“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 30 May 2013 02:00

La legge e la misura. Oggi

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Al centro della media cavea del teatro greco di Siracusa. Il sole del tardo pomeriggio accarezza dolcemente le gradinate di calcarenite. Qualcuno si ripara con ombrelli colorati, saranno lì da ore forse. La folla affluisce lentamente, cuneo dopo cuneo le gradinate, protette da tavolati di legno, si riempiono. La gente prende posto, oggi come duemilacinquecento anni fa. Oggi come allora un popolo di cittadini, ma forse oggi solo di spettatori, si riunisce a celebrare il rito della catarsi.
Lo spazio circolare dell’orchestra è coperto di sabbia chiara, al centro un’apertura circolare, un buco. La scena rappresenta Tebe e le sue mura, grigio scuro, monolitiche, cupe e opprimenti.

“Questa terra è malata da molto tempo”. Così esordisce Giocasta, o meglio il suo spettro, venuto fuori dalla buca a raccontare l’antefatto della tragedia, l’incontro di Edipo e Laio. Solo il busto esce fuori dalla botola, quasi come un’immagine di culto demetriaca, Giocasta fa scorrere le mani per terra, lasciando solchi circolari, le mani si incontrano, raccolgono la sabbia, la lasciano ricadere, inerti, sconfitte. Sconfitta è la famiglia dei Labdacidi, che hanno provato ad opporsi al fato, “come se potessero sfuggire agli dèi, ma...”, hanno creduto di poter determinare o cambiare il corso degli eventi, ciò che è già scritto, ciò che è già stato stabilito e si compirà davanti ai nostri occhi. Giocasta riassume gli eventi che hanno portato Laio, suo marito, ad abbandonare Edipo, la sua uccisione da parte dello stesso, i figli nati dalla loro incestuosa unione, l’uccisione reciproca di Eteocle e Polinice, il bando di Creonte, fratello di Giocasta e nuovo sovrano di Tebe, affinché l’uno fosse sepolto con tutti gli onori e l’altro lasciato in pasto agli uccelli e ai cani, e ad ogni svolta del destino “ma...”, la congiunzione avversativa segna una pausa e sottolinea ogni nuova svolta del dramma. Le parole di Giocasta evocano e materializzano gli eventi, solo Eteocle e Polinice li vedremo fisicamente in scena (impersonati da due ragazzini un po’ incerti a dire il vero...), fissati nella scena della morte l’uno per mano dell’altro, l’uno nelle braccia dell’altro.
“Dicono che Eteocle sarà seppellito come è natura e legge”, perché natura e legge, per i Greci erano una sola cosa, la legge derivava dalla natura e in quanto tale era eterna e inattaccabile. Ma qualcosa stava mutando: l’essere umano, in quel momento di breve durata e immane portata storica che fu l’Atene del V secolo a.C., scopriva le sue immense potenzialità. Meraviglioso è l’uomo... Solo alla morte non sa come si fa a sfuggire, ma alla malattia ha trovato rimedio, "anche alle più grandi"; il coro celebra le sue abilità, la sua capacità di sottomettere e modificare la natura, di emanare una nuova legge, indipendente dalla natura, dal cosmos di cui fino a quel momento aveva fatto parte. Eppure quel coro che canta e danza, al ritmo quasi di jazz, sembra quasi sbeffeggiare queste meravigliose sorti e progressive... quasi che l’ubriacatura di potenza contenga già in sé il germe della sua distruzione. Natura e legge si separano, divergono, si combattono. Creonte, il nuovo re, l’uomo nuovo. Dall’altro lato Antigone, la tradizione, la legge eterna della natura, i doveri che si hanno di fronte a se stessi e al proprio sangue, a prescindere dalla collettività. Creonte è la polis, Antigone la comunità prepolitica. E poi c’è Ismene, la ragione pratica, la folla inconsapevole, ma non per questo incolpevole, che conosce il suo dovere di sorella, è straziata dal dolore, ma ha paura, come tutti, di trasgredire alla legge del re: “Se le cose stanno così, fare o non fare a cosa serve?... Siamo nate donne, non siamo fatte per combattere gli uomini... Io chiedo perdono ai miei morti... ma obbedirò a chi ora comanda... È la prima regola: non si deve volere l’impossibile”. Dall’altro lato l’incrollabile, granitica certezza di Antigone: “Mi prenderanno, ma non lo tradirò... Faccio quello che non si dovrebbe fare, ma il mio crimine è sacro”.
Entra il coro. È il funerale trionfale di Eteocle, si appicca il fuoco alla catasta delle armi dei vinti. “Dioniso ci guidi e scuota questa città”. È il trionfo di Tebe. Sulla sabbia chiara le donne compongono con pietre scure la scritta THEBAI (ΘΗΒΑΙ), Tebe. Si aprono le porte insanguinate della città, si vedono le barricate di armi. Polinice viene lasciato cadere, come la corazza che rovina dalle mura alla domanda di Creonte: “Cosa dovrebbe avere da noi? Niente!... Il suo corpo, insepolto, rimanga esposto... Che sia proibito seppellirlo e piangerlo... Mai un traditore deve avere quello che spetta ad un eroe”. Creonte sembra incerto, sembra avere bisogno dell’approvazione degli anziani. Giunge il messaggero a raccontare dell’avvenuta sepoltura di Polinice ad opera di ignoti, dovrebbe essere drammatico, ma è volutamente comico: “Il morto, qualcuno lo ha sepolto”. Ecco, la butta così la notizia. È una sepoltura simbolica: non c’è una fossa, solo un velo leggero di terra e le offerte dovute, per evitare il sacrilegio. È stata Antigone: “Non è stato Zeus a impormi questo divieto... Ma le leggi degli dèi sono inattaccabili, eterne”. Non ha cedimenti Antigone, come Edipo, che non ha voluto piegarsi al fato, “Stessa indole inflessibile. Non sa piegarsi ai mali”.
Stridono le rondini. Siamo all’aperto, all’ora del calare del sole. Qui il teatro non è altro dalla vita e noi siamo partecipi di un rito collettivo che si svolge davanti ai nostri occhi e dentro di noi. Si sente l’eco di un’ambulanza, no, questo non c’era allora... duemilacinquecento anni fa tutta la città era qui, seduta sulle gradinate, a patire e guarire, unico corpo e unico sguardo moltiplicato in mille occhi.
Ma oggi non è l’Atene del V secolo a.C. e nemmeno Siracusa della stessa epoca. Oggi, abbiamo avuto modo di pensarlo altrove, sembra non essere più il tempo della tragedia, nonostante le molteplici e fosche incertezze del presente. Creonte e Antigone li abbiamo sempre letti come entità irriducibili, personificazioni dell’eterno conflitto tra natura e società, legge degli uomini e legge degli dèi, et cetera. Ma oggi, nonostante tutto, sebbene tali domande siano lì in tutta la loro eterna attualità, oggi queste entità si stagliano meno nette, come noi. Creonte soprattutto, il volto austero, duro, del Potere. Sembra non sapere esattamente cosa fare, sempre incerto, sempre bisognoso di conferme, approvazione, legittimazione, più uomo e meno simbolo: alla fine solo un uomo disperato e insanguinato, che ha passato la misura, come gli ricorda Tiresia (significativamente interpretato da una donna, lui che è stato uomo e donna) e ne sperimenta tutte le tragiche conseguenze.
Scelta coraggiosa della regia e non semplice. Nella consueta polarizzazione tra rappresentazione "canonica/tradizionale" e "sperimentazione/attualizzazione", risulta particolarmente efficace la scelta di rispettare il testo e l’ambientazione caricandolo di nuove domande e coloriture. Così come risulta efficace la scelta di musiche lontane da quelle ricostruzioni accademiche della musica antica, così noiose e artificiose; musiche consonanti con la nostra sensibilità e che riescono ad evocare, suggerire, sentimenti e stati d’animo, contribuendo a creare quella necessaria sospensione di incredulità, quel necessario uscire da noi stessi.
Oggi non è allora. Ma oggi come allora gli occhi si inumidiscono di pianto. Oggi come allora incantati e scossi defluiamo, forse meno privi di certezze, ugualmente carichi di domande.

 

 

 

 

XLIX ciclo di rappresentazioni classiche
Antigone
di
Sofocle
traduzione Anna Beltrametti
regia Cristina Pezzoli
scene Maurizio Balò
costumi Nanà Cecchi
musiche Stefano Bollani
con Natalia Magni (Giocasta); Ilenia Maccarrone (Antigone); Valentina Cenni (Ismene); Maurizio Donadoni (Creonte); Francesco Biscione (Primo Corifeo); Enzo Curcurù (Secondo Corifeo); Oreste Valente (Terzo Corifeo); Simonetta Cartia (Corifea); Gianluca Gobbi (la guardia); Matteo Cremon (Emone); Isa Danieli (Tiresia); Paolo Li Volsi (il messaggero); Elena Polic Greco (Euridice); Giulio Italia (guida di Tiresia); Samuele La Rosa e Davide Salerno (Polinice); Marco Daniele Ginevra di Marco e Gianmarco Silotti (Eteocle); Alessandro Aiello, Raffaele Berardi, Lorenzo Falletti, Sebastiano Fazzina, Sergio Mancinelli, Giuseppe Orto, Eugenio Maria Santovito, Giuliano Scarpinato, Massimo Tuccitto (Coro dei vecchi tebani); Alessia Ancona, Cristina Coniglio, Eleonora de Luca, Laura Ingiulla, Giulia Muzio, Maddalena Serratore, Nadia Spicuglia, Rossella Zagami, Claudia Zappi (Coro donne tebane); Dario Fini, Gianni Luca Giuga, Davide La Mesa, Domenico Macrì (Guardie)
produzione INDA (Istituto Nazionale Dramma Antico) Siracusa
lingua italiano
durata 1h 50’
Siracusa, Teatro Greco, 26 maggio 2013
in scena dall’11 maggio al 23 giugno 2013

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