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Wednesday, 27 October 2021 00:00

La nostra meta è la fine

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Desiderare la fine come unico rimedio ad una vita che non gli è congeniale, anticipando il suo arrivo con il gesto estremo di lanciarsi dalla finestra è ciò che il professor Shuster fa in Piazza degli Eroi, testo di Thomas Bernhard messo in scena al Teatro Mercadante da Roberto Andò.

La fine del professor Shuster, però, è per noi solo l’inizio. La sua presenza da fantasma aleggia sul palco, tra le alte pareti della casa decorate di verde, i grandi armadi, le pesanti casse da viaggio pronte ad essere trasferite a Oxford e ormai dirette verso la casa di campagna, le numerose scarpe sparpagliate sul pavimento, la dolce musica del piano, le ampie finestre. Soprattutto le finestre. Varco tra i due mondi, oltrepassato dal professore in maniera inaspettata e allo stesso tempo punto di incontro tra la casa e la piazza, tra il dramma familiare degli Schuster e la vita politica di Vienna. Su questo doppio dramma, privato e pubblico, si snoda lo spettacolo. Il professore, con la sua scelta estrema, regala il suo corpo alla piazza e la sua anima chissà dove, forse alla casa. Per fortuna il vestito non si è strappato, è bastato mandarlo in lavanderia senza far nessun riferimento al suicidio ed eccolo pronto per essere lasciato in eredità al figlio, Lukas. Questa precisazione fatta dalla domestica, la signora Zittel, subito in apertura dello spettacolo, ci chiarisce il tipo di famiglia che stiamo spiando e qual è la dimensione del dramma che vivono.
Come avviene sempre quando qualcuno muore, si avverte la necessità di parlare del morto, quasi le parole riuscissero a tenerlo in vita ancora e ancora, attraverso i ricordi e le storie. Tutto lo spettacolo è un parlare del morto. Non l’abbiamo mai incontrato ma impareremo a conoscerlo dai racconti di chi ha vissuto con lui. La prima parte dello spettacolo è un lungo monologo della signora Zittel, un’impeccabile Imma Villa, accompagnata dalla collega Herta che pronunciando qualche battuta la conduce in un viaggio nel passato e nella rievocazione degli eventi. Tutto il monologo è recitato mentre la signora Zittel si occupa dei vestiti del professore, li stira, li depone nei bauli. Tutto procede in maniera molto lenta e ripetitiva, come i movimenti della domestica. Ci serve poco per avere in antipatia il professore e sperare che la Zittel smetta presto di farne gli elogi. Dai racconti, tutta la sua vita sembra dipendere da quell’uomo che lei ammira e del quale è gelosa. Tutta la realtà della Zittel è vista attraverso gli occhi del professore e raccontata con le parole di lui. Ogni cosa è “come dice il professore”. Ma la Zittel, che più avanti verrà definita “una creatura del professore”, si libera mettendo grossi fiori colorati in un vaso, cosa che mai avrebbe potuto fare se fosse stato vivo l’uomo e libera anche noi, che tiriamo un sospiro di sollievo perché finalmente può smettere di parlarcene. Il fastidio provocatoci dalla prima parte dello spettacolo, ci fa arrivare stanchi alla seconda parte. Anche qui si fa fatica a parteggiare per gli Schuster, nonostante il dramma. Le figlie del professore, nella bellissima scena di un parco in autunno... ma no, è marzo... nella bellissima scena di un parco in un marzo in cui la primavera tarda ad arrivare e le foglie cadono dai rami sospesi a mezz’aria, ricordano il padre e hanno una lotta sociale da portare avanti: salvare l’ambiente dalla costruzione di una strada. Più esattamente vogliono combattere per il proprio orticello, salvare il loro “giardino dei ciliegi”. Anna parla di lettere da inviare al sindaco in modo così composto che sembra stia parlando del sapore dei biscotti che dovrebbero accompagnare un buon tè. Non sorprende che non riesca a convincere lo zio Robert a combattere per il loro frutteto. È Renato Carpentieri, nella parte di Robert Schuster a mettere un po’ d’impeto nello spettacolo. È a lui che spettano le parole più dure di Thomas Bernhard, quelle che hanno fatto scandalo. Tutta la rabbia di Bernhard contro la classe politica è nelle parole di Robert, eppure non ci soddisfano. Per pura casualità ero seduta accanto ad un noto politico napoletano la sera dello spettacolo. Fremevo dal desiderio che quelle parole gli arrivassero in faccia, che si sentisse coinvolto, accusato. Invece le parole sembravano volare leggiadre sul palco e non raggiungere mai la platea, come qualcosa di detto tanto per dire. Sarà che essendo parole molto attuali sentiamo cose simili ad ogni angolo di strada, sugli autobus, nei negozi. Forse è perché leggiamo cose simili sui social che non ne siamo più colpiti? Ci siamo abituati? Resta di Robert l’impressione del brontolone che non vuole che il nipote si mischi con gente di teatro frequentando un’attrice. Ancora l’interesse familiare più grande delle questioni di piazza.
Nella terza parte dello spettacolo, la famiglia Shuster è riunita per il pranzo. Ancora si parla del professore, ancora si parla della casa in campagna, ancora si trattano i temi politici. Si cerca di creare un’atmosfera inquietante con la presenza dietro la finestra del fantasma del professore e le urla della piazza che sente la Signora Schuster ma anche questo ha poco potere su di noi. Forse è proprio una questione di potere. Manca a questo spettacolo il potere del teatro. Va in scena un testo che ha parole molto forti, nato dalla rabbia di un autore verso il proprio Paese che alla fine degli anni Ottanta è un Paese razzista. Vive sui palchi di un’Italia nella quale esistono persone che picchiano, fino ad ucciderlo, un ragazzino solo perché ha la pelle nera. Un’Italia che offende e minaccia di morte una senatrice a vita ebrea. In quasi tre ore di spettacolo non si coglie, se non vagamente, l’intento antirazzista. Sfugge tra una parola e l'altra perché le cose dette sono tante e basta distrarsi per perdere una, magari importante. Il problema è che distrarsi è molto facile perché il ritmo del lavoro è monotono. Credo che gran parte della perdita di forza dello spettacolo sia dovuta ai costumi e al modo oltremodo composto in cui si è scelto di far recitare il testo. Se per Bernhard era importante datare quest’opera alla fine degli anni Ottanta, proprio per mostrare come la società non si fosse evoluta e come fossero ancora vivi atteggiamenti antisemiti dopo più di quarant’anni dalla fine del nazismo, il regista ha scelto di cancellarli del tutto gli anni Ottanta. Gli attori sono vestiti come quelli che vediamo nei film sulla Shoah: le donne con pettinature raccolte, i tacchi bassi, abiti coprenti; gli uomini indossano vestiti eleganti e cappelli con le tese. Niente che ci riconduca alla modernità, tutto retrodatato e un po’ stantio. Anche il contegno con il quale sono recitate le battute le rendono vecchie. Se è vero che la lotta di Anna è una lotta casalinga più che sociale, la si vorrebbe sentire appassionata, maleducata: le stanno toccando le sue cose! Hanno sputato addosso a lei e a sua sorella perché ebree e nessuna delle due sembra nutrire il minimo risentimento.
I commensali nella terza parte parlano di politica in modo quasi caricaturale. Quello che si avverte è uno scollamento tra le parole dette e il modo in cui esse vengono pronunciate. Poco credibili perché poco vissute, proprio come se volassero sul palco e i personaggi a turno le acchiappassero per pronuniciarle. Così il suicidio del professore perde di senso. Era pronto per trasferirsi a Oxford ma non farà mai il viaggio. Ne intraprenderà un altro. Lo farà perché non ha più un luogo in cui valga la pena di vivere, la sua città non rispecchia più il suo ideale, Oxford è un luogo del passato e la campagna equivale a non vivere. Senza una terra da tenere sotto le sue scarpe, fa l’unica cosa sensata, raggiunge la meta che spetta a tutti: la fine. La stessa cosa aspettano le tante teste ciondolanti per il sonno sparse in platea. La fine dello spettacolo che arriva e risveglia tutti. L’applauso liberatorio come i fiori nel vaso della signora Zittel. La fine tanto desiderata e finalmente arrivata.





Piazza degli Eroi
di Thomas Bernhard
traduzione Roberto Menin
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Imma Villa, Betti Pedrazzi, Silvia Ajelli, Paolo Cresta, Francesca Cutolo, Stefano Jotti, Valeria Luchetti, Vincenzo Pasquariello, Enzo Salomone
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
aiuto regia Luca Bargagna
assistente alle scene Sebastiana Di Gesù
assistente ai costumi Pina Sorrentino
direttore di scena Teresa Cibelli
capomacchinista e attrezzista Fabio Barra
macchinista e attrezzista Nunzio Romano
datore luci Giuseppe Di Lorenzo
fonico Italo Buonsenso
elettricista e fonico Diego Contegno
sarta Francesca Colica
trucco Vincenzo Cucchiara
acconciature Emanuela Passaro
suggeritrice Emiliana Bassolino
amministratrice di compagnia Angela Carrano
foto di scena Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale
lingua italiano
durata 2h 30’
Napoli, Teatro Mercadante, 20 ottobre 2021
in scena dal 20 al 31 ottobre 2021

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