro posto in cui stare. Ora egli s’adagia poi si solleva, tenta di toccare le appendici del tronco (rimando o allusione scenografica alla concreta corteccia del reale: siano i primi oggetti, le dita di un padre o una madre, qualcosa ch’egli scruta non riuscendo ancora a raggiungere) poi d’un tratto – postosi verticale – tenta i suoi passi: reclina la schiena e porta la mano destra al piede sinistro perché questo si muova (la mano – sembra – non sia la sua mano ma la mano materna che, col gesto, ti mostra e t’insegna come mettere un piede davanti ad un piede). Egli tenta, lento, lentissimo, per poi ricadere, veloce, velocissimo.
La quarta ed ultima parte è quella data dall’intenso calore del confronto, misurabile nell’avvenuto contatto (costruttivo/distruttivo) con l’esterno tangibile. Il performer riesce a raggiungere l’albero ovvero ha percezione di sé e di ciò che lo circonda: lo sfiora, lo tocca, lo tasta, per un attimo solo afferra ciò che sembrava non afferrabile. Il tocco è una scintilla, la scintilla è un piccolo fuoco, il fuoco è un incendio: sul fondo quest’accaldata circostanza primigenia si traduce infatti in schegge rosse su schegge gialle, in vampe, in punte che disperdono la propria punta rigenerandosi in altre punte diverse.
Verrà infine il buio, di nuovo, nel quale il performer ritorna al luogo di provenienza: l’opera mostra così una struttura coreografico-teatrale anch’essa circolare: dove s’inizia si termina.
Verranno dopo gli applausi, alti e robusti, netti d’una nettezza convinta. Applausi d’una platea che ha letto la performance apprezzando i geroglifici disegnati dal corpo di Giuseppe Brancaccio: segni, anch’essi, tra i segni di scena.
Verranno questi applausi, sorprendendo la nostra visione, risvegliandoci quasi dalla condizione in cui eravamo immersi, perduti e leggeri, nella suggestione (personale) che abbiamo appena confessato, trascrivendola.

 

 

 

 


Fringe E45
Il Cerchio Primo
coreografia Emma Cianchi
con Giuseppe Brancaccio (performer), Raffaele Sorrentino (violoncello)
video creazioni Gilles Dubroca
sound-designer Dario Castillo
musiche Raffele Lopez
costumi Leandro Fabbri
sceneggiatura Giò Fronti
scenografie Laboratori Flegrei, Kina
con la collaborazione di Federico Capo, Luca Cacciapuoti, Giuditta Di Meo
produzione IF0021, E45 Fringe Napoli Teatro Festival Italia, Campania dei Festival
Napoli, Galleria Toledo, 13 giugno 2013
in scena 13 e 14 giugno 2013

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