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Saturday, 15 January 2022 00:00

Un mare così non lo vedremo mai più

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“Ma non vi danno un po' di dispiacere
  Quei corpi in terra senza più calore?
  Non cambierà, non cambierà
   No, cambierà, forse cambierà”
 (Povera patria, Franco Battiato)

    

Sarebbe banale confermare quel che è già ovvio, cioè che questo spettacolo più che necessario e urgente è tristemente attuale. Sarebbe deplorevole, imbarazzante e niente affatto giusto, per lusingare l’autore, banalizzarlo accostando a passati e presenti capisaldi del pensiero libero e del teatro civile. La verità è che − quando si sono alzate le luci sulla sala (un gioco di luci bellissimo che riesce a impreziosire in modo nient’affatto scontato e banale la rappresentazione a dimostrare che, per fare della grande arte, bastano contenuti e cuore, e non servono imponenti scenografie o allestimenti elaborati) − nessuno non poteva avere gli occhi lucidi.

La verità è che, dopo questo spettacolo, non è possibile più voltarsi dall’altra parte, girare lo sguardo, nascondersi sotto un sasso (anche se la tentazione è ancora forte). La verità è che, dopo questo spettacolo, è impossibile tornare a guardare il mare e a pensare il mare come prima, con quella spensieratezza o quell’anelito di libertà che prima ispirava. Lo spettacolo di oggi, per i pochi che vi hanno assistito (troppo pochi. Colpevolmente troppo pochi, ma... nessuna sorpresa), segna un prima e un dopo. È una ferita immedicabile. Un solco incolmabile che va a scavarci dentro. Un’iniziazione terribile. Ma necessaria. Eppure, qual è il senso di sapere cose che non possono cambiarsi? C’è un senso a sapere cosa accade oltre l’orizzonte dei nostri lidi, se non possiamo fare niente? V’è motivo per il quale siamo chiamati ad abbracciare tutta la consapevolezza del nostro immenso e inemendabile privilegio nell’esser nati sulla sponda giusta del Mediterraneo, bianchi, occidentalizzati, europei, ragionevolmente al sicuro? Cosa ci cambia saperlo? A che vale?
Davide Enia trae questo spettacolo dalla sua esperienza di vita, con una serie di soggiorni, prolungati (nòstos), uno studio intenso fatto di consultazione di materiali e interviste, e continui andirivieni, a Lampedusa, sfociati nel libro Appunti per un naufragio, edito da Sellerio e vincitore del Premio Letterario Internazionale Mondello. Davide è indubitabilmente bravissimo e in quel teatro civile e d’impegno, di narrazione (Paolini, Celestini, Ulderico Pesce and co.) riesce a inserirsi in maniera proficua, stagliandosi e costruendosi una nicchia di tutto rispetto e che non potrà essere né dimenticata né offuscata. È un ricercatore di fino. E lo è dannatamente. Come un tagliatore di pietre. Il suo lavoro, infatti, è premiato sia dalla sintesi che dalla ricchezza di materiali raccolti che dal modo particolare in cui riesce a restituirli: efficace, inedito e con una sua voce che spicca. L’argomento che sceglie – gli sbarchi a Lampedusa – non è scomodo ma di più. È vecchio. Ormai è vecchio. Non se ne può più. È stato detto di tutto. Pensavamo di saperne abbastanza. Cos’ha da dire a chi ha già letto l’ottimo Bilal di Fabrizio Gatti, per esempio? Chi si è documentato, chi ha seguito le azioni dei ‘taxi del mare’ (sic!)? Neanche più i politici-sciacalli si focalizzano più per strumentalizzare l’immigrazione fomentando facili odi, guerra fra poveri e razzismo d’acchito (tira più la questione vaccini, Green Pass e Covid). E questo, ovviamente, dopo aver smantellato di sana pianta un sistema, quello dei centri d’accoglienza, che se non era certo ottimo, almeno aveva un senso e aveva trovato una quadra per sopperire a quella che è, resta, è destinata, probabilmente, a continuare a essere, una crisi emergenziale umanitaria, continua. Una tratta senza fine. Ininterrotta. È difficile anche immaginare quando sia cominciata (con la prima nave negriera? Con Colombo? Col ratto di Europa dalla Fenicia a Creta?), figurarsi quando potrà mai finire. Sembra esser lì da sempre. Invece, così come lo ignoriamo ora, dura ‘solo’ dagli anni Novanta (ma qualcuno, complice un’imbeccata di Sartre, l’aveva già profetato negli Anni Sessanta: “Uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci. Subito i Calabresi diranno, come da malandrini a malandrini: ‘Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!’. Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita. Anime e angeli, topi e pidocchi [...]. Essi sempre umili, essi sempre deboli, essi sempre timidi, essi sempre infimi, essi sempre colpevoli, essi sempre sudditi, essi sempre piccoli, essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che si costruirono leggi fuori dalla legge, essi che si adattarono a un mondo sotto il mondo dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri”.
Altri tempi in cui ci meritavamo intellettuali d’altra statura...). Una crisi alla quale continuiamo a esser sordi e al suo appello turarci le orecchie con la cera (per non sentire quel canto venire dal mare). Una delle tante. L’ennesimo genocidio fuori le porte di casa al quale dobbiamo farci coriacei e industriarci per impermeabilizzarci, per poter andare avanti, tirare dritto alla meno peggio, nella dimenticanza. Dovrebbe fare differenza solo perché accade, proprio, letteralmente, alle nostre porte?

“Noi che siamo nati nei palazzi [...] un primo sentito è di colpa [...] questo mette in moto un ampio ventaglio di reazioni [...] la più primitiva è quella che prende la colpa e la scarica sull’altro: è povero perché è difettoso, e ben gli sta. Come è noto, il razzismo è il sentimento dei contigui, ed è dettato dalla paura: chi è riuscito a passare dalle mangiatoie ai condomini ha il terrore di essere ributtato indietro e odia e teme coloro nei quali continua a specchiarsi, cosicché il razzismo tende all’eliminazione”.

Li abbiamo lasciati soli. Non chi sbarca. Ma chi li accoglie. Chi si trova ad averci a che fare. Chi se li vede arrivare. I primi che li (r-)accolgono. Quei meridionali dall’animo antico che non riescono, che proprio non ce la fanno, a resistere. Puoi cambiare canale, puoi skippare lo spot sul telefonino, puoi cambiare posto sul bus. Ma quando te li trovi davanti. Quando ti sono davanti. Allora niente vale. L’italiano è vigliacco. Vaccinato di razzismo, lui, che vive il Paese più invaso che si ricordi, che ha colonializzato, fingendo di non capire e, poi, fingendo di non ricordare. Ma resta vigliacco. Non ci riesce a essere cattivo fino in fondo. Non da vicino (“Non si è mai abbastanza coraggiosi da essere vigliacchi definitivamente”, cito Gaber recitare ne La paura. Ma, dato il tema, mi permetterei di rimandare al recupero del suo Sogno in due tempi).

“L’uomo è un animale – su questo non si può non essere d’accordo con Freud – che vive al di sopra delle sue possibilità psichiche: questo conflitto diventa drammatico nel momento in cui la moltiplicazione della specie umana e delle sue tecnologie mette davanti a uno specchio [...] sollecitando una planetaria empatia, mentre le forze emotive sono ancora quelle necessarie per integrare una piccola comunità, sostenute da una ragione fragile e spaventata. Il domandamento cristiano, che Freud già un secolo fa definiva una grandiosa inflazione dell’amore, diventa inimmaginabile quando il prossimo sono sei miliardi di persone. Perché l’amore ha bisogno della prossimità fisica – gesti, sguardi, parole – per svolgere i suoi benefici effetti, sugli altri e prima di tutto su noi stessi. Solo nella prossimità fisica con una parte necessariamente infinitesima dei senza-pane è possibile che il sentimento di colpa produca qualcosa di costruttivo: un percorso di riparazione e restituzione reciproca”.

Da lontano siamo tutti buoni a essere razzisti. È da vicino che si vede la vera tempra del razzista. Sulla breve distanza, cediamo. Non ce la facciamo. È a noi che dobbiamo rispondere. È con noi stessi che dobbiamo convivere. E allora... questo è uno spettacolo che dà voce a tante voci, e lo fa benissimo. Dà voce a un gigantesco sommozzatore, che dalle Alpi scende a prendere servizio sulle cale di quello scoglio piatto che è Lampedusa, profondamente destrorso che, eppure, la politica la lascia fuori, quel gioco sporco peggio che il pallone, quando si tratta di salvare qualcuno. Dà voce a una coppia che, al sentire lo sbarco a due metri da casa, è tentata solo per un secondo e mezzo di chiudersi in casa, e poi, vigliacchi come lo sono tutti gli italiani, descritti bene da Monicelli in poi (ma quale nazione? Ma quale Risorgimento?), troppo vigliacchi, per fortuna nostra perché col loro eroismo spontaneista, ci riscattano, escono, illuminano con i fanali dell’auto quel mare nero, e si gettano a pescare corpicini.

“L’Italia è uno dei pochi Paesi la cui identità moderna si è costruita intorno al fatto d’essere stata ripetutamente invasa [...]. Nel Risorgimento nasce e si divulga una visione della storia nazionale tutta costruita intorno a vacui – e per lo più inventati – episodi di resistenza isolata all’invasore straniero, da Pier Capponi a Ettore Fieramosca, da Francesco Ferrucci a Balilla. L’applicazione al passato dello schema risorgimentale ‘italiani vs stranieri’ [...]. Tutte mistificazioni consolatorie” (da Maurizio Bettini, Alessandro Barbero, Straniero. L’invasore, l’esule, l’altro; EncycloMedia, 2012).

Dà voce al vecchio guardiano del cimitero che si tuffa due volte, non una, due volte, per recuperare un barcone arrivato gravido del suo carico di morte, come uscito da una poesia di Wordsworth, solo per dar dignitosa sepoltura. Per quel che serve. Per quel che conta. Per chi verrà. Per le preghiere di chi è rimasto. Per chi non ci sarà più. Ma Davide Enia non dà solo voce, dà anche corpo, mimica, gestualità. Il suo è un agitarsi continuo. Burattinaio di sé stesso, anche da seduto con giochi di polso, spiegando e ripiegando le braccia e le mani, come fossero filanti (come se anziché radio, omero e ulna avesse dei klik klak ribaltabili) tesse e ritesse le sue storie, come prendendosi e ridandosi la voce. Non dà una voce, ma dà più voci, ventriloquo di sé, in un linguaggio paraverbale di un gesticolamme espressivo quanto irrefrenabile, manco veramente avesse studiato il LIS. E non si limita nemmeno a questo, per quanto basterebbe. Basterebbero le storie che ha raccolto a dare un senso e un motivo alla presenza (poca, troppo poca) del pubblico nel suo spettacolo, che è antichissimo, ripropone l’aedo, il bardo, il sopravvissuto, l’uomo che porta la notizia, il messo, l’araldo, il contastorie che dà voce perché non si vada persa la memoria, il ricordo, il trauma. Una volta si faceva nelle taverne. O nei banchetti. Tramite canzoni. Ora a teatro. Anche se pure qui l’accompagnamento della chitarra ci sta. Anzi, di due chitarre. E meno male che ci sta, Giulio Barocchieri, che non lo lascia solo, lì, sul palco, ma lo accompagna, e lo sostiene, quando il racconto si fa troppo straziante, c’è da essergli grati, a non averlo lasciato solo, a fargli da spalla muta, che lo sorregge.
E anche il canto, scrosciante, in siciliano, stretto, schiaffeggiante, smorzante, che ci solleva, ci batte e ci rigetta sulla battigia, per poi riprenderci e schiaffeggiarci di nuovo. Perché bisogna che capiamo. Bisogna che si capisca. Che si sappia. Si sappia la storia dei pescatori che sono trent’anni che pescano, insieme a spigole, calamari e orate, corpi. Corpi gonfi. Di ragazze. Di ragazzini. Di padri. Di madri. Di giovani. Stuprati, menati, battuti e mutilati. Che sembrano uscite da La morte della vergine caravaggesca, tante Ofelie shakespeariane. Li ripescano e ce li riportano. Che la legge del mare è più vecchia di tutte le leggi, le fedi, e i credi. È la legge della solidarietà. Dell’umano per l’umano. Della vita per la vita. Dell’esserci per qualcuno. La storia di chi sta attaccato alle fiancate delle lance per afferrare corpi, dai vestiti bagnati o stracciati o, in mancanza, da capelli e peli pubici, o infilando la mano dentro la gola, direttamente, pur di afferrarli e issarli su, badando bene a non perderci le dita. La storia di chi si getta, con un mare forza nove, con onde, quelle mediterranee, che saranno meno alte delle oceaniche, ma più violenti, più vicine, più strette, e pesca corpi, e sceglie chi salvare fra una madre con bambino e tre uomini, o prende un bambino e, per sottrarlo alle ondate, deve lanciarlo verso il vuoto, prima di finire sott’acqua, a trattenere il fiato, per dieci, venti, trenta, ottanta secondi, nel buio, dove non c’è luce, come fosse Majorca o Mayol. Fino all’ultimo respiro. È la storia di undici ragazzini e una ragazzina arrivati già morti. Di ragazzini drogati da carovanieri. Di cuginetti a cui l’orecchio viene tranciato da guardie libiche solo per distrarsi fra uno stupro di gruppo e l’altro. Di soldi nascosti durante la traversata dell’altro cimitero, non quello di Lampedusa (ottanta tombe senza nome, ma solo una croce perché s’usa così e bianchi, neri, gialli, verdi, rossi, sotto la pelle le nostre ossa sono tutte bianche), non quello del mare, ma quello del deserto, fra schiavisti che taglieggiano, denudano, e lasciano alla morte chi non paga ogni passaggio. La storia di chi, salvando una vita, salva sé stesso e la dignità di un Paese che guarda altrove. Un Paese il cui Presidente del Consiglio c’è andato in Libia, lo scorso anno, a stringere mani e ribadire la linea dei suoi predecessori. Questi uomini, per il solo fatto di trovarsi lì, di essere come sono (un guardiano del cimitero, un sommozzatore, una guardia nautica, due proprietari di b&b) riscattano tutto un popolo che diserta anche l’appuntamento con la memoria.
Basterebbe la loro solo storia per giustificare questo spettacolo, L’abisso, di soli settantacinque minuti (soli perché non passano mai. Perché durano almeno il doppio. Perché il materiale è denso come la materia oscura e oscuro come il mare in cui affonda le mani per sottrarre e riportare queste storie). Ma Davide Enia ci racconta anche altro. Stabilisce un prezioso contatto empatico col suo pubblico. Per farlo compenetrare meglio alle storie, lo fa scendere con lui. Dall’aereo. Da Roma a Palermo. Dal molo. Ci racconta, in un gioco metatestauale, la telefonata d’ingaggio dalla Germania, il coinvolgimento del padre. La storia dello zio. Lo shock di visionare filmati che nessuno vedrà. Il trauma che si ripete. Il prezzo, esorbitante, che paga chi non si volta dall’altra parte, che guarda dove noi ci rifiutiamo, e ce lo porta. E ce lo fa vedere. Ma prima, ha dovuto vedere lui. E ha sostenuto questo sguardo in grado di trasformare chiunque in una statua di sale, cambiando irreversibilmente, con una consapevolezza che non gli consentirà mai di tornare quello di prima e che nessun pianto, notturno, potrà riscattare. Perché lo spettacolo è da spezzare. Incide la carne viva. È una guerra sulla pelle a cui nemmeno il più consumato anatomopatologo può schermarsi. L’anatomia del dolore.
Davide Enia non è geloso del suo metodo, anzi. Da attore si fa performattore, da raccoglitore si fa diffusore, eco, megafono e maestro. Si fa rubare il suo metodo, ci consegna persino quello, sperando che il suo testimone venga raccolto, e ci rivela i segreti della sua scrittura. Non si risparmia e non ci risparmia nulla. Delle sue storie ma nemmeno di sé. Ed è bravissimo. Gli aneddoti sull’ingombrante figura paterna (che particolare sponda potranno trovare in chi, da maschio, ma anche donna, ha dovuto confrontarsi con la figura del genitore maschile meridionale, ingombrante eterno assente, eterea autorità, autosigillato in sé stesso, in un bozzolo di mutismo, autoincestitosi, non importa quali studi abbia condotto) coloriscono, creano intimità col pubblico e, assurdo, divertono. Ne L’abisso, ogni tanto, capita, sonoramente e di gusto, persino di ridere, manco si fosse a una stand-up comedy. Di lui. Di loro. Di noi stessi. Si stempera quella tensione nervosa costante di scendere, ogni volta, a un gradino di orrore differente, in quest’anabasi, l’abisso, appunto, umano, che è un maelstrom à la Poe. È il padre stesso, che qualche musa gli ispira di portarsi con sé, come occhio esterno, questo padre antico che è l’emulo di un animo ancestrale, che si riconnette a tutti i padri che l’hanno preceduto, archetipo vivente della storia, che è àncora, per Enia, in quella tempesta nella quale, sa, si sta gettando. Si porta dietro la sua àncora. La sua corazza infallibile. Il suo porto sicuro. Il porto paterno, fatto di silenzio immutabile, ma anche di un amore inesprimibile, di generosità infinita nel suo mutismo reciso e poco selettivo, nel suo eterno donarsi incondizionato, fino alla negazione di sé, totale. E Davide Enia, che tarantola sembra muoversi sul palco anche quando sta con le braccia conserte e seduto come un genio della lampada, anche il padre ci dona. E la sua storia. Che si può chiedere di più, in onestà, purezza e integrità, a un atto ri-generativo? Che altro domandare di mettere in gioco. Ma, soprattutto, lo fa senza autoincensarsi, senza diventare ombelicale o autocelebrativo. Senza peccare di autoreferenzialità e narcisismo: lo usa come specchio per riflettere noi stessi e non rimandarci, solo, propaggini della sua immagine. Il padre che parla di déplacement per descrivere l’effetto che ha su di lui la vista del primo sbarco, lo stesso spaesamento che coglieva la Ortese nel suo Il mare non bagna Napoli in questa Italia che nega a sé stessa d’essere bagnata dal mare d’inverno (“il mare era solo uno schermo, non proprio inventato, su cui si proiettava il doloroso spaesamento, il ‘male oscuro di vivere’, come poi venne chiamato”).
E la storia dello zio paterno. Davide Enia è così bravo nell’interpretare questo corteo di personaggi che sembra di conoscerli. Di averli visti. Cambia voce. Espressione. Modi di pronunciare le lettere. Il suo lutto è il nostro lutto. E quel Daviduzzo ce lo sentiamo dentro. Ci diventa caro. Lo sentiamo in tutto il disperato amore che si esprime in un congedo. Per meglio servire le storie che ha raccolto, Enia tradisce sé stesso e i suoi cari, ce li dona, se li toglie per darli in pasto a noi, perché tutto ci arrivi, più diretto, più forte, più alto (il wildiano Each man kills the thing he loves faceva cantare Fassbinder a Jeanne Moreau in Querelle de brest, tratto da Genet, ma è noto, da Faulkner alla beat generation che una buona scrittura esige un sacrificio di sangue: kill your darlings). Oltre il muro del mare, delle onde, il soffio dei venti contrari, libeccio e tramontana, oltre il tam tam televisivo, il parlottio qualunquista e sconsclusionato. E così la storia dei migranti che ci restituisce si unisce a quella di chi li ha accolti, e alla sua, e al rapporto fra un figlio e un padre meridionali. Enia forse non lo sa, ma compie la stessa operazione (pura, necessaria, unica, indispensabile) che fece Art Spiegelman con Maus nel 1980 (primo fumetto a vincere un Pulitzer): l’unico modo per raccontare la storia dell’Olocausto (un altro olocausto, sempre europeo) era quello di passare per la storia sua e di suo padre (e nulla faceva che questa figura assai poco accomodante non fosse estendibile a tutti o non avesse velleità di compiutezza: tutte le storie sono uniche, irripetibili, eppure universali quando non si filtrano e le si lascia vere − “The truth will set you free. But not until it is finished with you” scriveva DFW in Infinite Jest, dove, non a caso, ricorre la traccia padre/figlio, ancora una volta, nella modernità antiedipica in cui siamo tutti Telemaco ma anche Amleto: “Immaginati l’orrore di passare tutta la tua adolescenza solitaria e itinerante a tentare invano di convincere tuo padre che esisti, a cercare di fare qualcosa abbastanza bene da poter essere ascoltata o vista ma non così bene da diventare uno schermo per le sue (del padre) proiezioni del suo fallimento e del suo odio per se stesso [...] solo per scoprire poi, verso la fine, che anche tuo figlio si è spento, si è rinchiuso in se stesso, non parla, ti terrorizza, è muto. Cioè che suo figlio era diventato ciò che lui (lo spettro) aveva temuto di essere quando era bambino”. Perché siamo tutti destinati a trasformarci nei nostri padri e chiudere il cerchio: le colpe dei padri ricadono sui figli. Ma anche le virtù). È la grande tradizione del fumetto underground, autobiografico e indipendente (Joe Sacco, Joe Matt, Chester Brown, Seth, Crumb, Julie Doucet, Peter Bagge, Harvey Pekar) che trova il modo, parlando di sé, senza risparmio, di parlare a tutti dell’universale. Toccare le proprie corde per toccare quelle di tutti e riuscire, così, ad arrivare a tutti, con forza e intensità. Perché possiamo non sapere cosa sia un ebreo, non aver mai visto un migrante, non esser mai stati a Lampedusa, ma sappiamo tutti, o quasi, cosa significa avere un padre che parla a monosillabi, uno zio meraviglioso, o aver perso una persona cara.
Queste persone, il drammaturgo quarantesettenne − che con questo lavoro ha vinto il Premio Maschere del Teatro 2019 come Migliore interprete di monologo e, nello stesso anno, il Premio Ubu come Miglior nuovo testo o scrittura dramaturgica − le eterna. Non moriranno mai. Le storie loro diventano le nostre. Rimarranno. Ecco perché. E allora capisci pure perché Enia si ostina a portare in giro un carico da undici, così pesante, che nessun altro vuol sobbarcarsi e in pochi (troppo pochi) sedersi ad ascoltare: ce lo dice stesso lui. Perché quando ti imbatti in una storia, in un trauma, in un conflitto, in un lutto, in uno scisma, devi sentirtene parlare. Devi usare l’altro, prenderlo come ascoltatore, non importa chi sia, non importa chi tu sia (se tu sia Davide stesso che si rivolge a noi, se tu sia suo padre che si rivolge a lui parlando della malattia del fratello, se tu sia un tuffatore finita la missione) per sentirti dire, a voce alta, ciò che hai dentro, come fa chi affonda, nelle acque, col suo ultimo respiro, gridando il suo nome, prima di sparire.
È la lezione di Kafka, la più importante, che sta alla fine de Il processo. In tutta questa insensatezza in cui la realtà, il mondo e le vite nostre si sono ridotte, in cui va cercata la speranza di una ragione dopo aver compreso che un senso non c’è, l’unica àncora che dia un senso al nostro tempo è donare questo tempo a qualcun altro. È esserci per qualcuno. Esserci per dà senso al solo essere che, altrimenti, non basterebbe. Davide Enia c’è stato. C’è stato per qualcuno che c’è stato per qualcuno. E noi, ora, ci stiamo, dobbiamo esserci, per lui, per loro, per noi. C’è stato quando non c’è Stato.
Ecco perché ha senso uno spettacolo del genere. Ecco perché è necessario vederlo. E rivederlo. E farlo girare. E portarlo nelle scuole. E parlarne, come si faceva una volta col teatro resistente, nelle fabbriche, nei centri sociali, nelle università, nelle radio, nelle televisioni, casa per casa, se necessario (come René Vautier faceva, negli anni Cinquanta, a Brest col suo documentario sugli scioperi degli operai). Perché tutti noi sappiamo. Perché tutti provino quel che ha provato lui, che hanno provato loro, e che, tramite lui, proviamo noi, e faremo provare a chi ne parleremo. E così, forse, in qualche modo, il nostro peccato sarà più lieve. E vivremo meno peggio, una volta usciti, il nostro essere, semplicemente, non nudi, non violentati, asciutti, non morti. Vivi, sì, ma quale privilegio. E per quanto ancora? Quanto dista, realmente, la persona più vicina, in questo momento, che ci sta morendo nel mare, e non lo sappiamo? Ebbene, ora lo sappiamo. E quegli occhi umidi coi quali usciamo, sono pieni di umore salato. Come il mare che non guarderemo più, di notte, al buio, con gli stessi occhi di prima.

“L'esaltazione di una identità comune nasconda divisioni feroci, che fanno di Napoli la città più classista e razzista d’Italia. Un popolo basso che è riuscito a insediarsi sulle colline e a trasformarsi nella più tremenda piccola borghesia guarda con paura e disprezzo quelli che sono rimasti giù, dei quali ha in genere conservato e amplificato le peggiori caratteristiche”.

“Il razzismo elimina i diversi, l’equalitarismo la diversità; noi rivendichiamo la diversità e i diversi”.

Questa come le altre citazioni stralciate senza fonte sono tratte da Insegnare al principe di Danimarca di Carla Melazzini, anche questo, edito da Sellerio. Uno dei capitoli, non a caso, si chiama Un ponte sull’abisso: “La fatica che c’è dietro l’incontro con un diverso [...] prendiamo l’immigrazione. Ebbene, ricordiamoci che quelli che arrivano coi gommoni, che noi percepiamo come il pericolo, il nemico, sono molto più simili a noi di quelli che rimangono nei loro Paesi. Quello che prende il gommone, che riesce a lasciare la nicchia, il paese, la comunità, è molto più simile a me del ragazzo che non riesce ad attraversare la strada per uscire dal suo quartiere perché ha paura [...] a questi ragazzi spesso chiediamo di scavalcare un ponte su un abisso. Ed è delicatissimo perché poi, se insisto, c’è di nuovo il rischio di cadere nella dipendenza perché la ragazzina ti dice: ‘Vabbé, io ci vengo dietro a te, ma tu non mi abbandoni più perché io da sola non ce la faccio’”.
Da solo nessuno ce la fa.
‘Essere per’ è il contrario di abbandonare.







L’abisso
tratto da Appunti per un naufragio
di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite in scena da Giulio Barocchieri
foto di scena Futura Tittaferrante
co-produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo Palermo, Accademia Perduta/Romagna Teatri
in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo
lingua italiano
durata 1h 15’
Napoli, Teatro Bellini, 13 gennaio 2022
in scena dall’11 al 16 gennaio 2022

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