“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 04 July 2021 00:00

La marmellata di prugne

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Mio fratello Claudio già da piccolo amava la marmellata di prugne.
L’aveva assaggiata per la prima volta a cinque anni, quando la nonna ci aveva portato in visita da una sua cugina, grinzosa e vestita di nero, che con il vocione virile e catarroso delle vecchie fumatrici, gli aveva proposto: “E tu, piccolino, la vuoi assaggiare una mia prelibatezza?”

Credo che mio fratello non avesse mai sentito pronunciare la parola prelibatezza, e la sua aspettativa si fosse concentrata tutta sul quel sostantivo.
“L’ho fatta io, con le mie mani”.
Le mani della cugina di mia nonna erano rugose e scurite, le dita giallastre di nicotina, le unghie orlate di nero. Tutto ciò deve avere affascinato ancora di più mio fratello.
La marmellata di prugne ci fu servita su un piattino dagli orli sbeccati, e poi spalmata su due fette di pane casereccio.
“Buona, eh?”, orgogliosa la vecchia ci osservava mentre assaggiavamo con timorosa riverenza il frutto cremoso della sua arte.
La nonna le faceva eco: “Buona, eh?”
Io di anni allora ne avevo dieci, e da tempo mi ero abituata a sopportare con paziente e silenziosa ubbidienza le frequentazioni di nostra nonna, invitata di tanto in tanto in appartamenti ammuffiti, invasi da una sinfonia di odori sovrapposti: naftalina, verdura cotta, pipì di gatto.
Mi dava fastidio dover baciare guance avvizzite, punteggiate di nei pelosi; aspirare l’alito pesante delle dentiere; rispondere con gentilezza a domande stupide.
Per il resto, essendo una bambina educata e comprensiva, accettavo con rassegnazione di passare due orette in compagnia della decrepitezza, per far piacere a Gesù e alla nonna.
Sua cugina abitava in una palazzina liberty circondata da un giardino scomposto, infoltito di alberi da frutto, cespugli ed erbacce infestanti. Dopo la merenda, io e Claudio chiedevamo rispettosamente di uscire, e finalmente nel verde di quella piccola giungla domestica respiravamo il profumo pulito di un’aria trasparente.
“Cosa sono le prugne?”, mi aveva chiesto il fratellino.
“Credo una cosa come le albicocche, però viola”.
“Crescono sugli alberi o per terra?” indagava, mettendomi in imbarazzo.
Tergiversavo, confusa. “Ti è piaciuta, la marmellata?”
“Sì, dolce. Ma il nome è strano”.
Non so se è stato per la stranezza del nome in gne-gna, o per la curiosità della provenienza agreste, o semplicemente per la dolcezza della composta, ma da quel giorno Claudio decise che avrebbe assaggiato un’unica qualità di marmellata: quella di prugne.
Questa sua ferma risoluzione procurò qualche problema nella nostra famiglia; mamma, essendo una pessima cuoca del tutto refrattaria a impegnarsi in laboriosi esperimenti culinari, si affidava a ricerche parentali in vari negozi alimentari e pasticcerie della città. Con scarsi risultati, però.
Si sa che le confetture più vendute sono quelle di pesche, albicocche, fragole e ciliegie.
Già trovare la marmellata di arance è un’impresa.
Le prugne sembrano abbiano qualche proprietà lassativa, quindi sono circondate da un’aura di diffidenza, soprattutto per un eventuale uso quotidiano a colazione: forse per tale motivo nei supermercati è difficile trovare succhi di prugna, biscotti farciti con prugne, torte di prugne.
O appunto marmellata di prugne.
Claudio non ricordo abbia mai avuto difficoltà intestinali: d’altra parte, la sua particolarissima dieta mattutina l’avrebbe preservato da ogni tribolazione del genere.
Per tutto il periodo delle scuole elementari, limitò la sua passione a spalmare due cucchiaini di conserva su una fetta di pane, che intingeva in un tazzone di latte.
Fu in seguito, verso gli undici anni, che questa abitudine del tutto innocua prese una piega alquanto preoccupante.
All’inizio, si trattò solo di una faccenda estetica, di colori.
Un pomeriggio, seguendo la mamma nelle compere in centro, vide in una vetrina di articoli sportivi delle scarpe da tennis di un colore violetto, orrende, bardate da lacci rossastri similmente spaventosi.
Tanto implorò e piagnucolò, che nostra madre acconsentì a comprargliele.
In classe fece scalpore, e tra i compagni la moda imitativa si diffuse in un baleno.
Subito, incoraggiato dal successo ottenuto con la sua stravaganza, pretese di fare pendant alle scarpe con un berretto da baseball della stessa tinta.
Poi fu la volta di un maglione, e quindi del pigiama.
Fino ad allora, non aveva mai tifato per una squadra di calcio in particolare, ma quando fu il momento di prendere posizione, scelse di supportare la Fiorentina. Nessuno di noi nutrì alcun dubbio sul motivo di tale preferenza.
La marmellata di prugne, il suo profumo, il suo gusto dolceamaro, non rimase a lungo tra le abitudini di Claudio. Arrivato al liceo, si convertì a uno spuntino più frugale, appena sveglio: un semplice caffè accompagnato da uno snack di cereali integrali.
Invece, l’adorazione per il viola in tutte le sue sfumature si intensificò nella scelta degli oggetti e dell’abbigliamento. Una cravatta, i calzini, un quaderno, la lampada sul comodino da notte.
A volte osava spingersi verso gradazioni simili, tra il rosa scuro, il rosso morato, l’indaco, l’ametista, il magenta.
Ma il violaceo rimaneva la tonalità prediletta.
Forse c’entrava la scaramanzia, una specie di rito apotropaico anticonformista: gli portava bene. Almeno, noi parenti ci illudevamo fosse così.
Sarà stata una pura coincidenza, ma la prima ragazza con cui si fidanzò si chiamava appunto Viola.
E alla barboncina di pelo bianco che mio padre gli aveva regalato diede il nome di Prune.
Certo, quando al secondo anno di ingegneria si presentò a pranzo con una vistosa ciocca di capelli blu-cinabro, a noi tutti riuniti a tavola venne un colpo.
Nel silenzio imbarazzato, ci apostrofò ilare: “Vi piaccio? Mi sento meglio, così”.
Fu il nostro medico di famiglia, investito della questione, a ipotizzare che mio fratello soffrisse di un disturbo ossessivo-compulsivo. Secondo lui, avrebbe dovuto seguire una terapia con un serio psicologo comportamentista.
Provammo a sondare il parere di vari specialisti, e ci venne consigliato il nome di uno stimato e giovane professore, originalmente trendy. Prendemmo un appuntamento.
Claudio recalcitrava, non riteneva di essere affetto da alcun disturbo, anzi, ironizzava sulle nostre paure. “Fissati siete voi”, ripeteva.
Ma volle che fossi io ad accompagnarlo alla prima seduta.
Si era vestito con discrezione, e a parte il ciuffo ritinto, l’unica concessione alla mania era una sciarpa di seta fucsia intorno al collo.
Lo studio del medico ci si manifestò nella sua sobria ma singolare eleganza: poltroncine fandango, cornici purpuree alle pareti, lavanda pervinca nei vasi.
Il dottore aprì la porta sorridendo: “Buongiorno, cari. Ho sentito che uno di voi ha un piccolo problema, sicuramente risolvibile con qualche chiacchierata”.
Si avvicinò amichevole, porgendoci la mano da stringere: indossava una camicia lillà, una cravatta viola e una giacca di color prugna. Le scarpe, sfumavano verso il malva.

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