“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 14 July 2021 00:00

“Patres” e l’erranza dei figli senza padri

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La scena è spoglia.
Un ragazzo su una sedia, dietro di lui panni stesi su un filo.
Dopo un po’, arriva il padre.
Da una messa in scena semplice e quasi scabrosamente spoglia, la drammaturgia di Saverio Tavano intesse una trama fitta che parte e viaggia sicura fino alla fine: il ragazzo non ha nome, ma è un moderno/antico Telemaco, e neanche il padre viene mai chiamato in alcun modo.

Un sapore di ruggine e ossa sembra esalare dalle loro parole: un mondo perduto e ancora più remoto, un filo rosso che parte dal qui e ora e scende giù via via fino ad una tradizione popolare arcaica e sempre più dietro, arrivando a un mondo classico che viene richiamato fin dal titolo, il latino plurale di Padre, appunto Patres.
Padri, al plurale: perché il nucleo magmatico dell’opera parte non da un personaggio ma da uno status.
Pater in latino vuol dire padre: ma può anche essere sinonimo di vecchio, saggio, senatore, patrizio − un misto di senso che restituisce il pater familias in scena. Che già restituisce la freschezza e l’originalità del lavoro di Tavano, giovane autore calabrese, che in un immaginario stipato di madri sceglie invece di raccontare l’altra parte della genitorialità, il padre. Intridendone la figura di significati così come di senso, accatastando nella maschera scenica un mondo interiore che passa dall’affetto genetico verso il frutto dei propri lombi al rifiuto di un figlio che non è come lo si sarebbe voluto.
E da qua parte il cortocircuito intensissimo della pièce: che prosciuga il rapporto padre/figlio e ne mostra i resti, le ossa, fatto di un misto di fiducia e risentimenti.
Da qua parte il lavoro quasi laboratoriale di Tavano, insieme con il protagonista Gianluca Vetromilo, bravissimo, un gigante in scena perennemente con gli occhi chiusi e il piede legato ad una corda. Patres è la ricerca costante dell’abbraccio paterno che si infrange contro l’energico rifiuto di un padre complesso: in questo senso, Tavano raccoglie l’eredità classica e resuscita in scena l’assenza die padri che parte dalla Grecia e arriva fino ai giorni nostri, fermandosi un attimo in quell’Italia rurale (e qui marinara per inciso) nella quale il padre e il figlio si trovano. Il nostos non c’è più, e anzi la distanza tra i due si allarga sempre più: tra un padre fin troppo giovane o giovanilistico − che vuole scappare a Santo Domingo − e un ragazzo cieco che vede solo attraverso le parole.
Dice Vetromilo, a proposito di recitare completamente ‘al buio’: “All’inizio del percorso di Patres lavorare nel buio sembrava un traguardo invalicabile. Ma ad un certo punto la cecità è diventata un vantaggio. Il buio mi da la possibilità di lavorare per immagini. Immagini che riesco ad avere ben chiare in testa. Lo stare ad occhi chiusi mi rende libero e amplifica tutti gli altri sensi. Sembrava un ostacolo, invece è diventato un vantaggio”.
Patres è un frenetico accadimento di eventi fatti solo a parole: quelle che il figlio cieco ricorda, quelle che il padre gli rifila, quelle che il ragazzo ruba dalla vita oltre il suo buio. In questo senso, Vetromilo, restituisce in pieno un senso di tragica resa, e aggrappato un po’ al padre, un po’ alla corda che lo lega, si muove a tentoni nella vita, (tra)balla incerto in una danza arcaica, la tarantella, fatta di fantasmi, madri scomparse, cani in fuga, una danza frenetica e febbrile, nomade e dolorosa. Ma non si arrende: rimane a cullarsi nella sua dolce ingenuità, e non si stanca mai di chiedere informazioni a un padre sempre più restio (ppì sapiri!”, urla lui sempre più forte al genitore che recrimina le troppe domande).
Lo spessore del testo, stratificato e denso, viene aumentato dalla vis scenica dell’attore protagonista: appoggiandosi di volta in volta all’altro interprete, Dario Natale, Gianluca riempie gli spazi tra una lettera e un’altra, tra una parola e la successiva, con la sua gestualità sicura e consapevole, mettendo a nudo (letteralmente) il figlio destinato a vivere all’ombra (letteralmente) del padre ma senza di lui. Appoggiandosi solo a figure inesistenti: la madre, che appunto è morta, e il cane Argo, che in scena è solo rievocato dalle mani dell’attore.
Mito, leggenda e attualità si intrecciano in Patres, nella sua costruzione veloce ma salda: legati tutti insieme dall’uso intelligente della lingua, la lingua dei padri − il latino − e quella del padre − il dialetto − che suggella un rapporto con le proprie origini.
Inevitabili, e ineluttabili.
Dice Saverio Tavano, a proposito della nascita della sua opera, riflettendo anche sula figura dei padri: “Patres nasce dall’intento di analizzare il rapporto tra padri e figli, intendendo la figura genitoriale come un riferimento ad ampio raggio. Questo e il tempo dell’assenza del padre, una figura che ha sempre avuto l’atavico compito di trasmettere la conoscenza, la memoria del passato. Non esistono piu padri politici, padri spirituali, padri maestri; latitano o sono divenuti compagni di gioco dei loro figli. I figli tentano invano di colmare questa mancanza, in una condizione di attesa, di sospensione, di impasse. Siamo tutti figli in attesa... aspettiamo.
Un giovane Telemaco di Calabria attende da anni il ritorno di suo padre, paralizzato dall’attesa, davanti all’orizzonte che può solo immaginare dal buio della sua cecità, attende su una spiaggia bagnata dal Mar Tirreno, mette le mani avanti per vedere l’orizzonte, si rivolge verso il mare e aspetta che questo padre ritorni. E il mare che scandisce e accompagna la vita di questo figlio incapace di vedere come di andare, in attesa di un padre che invece non è in grado di restare/tornare a casa, in una terra ostile. Un “Pater” che lega il figlio ad una corda perche altrimenti potrebbe perdersi, incapace di stargli accanto, non ritrova il coraggio della testimonianza e la forza della trasmissione. Un padre che fugge per sempre, per le spiagge esotiche di Santo Domingo, e un figlio paralizzato dall’attesa, davanti all’orizzonte attende in Calabria, mette le mani avanti per vedere l’orizzonte, si rivolge verso il mare e aspetta che questo padre ritorni. Un Telemaco dalla lunga attesa, ma l’attesa è dinamica, è erranza, è rischio. Il mare, discreto spettatore, scandisce e accompagna la vita di questo figlio incapace di vedere come di andare, in attesa di un padre che non è in grado di restare/tornare a casa.
Telemaco dalla lunga attesa, non aspetta un Godot, aspetta realmente qualcuno e l’attesa è dinamica, come un’erranza, un rischio. Goethe afferma che l’eredita sta in un movimento di riconquista, vero erede è un orfano a cui nessuno garantirà nulla. Ereditiamo il niente, ma non proveniamo dal niente, occorre quindi recuperare il nostro scarto col passato. La “Telemachia” e la forza di andare incontro al padre, e un movimento di ricerca interiore, spirituale, una prova di fede. In questa misericordia vediamo la figura di Telemaco, che si mette in cammino a cercare il proprio padre, e salvare la sua terra invasa dai Proci e un movimento nell’attesa, il rapporto tra un padre e un figlio e il loro viscerale modo di viversi un’assenza profonda, quella della testimonianza.
Molti padri latinano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di gioco dei loro figli. Tuttavia, nuovi segnali, sempre piu insistenti, giungono dalla societa civile, dal mondo della politica e dalla cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre Il padre-eroe non esiste più, ma un padre nel quale il figlio riconoscerà che la felicità non può prescindere dal limite. Siamo entrati nell’epoca post morte del padre. Anche perche abbiamo sperimentato nelle nostre esistenze e, in scala maggiore, nei grandi fenomeni mondiali che determinano il destino delle nazioni che la ribellione, la trasgressione edipica contro il Padre e la Legge non hanno prodotto nulla di durevole, lasciandoci più soli e smarriti che mai. Come pure non ha risolto i nostri problemi la chiusura narcisistica in noi stessi, in una sorta di autismo, in una terribile impasse”.





Su Patres leggi anche:
Alessandro Toppi, Guardare, guardarsi (Il Pickwick, 10 settembre 2014)
Grazia Laderchi, In acque profonde (Il Pickwick, 3 dicembre 2014)
Michele Di Donato, Ereditando il buio (Il Pickwick, 28 aprile 2015)





Matrioska Festival
Patres
scritto e diretto da
Saverio Tavano
con Dario Natale, Gianluca Vetromilo
disegno luci Saverio Tavano
tecnica Pasquale Truzzolillo
foto di scena Angelo Maggio
produzione Residenza Teatrale Ligeia, Compagnia Scenari Visibili
con il supporto di Regione Calabria, Sistema delle Residenze Teatrali Calabresi
lingua dialetto lametino
durata 55’
Lamezia Terme (CZ), Il Santo Ammare, 7 luglio 2021
in scena 7 luglio 2021 (data unica)

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