“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 12 July 2021 00:00

Roberto Latini e la conquista della parola rivelata

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Amletmachine (tradotto dal tedesco, piu o meno La macchina di Amleto, 1977) è un dramma postmoderno del regista Heiner Müller, liberamente ispirato alla tragedia di Shakespeare: è un testo estremamente aperto pure se denso, che si lascia interpretare in molteplici modi, dalla tematica femminista alla riflessione sull’autore consapevole della parte che sta interpretando, fino al movimento comunista e quello ecologista.

Roberto Latini è autore particolarmente personale, assolutamente unico in Italia, anche per la forza emotiva e teorica con cui ha intrapreso un percorso sul suono e sulla voce. E la sua voce diventa quindi cardine di ogni sua rappresentazione, distorta, riverberata, sussurrata, alterata, naturale, magmatica, sempre al centro di riletture di impressionante valore e spessore. In questo senso, l’Amleto è una tragedia che porta avanti le sue svolte proprio attraverso le parole: in un certo senso inevitabile che la strada fosse intercettata da Latini, che riceve anche e soprattuto le suggestioni e le sollecitazioni di Müller.
La macchina di Amleto diventa allora la macchina di Fortebraccio (ultimo personaggio ad entrare in scena nell’opera del bardo, che per Müller blocca la catena di omicidi della storia), in un felice cortocircuito che richiama anche il nome della compagnia del grande attore romano: che struttura in capitoli il suo Fortinbrasmaschine declinando al presente la biografia di Fortebraccio, e compie uno spericolato passo in avanti su un testo già stratificato.
Se Müller portava fuori Amleto e Ofelia liberandoli come macchine-mito, collocandoli oltre il testo di Shakespeare, Latini li tiene nella stessa dimensione ma nello stesso tempo ritorna indietro fintanto che i personaggi ridiventano loro, portando ogni loro valenza e valore umano identitario nello spazio scenico e in quello teoretico del testo.
Erede indiscusso di Carmelo Bene (Hommelette for Hamlet) Roberto Latini entra in ogni persoaggio e si muove come Yorick il buffone in scena; in un continuo viavai di intuizioni, congegni, apparizioni e citazioni, sottolineando il tempo con la lama di una spada che scende inesorabile, l’artista mescola senza soluzione di continuità Marilyn Monroe e Ecuba, Otello e Desdemona con Blade Runner, passando per il Padre Nostro, tenendo ben fisso senso, significato e significante e non dimenticando mai di usare le parole a seconda del loro ritmo e musica, unendo contenuto e contenitore, svuotando Amleto di ogni sovrastruttura iconica e per questo spersonalizzante, e riconducendolo ad una insospettabile umanità, straziante e straziata, fino ad un “essere o non essere” umano e a voce nuda.
La potenza compositiva di Gianluca Misiti, sodale da oltre venticinque anni di Latini, fa il resto, sottolineando la forza emotiva di un autore così grande da esondare le semplici definizioni teatrali, riuscendo a dare un’anima ora dolcissima ora sinistra a note che suonano elettriche.
Con Fortinbrasmaschine, forse ancora piu che con altre sue grandissime opere, Latini (ri)afferma che un’opera, un classico, è il veicolo per spostarsi da un luogo all’altro, da un quando ad un altro quando: tenendo ferma la voce e il suono mentre lui stesso sembra volersi fare suono, vibrando con il corpo insieme alla sua strumentazione vocale. Mostrando probabilmente l’unica strada percorribile per un vero teatro contemporaneo e postmoderno, mentre fornisce gli strumenti per indagare sè stessi. L’unica vera forma di teatro possibile, oggi.
Roberto Latini è paradigma del proprio stesso teatro mentre riduce il suo testo a marionetta mossa da un filo logorato dall’uso e dall’abuso.
Abbiamo incontrato Roberto in una replica della sua opera, durante la rassegna teatrale Matrioska.


C’è una frase di Flaiano che mi sembra racchiuda perfettamente il senso del tuo teatro, che dice: “Il gioco è questo, cercare nel buio qualcosa che non c’è, e trovarla. Le tue rappresentazioni mi ricordano molto delle sperimentazioni controllate, se capisci cosa voglio dire.Ti ci ritrovi?
Si assolutamente, è una delle mie frasi guida, è il finale di una delle poesie piu teatrali che abbia mai letto. Rispetto a trovare nel buio uel qualcosa è sempre nuovo, necessariamene non eseguibile. Il pensiero, la libertà che mi tengo e mi concedo è anche quello che sento come possibile ambiente dentro cui tenerci − e per tenerci intendo anche le persone con le quali condividio lo spettacolo, loro sanno che poi l’atteggiameno è jazzistico, rispetto alle varriazioni sul tema. Però poi dobiamo essere talmente nella capacità del tema da permetterci variazioni. Quella è improvvisazione, non è “adesso la facciamo strana perchè siamo artistici”.


Da questa frase, passiamo ad Amleto + Die Frotinbrasmaschine: è una rilettura che sembra voler rispettare le regole ma nello stesso tempo stupisce giocando con quelle tesse regole...
Esatto. Il concetto di cui parlavamo poco fa ci porta ad una riflessione che ho condiviso con Barbara Wiegel che è una drammaturga tedesca amica, che mi ha dato la possibilità di accedere ai materiali originali e ad altre cose che non avrei potuto frequentare: Hamletmaschine è un testo che ha piu di quarant’anni, e che all’epoca era di profonda innovazione. Ed è la riflessione rispetto a quello che diventa classico. Somiglia anche un po’ anagraficamente, generazionalmente, a quello che diventiamo; da figli a padri.
E l’Amleto è una tragedia di padri e figli, una tragedia di orfani: da Amleto a Fortebraccio, ho scelto di spostare il punto di vista, di sensazione, di ascolto da uno all’altro. Perchè uno è un pò l’altro mondo rispetto che a quello, uno è il bianco e l’altro è il nero. Ma nella riflessione metateatrale che pervade e sulla quale si fonda tutto l’Amleto è come se, ci penso spesso rispetto al teatro contemporaneo con la sua continua ricerca di smontare a visione, di smontare i pezzi e mostrare l’ingranaggio, io abbia assolutamente bisogno di pensare che quell’attore lì sia il principe di Danimarca, ho il bisogno teatrale di sapere, di crederci.
Tanto teatro contemporaneo invece si ostina a dirmi che “quello è un attore che fa il Principe di Danimarca”: io invece ho la necessità di tenermelo in quel modo. Fortebraccio è colui che diventerà re. E io devo credere in quello che faccio.


A proposito della drammaturgia tedesca: soprattutto questa, ma un po’ tutto il teatro del ’900, si è sempre interrogato sui classici, come trattarli. Un po’ come te, che tra l’altro hai riletto San Francesco, Pirandello... Anticipavi prima quello che volevo chiederti, ovvero il tuo rapporto con la finzione, con la rappresentazione teatrale, il tuo rapporto con il falso.
Vedi questa maglietta che ho adesso? (una maglietta nera con una grande scritta bianca, Luge, ndr). Mi è stata regalata proprio da Barbara, e ‘Luge’ vuol dire bugia. È una maglietta che, quando mi ricordo, indosso nel giorno di debutto di questo spettacolo. È un gioco per dire che noi non facciamo Amleto, non facciamo Hamletmaschine, noi produciamo materiale che spero possa portarci altrove; cioè attraverso Amleto e Hamletmaschine, attraverso la finzione, attraverso tutta la verità possibile spero che si vada in quell’altrove. Che è per me l’unica speranza e aspirazione, cioè quella di essere ammessi al teatro. A quela cosa per cui non c’è una tesi o antitesi da dimostrare, non c’è un punto di vista da raccontare, una narrazione, questo non mi somiglia. I classici sono l’occasione più importante, attraverso i classici si può puntare ad altro, a quel qualcosa che è nel buio che io non so cosa sia. E se lo sapessi, se lo detenessi, certo non lo porterei in scena, me lo terrei stretto... Invece ho bisogno di parteciparlo.


Una delle chiavi di volta della tua arte, una dei punti di congiunzione tra te e il pubblico mi sembra essere sempre il suono, la voce. C’è una grandissima ricerca sul suono, uno studio sul suono e la deformazione delle parole, e ovviamente anche sulla partitura musicale.
Il mio collaboratore, il mio complice principale è un compositore con cui lavoro da ventisette anni, Gianluca Misiti. Io scelgo il cosa, ma il come è lavoro suo. Anche senza darci un metodo, però poi ho imparato delle cose che istintivamente avevo o avevamo fatto, nel tempo, le ho capite senza averle processate, se posso dirlo.
Certamente le parole sono senso, sono significato, sono suono, sono tempertura e tante altre cose per cui non è soltanto trovarne la musica ma proprio dare corpo, fondamentalmente dare fiato alle parole.


Ma partite dal senso o dal suono delle parole?
Dipende, intanto sono costantemente frequentate. Forse nel tempo quello che è successo davvero è che prima affrontavo frasi o periodi o blocchi di testo, ora − e lo dico come traguardo − conquisto parola per parola. È come se la parola si fosse rivelata.





leggi anche:
Michele Di Donato, L’attore (Il Pickwick, 17 gennaio 2017)





Matrioska Festival
Amleto + Die Fortinbrasmaschine
di e con
Roberto Latini
regia Roberto Latini
drammaturgia
Roberto Latini, Barbaba Weigel
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai
movimenti di scena Marco Mencacci, Fernando Lepri, Lorenzo Martinelli
foto di scena Angelo Maggio
organizzazione Nicole Arbelli
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con L’Arboreto − Teatro Dimora di Mondaino, ATER Circuito Nazionale Multidisciplinare − Teatro Comunale Laura Betti, Fondazione Orizzonti d’Arte
con il contributo di MiBACT, Regione Emilia-Romagna
lingua italiano, inglese, tedesco
durata 1h 10’
Lamezia Terme (CZ), Teatro Costabile, 10 luglio 2021
in scena 10 luglio 2021 (data unica)

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