“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 02 June 2021 00:00

Prime note su “La parte maledetta” di Teatro Akropolis

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La poetica del collettivo Teatro Akropolis si situa programmaticamente, come da titolo del festival che organizza sin dal 2010 a Genova, sul felice connubio della triade Testimonianze ricerca azioni. Il nuovo progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro non fa eccezione. Presentato il 14 novembre 2020 durante l’undicesima edizione del festival sopraddetto, esso ha a sua volta una componente di testimonianza, una di ricerca e una di azione. Con questo articolo si intende fornire alcune prime note sul progetto, in vista di un approfondimento futuro.



1. La ricerca maledetta
Per facilitare la comprensione al lettore, giova partire dal secondo elemento della triade, ossia dalla “ricerca”. Intendo focalizzarmi, più precisamente, su due saggi scritti da Clemente Tafuri e David Beronio, direttori artistici di Teatro Akropolis, che ben sintetizzano premesse e finalità del progetto.
Il primo è L’oscura radice dell’animalità del 2019, pubblicato negli atti della decima edizione del festival,1 che isola un problema teorico ed etico. Tafuri e Beronio notano la condizione di “pangrafia” del contemporaneo. La pervasività del digitale e dell’esperienza virtuale ha gradualmente portato alla destituzione del corpo, inteso come una sostanza materiale (sṓma) dotata di estensione (chrṓs) e struttura (démas), quindi in sé dotata di fisicità e della capacità di relazionarsi con altri viventi o con l’ambiente, favorendo l’emergere del “corpo-immagine”, costantemente fotografato/filmato. Esso ha i caratteri opposti ai tre della corporeità nuda. Il corpo-immagine non ha un sṓma, perché non occupa uno spazio in presenza, né un chrṓs, perché sostituisce la fisionomia che ci definisce con un’icona stilizzata, né infine un démas, dato che la figura è separata dall’ambiente e da altri viventi con cui potrebbe relazionarsi. Abbiamo in altri termini il trionfo di un’astrazione – un’opposizione tra la presenza fisica e la rappresentazione. Da qui sorge il bisogno di riscattare il corpo dal “depotenziamento” a cui è abbandonato a causa della sua fissazione in un’immagine. Riprendendo una formula di Giorgio Colli,2 lo scopo è riscattare l’“oscura animalità” che costituisce la nostra “essenza” e che è stata nascosta-obliata dalla pangrafia.
A prima vista, il rimedio alla decadenza dovrebbe risiedere nella distruzione dell’“immagine” in cui il corpo è fissato e individuato, i.e. nella liberazione dell’animale dalla gabbia della rappresentazione. Sennonché, Tafuri e Beronio argomentano in più punti che tale operazione è impossibile, oltre che controproducente. L’oscuro corpo animale dell’essere umano è ormai andato perduto ed è precluso qualunque utopistico ritorno. I tentativi che vanno in direzione contraria sono attività nostalgiche che azzardano più di quanto si può razionalmente cercare. Lo scopo della ricerca consiste semmai nel costruire altre immagini o altri modi della rappresentazione: forme che portano oltre se stesse e fanno intravedere la nostra animalità, con la relativa riattualizzazione parziale del corpo presente e capace di relazione. Si passa così dall’immagine che fa vedere solo se stessa al vestigium che trapassa la pangrafia e allude a un’irrappresentabile corporeità informe.
Tafuri e Beronio sostengono, infine, che alcune forme che potrebbero far accedere alla dimensione animale perduta sono quelle del teatro. La ragione non è che il corpo attoriale cade direttamente sotto i sensi. Infatti, anche la sua animalità potrebbe essere occultata, per esempio da spettacoli che fanno primeggiare la parola sul gesto, dunque dove la letteratura fissa l’evento scenico in un senso e neutralizza l’azione che apre all’informe/all’ignoto. Tramite il recupero intelligente di alcuni spunti di Aristotele, Auerbach, Artaud e Bachtin, si specifica che i corpi degli attori si tramutano in vestigia che ci fanno conoscere l’animale che siamo, se vengono trasfigurati con un processo mimetico che deforma fino all’eccesso la familiare fisionomia del sṓma, chrṓs, démas umano. La mimesi teatrale allestisce una “festa della conoscenza”, in altri termini, se e solo se accede alla dimensione grottesca, alla rappresentazione esagerata di una o più delle nostre parti corporee. È in tale tratto volutamente accentuato che la mente vede riflessa l’animalità che ha perduto e, allo stesso tempo, le potenzialità vitali del corpo non trattenuto dai limiti imposti dalla cultura, dal linguaggio, dalle immagini fotografate o filmate che fissano la corporeità in contorni rassicuranti.
Il saggio precede la pandemia che ha costretto i corpi a ritrarsi ancora di più e a esporsi con la mediazione del virtuale. Negli atti dell’edizione 2020 del loro festival, Tafuri e Beronio pubblicano il saggio La parte maledetta, in cui ha luogo un importante chiarimento e affinamento di prospettiva.3 C’era in effetti un rischio a cui la riflessione de L’oscura radice dell’animalità poteva esporsi: l’attenzione unilaterale per il corpo, a discapito di ciò che è attorno al corpo – il campo di forze incontrollate che ne condizionano tanto la fisionomia, quanto i comportamenti, ma resta sullo sfondo della creazione artistica. È a tale “parte” ripudiata ma sempre presente che ora Tafuri e Beronio danno il riconoscimento che le è dovuto, il tributo a una sorta di dio silenzioso e invisibile.
Occorre però accordarsi sul significato preciso dell’aggettivo. “Maledetta” non è qui sinonimo di componente negativa od odiata dall’artista: qualcosa di espunto dalla creazione perché dannoso e imbarazzante. L’aggettivo fa piuttosto riferimento alla sfera del sé che è stata consapevolmente tenuta fuori dalla forma artistica, perché appartenente alla dimensione simbolica, storica, letteraria, culturale che il corpo in movimento sulla scena cerca di oltrepassare. È a conti fatti un aut aut: o si vive, oppure si trascende la vita; o si sta al limite del corporeo, oppure si sprofonda nel corporeo. L’artista è posto così davanti a un bivio, come l’Ercole del sofista Prodico di Ceo al confine tra la via della virtù e quella del vizio. Ogni volta che opta per la creazione, va a destra verso i misteri oltrepassanti la forma e abbandona il sentiero di sinistra, che avrebbe invece portato a esplorare i territori della cultura, della letteratura, della storia, del simbolo.
A livello compositivo, parte artistica e parte maledetta sono due estremi di una polarità. L’una si traduce in un’opera permeabile, dal momento che il corpo di un attore si relaziona con il pubblico, dunque i suoi gesti mutano di senso e prospettiva in base a questa interazione. Tafuri e Beronio collegano questa dimensione alla poetica del “popolare”, secondo la prospettiva di Bachtin.4 Poiché gli spettatori assistono a teatro a un corpo che agisce in uno spazio neutro, gli elementi letterari-simbolici sono ridotti al minimo, o appunto sono “maledetti” affinché sulla scena spicchi un’opera che non ha bisogno di criteri culturali o dottrinali, ermeneutici per essere decifrata. Idealmente parlando, un’opera permeabile gode di trasparenza assoluta. E questo perché l’artista ha lasciato che fosse il corpo senza qualificazioni a parlare e che l’immagine alludesse alla informe dimensione corporea che riguarda ciascuno di noi.
La parte maledetta è per converso oggetto di un’opera impermeabile. Qui è impossibile prescindere da codici, riferimenti, dottrine che riportano, più che la visione dell’essere umano in quanto artista, la prospettiva dell’artista in quanto essere umano. Maledetta fin che si voglia, questa dimensione che sfugge alla creazione è “benedetta” in un altro senso: esprime sul piano del discorso e del rigore intellettuale ciò che l’arte consegna all’esperienza non concettualizzabile, pertanto prossima all’incomprensibile. Proprio in virtù di questa sua impermeabilità, la parte maledetta vira dalla scena immediata alla forma mediata del documentario e della cinematografia, che può essere coltivata anche in mezzo alla pandemia. Il discorso teorico attua in questo modo anche un’applicazione di tipo produttivo. Se una pandemia impedisce l’allestimento di spettacoli, l’artista potrà concentrare i suoi sforzi per sviscerare la parte di sé che ha deciso di maledire.
Ecco spiegato così il sottotitolo Viaggio ai confini del teatro. La parte che è maledetta è il perimetro che sta attorno alla scena e all’interno del quale si può decidere di ritagliare qualcosa che non è cultura né storia né letteratura, bensì arte. Se volessimo chiarire con una metafora, potremmo paragonarla alla cornice che delimita il quadro. Questa non è la pittura, ma è inseparabile da essa. Malgrado le differenze essenziali, le due opere costituiscono così un intero. Parte maledetta e parte non-maledetta sono integrate in perfetta armonia. Una pittura senza cornice cadrebbe a terra e verrebbe calpestata da indifferenti visitatori del museo. Una cornice senza pittura sarebbe un artificio vuoto, o un costrutto umano non ravvivato da un alone di mistero.


2. La testimonianza maledetta
Sono dunque queste le coordinate entro cui si orienta la ricerca sulla parte maledetta. In parallelo a tale teorizzazione, però, Tafuri e Beronio hanno dato due concretizzazioni pratiche. Essi hanno prodotto i film Paola Bianchi e Massimiliano Civica. Entrambe le opere impermeabili possono essere divise in due, distinguendo anzitutto un piano contenutistico e discorsivo. La parte maledetta dei due artisti consiste, in fondo e in larga parte, in una dichiarata testimonianza del loro modo di intendere l’arte.
Paola Bianchi testimonia con qualche affondo anche auto-biografico il suo pensiero della creazione come un procedere verso una visione, immagine od ossessione personale, in direzione ostinata e contraria a tutto un insieme di forze che impediscono la sua realizzazione. Il concetto-chiave che emerge è quello di attrito, che non coincide con il mero ostacolo. Quest’ultimo è in fondo esterno e spesso intenzionale: qualcuno o qualcosa complotta contro di noi. Se il problema fosse allora l’ostacolo, la soluzione sarebbe semplice. Basterebbe evitarlo, ignorarlo, opporsi, respingerlo. L’attrito che nasce con il procedere in direzione ostinata e contraria consiste, di contro, in una lotta interna allo stesso corpo, che è un campo dinamico di forze in persistente conflitto. Alcune sfuggono alla creazione e vorrebbero restar in riposo. Altre sono fin troppo obbedienti ai disegni del performer e sono così a rischio di cadere nella logica dell’esecuzione inerte. Altre ancora invece si risvegliano dopo lunga ricerca e possono sconquassare i moti interni più familiari, che allora reagiscono con un contrasto quasi per auto-difesa. La danza di Paola Bianchi è così l’esito di una rete di tensioni corporee dialettiche, per cercare l’essenza e l’origine del movimento puro. Quando è trasformato in un moto creativo, quando si fa emergere dall’interiorità la dimensione animalesca o selvaggia del gesto, accade che l’attrito si trasformi in ritmo per quel che riguarda il rapporto del corpo con il tempo, in tono per quanto concerne il suo porsi nello spazio. Dalla prospettiva della ricerca personale, l’affondo di Paola Bianchi sulla sua parte maledetta testimonia, inoltre, un cambiamento di attitudine. Se in passato l’attrito era cercato con artifici fisici e posturali, come l’immobilizzazione delle parti del corpo con bende o simili, l’artista oggi vede l’attrito come una condizione che si presenta forse persino in automatico durante la messa in scena. Le tensioni che una volta erano indotte sono diventate una disposizione spirituale permanente: un inesausto interrogare la corporeità e il suo potenziale inespresso.
Molte altre sono le considerazioni interessanti che Paola Bianchi svolge con il soffermarsi sulla sua parte maledetta: dal rapporto coi collaboratori, che sono descritti come partecipanti alla pari che possono arrivare a modificare radicalmente la visione da cui si partiva, alle confessioni sui momenti pre-espressivi o di preparazione alla creazione, fatta di intensi giorni di lettura e scrittura. Chi volesse approfondire questi aspetti può leggere il suo volume Corpo politico, che aggiunge anche il tema della politicità ed eversività del gesto puro riscoperto tra gli attriti corporei, qui non esplicitato troppo.5 Mi riservo però di segnalare a parte il proseguimento recente della sua ricerca: il trittico O_N, Other OtherNess e NoPolis, ultima tappa del progetto ELP. I lavori precedenti avevano esplorato come il corpo possa essere deposito di immagini che riaffiorano durante l’atto performativo e si trasformano in posture, movimenti, gesti. Con tale trittico, Paola Bianchi va oltre e indaga il potenziale di un immaginario corporeo che non conosce direttamente, ma ha potuto intravedere in uomini e donne in protesta, in fuga, in agonia. Qui l’attrito giunge al culmine, perché si rievocano posture, moti, gesti che ripugnano al corpo del performer – un orrore che avrebbe preferito evitare, che d’altro canto viene trasformato, con un processo di empatia che non cede alla facile compassione, in energia animale pura.
Questo tema apre certo un problema. È l’immagine a generare attriti nel corpo? O sono gli attriti che permettono all’immagine di squassare la carne? Credo che la risposta stia a mezzo, i.e. in una rifrazione costante tra attrito e immagine. Più si è tesi nel corpo, più l’immaginario si fa distinto; più l’immagine è vivida, più l’attrito raggiunge elevatezza espressiva. Siamo davanti a uno dei molti misteri dell’arte. Non riusciamo a distinguere con chiarezza dove sta il confine tra immaginazione e percezione, ammesso che vi sia davvero una differenza tra le due facoltà.
Anche la parte maledetta di Massimiliano Civica è espressa in prima istanza sul piano discorsivo. La restituzione cinematografica di Tafuri e Beronio consiste, infatti, nella recitazione del testo Contraddizioni provvisorie da parte dell’attore Bobo Rondelli, che l’artista pubblica nel medesimo volume che accoglie il saggio La parte maledetta.6
Civica compie una personale e intima meditatio mortis. Dopo aver scoperto presto da giovane che la letteratura non avrebbe potuto renderlo immortale, perché di fronte alla totalità del tempo anche la più grande creazione diviene polvere e dimenticanza, egli pensò di affrontare la sua personale battaglia contro la paura di morire attraverso il teatro. Ogni spettacolo, incontro, atto o gesto scenico muore nel momento stesso in cui avviene, sicché la perpetua delusione della durata continua di qualcosa aiuterebbe ad abituarsi al destino dell’annichilimento futuro. Eppure, per lungo tempo questo proposito venne attuato sotto il segno della contraddizione. Civica sperava di fare spettacoli che durassero e, al contempo, si augurava o persino contribuiva affinché ogni traccia del suo lavoro sparisse, per non provare il dolore di vedere il tempo portare tutto allo sfacelo, oppure perché sapeva che ogni suo sforzo sarebbe stato vano e inutile. Il risultato di questa altalena emotiva portava, sul piano artistico, a una “mummificazione” della forma estetica, che per durare doveva essere ripetibile e granitica. Si arrivava ad attuare quel moto paradossale che Epicuro esprime in una massima conservata nelle Epistole a Lucilio di Seneca: fuggendo la morte, Civica la inseguiva.
Il confronto quotidiano con attori e spettatori ha però gradualmente portato l’artista a un’agnizione dalla venatura quasi mistica. Se forme e azioni devono morire nell’atto stesso del loro nascere, ebbene, che esse nascano e muoiano tutte le volte. Il reiterarsi di questa esperienza conduce, però, alla consapevolezza che dentro il divenire c’è una logica salvifica, un procedere che coglie persino qualcosa di immortale. Quest’ultimo è la relazione: la disposizione a cogliere, davanti a ogni forma, gesto o incontro che nasce e muore in quell’istante, una perfezione e unicità che sfugge alla corrosione del tempo. Il teatro con il suo gioco di accadimenti seguiti da un subitaneo tramonto lo sottolineano più di altre arti, legate (anzi condannate) a una maggiore permanenza. Tutto ciò che accade nella relazione non può morire, perché niente scalfisce quell’istante in cui il gesto, la forma, l’incontro è avvenuto. La massima di Epicuro in Seneca è ora rovesciata in un altro paradosso, stavolta di tenore incantevole e non nichilista: cercando la morte, Civica la allontana da sé.
Queste due riflessioni di ordine concettuale-lingustico sono limite e cornice entro cui i due artisti pongono le loro creazioni, per molti aspetti diverse. Sia Bianchi che Civica testimoniano quanto la loro parte maledetta è sì estranea alla creazione, ma al tempo stesso ne è motore e sfondo determinante. La trasformazione dell’attrito in tono e ritmo dell’una non sarebbe avvenuta, senza lo studio del rapporto dialettico tra movimento corporeo e immagine. I lavori di Civica che insistono sulla centralità della relazione non sarebbero mai nati, in assenza della tormentata, complessa, contraddittoria meditatio mortis che risale alla sua gioventù, che ha potuto rivelare l’esistenza di un gioco di trasmutazione tra nascita e morte, istante ed eternità.


3. L’azione maledetta
Ma si diceva nel paragrafo precedente che il piano concettuale-discorsivo è solo una delle due facce della medaglia della parte maledetta. Esiste anche una componente performativa, che opera in segreto e quasi in sottotono, ma forse è persino più potente nella sua discreta influenza. Scrivono Tafuri e Beronio in un punto decisivo del loro saggio:

“... in un tale progetto che fine fanno lo spettacolo dal vivo, il teatro, la danza? Essi ci sono ma vengono traslati su un piano letterario, non sono più una pratica ma diventano un’immagine. Sono chiamati a mostrare il loro racconto”. (La parte maledetta, cit., p. 119)

La testimonianza non esaurisce dunque l’essenza della parte maledetta. I due autori sottolineano, per usare il loro linguaggio, che Paola Bianchi e Massimiliano Civica sono anche azioni performative, o meta-performance. Se negli spettacoli si agisce attorno a un tema, con La parte maledetta ha luogo uno stimolante ripiegamento. L’azione maledetta ha come oggetto l’azione stessa. Essa medita sulla sua essenza e la pone come un problema da indagare, diventando nitida icona vivente del suo farsi e disfarsi.
In termini pragmatici, si raggiunge il ripiegamento con un percorso visivo, che integra in termini simbolici ciò che i due artisti esprimono attraverso le parole. Il gesto bestiale e sovversivo che è tematizzato in Paola Bianchi si fa icona vivente, nell’incipit del film, attraverso la proiezione dell’ombra di un cane in movimento di cui non si riesce ad afferrare i contorni – allusione all’animale rappresentato nei quadri di Francis Bacon, a cui Bianchi dedicò un lavoro ad hoc nel 2000 (Figura umana − teatri anatomici di Francis Bacon). Per converso, l’analogo della forma mummificata in Massimiliano Civica è costituito dalle riprese di animali impagliati e conservati nel Museo Civico di Storia Naturale “Giacomo Doria” di Genova, tanto belli nelle loro forme, quanto spogliati di vita.
Espedienti del genere potrebbero essere confusi con segni didascalici, che sovraccaricano l’analisi concettuale già trasparente. In realtà, essi sono tentativi di permettere all’azione performativa di riflettere come in uno specchio su di sé, di vedere direttamente a quale stato di cose essa conduce. L’azione maledetta è l’attività di un’attività, così come la riflessione è il pensiero di un pensiero.


4. Conclusioni maledette
Le considerazioni esposte in questo articolo hanno provato a dare un quadro almeno molto generale del progetto La parte maledetta di Teatro Akropolis, seguita da un’esposizione sommaria dei primi esperimenti Paola Bianchi e Massimiliano Civica. Molti punti restano opachi e bisognosi di indagini, in particolare la nozione di popolare e il chiarimento su come la parte ripudiata influisca in absentia sulla creazione in praesentia. In un certo senso, anche tali conclusioni sono maledette: sono un momento pre-scientifico che si dovrà mettere da parte, quando si avrà tempo e agio di compiere un’analisi profonda, o meno approssimativa. Nel frattempo, queste prime note valgano da omaggio al lavoro di Akropolis, Bianchi e Civica, a cui si augura lunga vita artistica e una persistente “festa della conoscenza”.




1) C. Tafuri, D. Beronio (a cura di), Testimonianze ricerca azioni. Vol. 10, AkropolisLibri, Genova 2019, pp. 45-60.
2) G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1974, p. 103.
3) C. Tafuri, D. Beronio, La parte maledetta, in C. Tafuri, D. Beronio, Testimonianze ricerca azioni. Vol. 11, AkropolisLibri, Genova 2020, pp. 117-122.
4) M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 2011.
5) P. Bianchi, Corpo Politico _ distopia del gesto, utopia del movimento, a cura di S. Bottiroli e S. Parlagreco, Editoria & Spettacolo, Spoleto 2013.
6) M. Civica, Contraddizioni provvisorie, in Tafuri-Beronio, Testimonianze ricerca azioni. Vol. 11, cit., pp. 14-18.

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