“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 14 May 2021 00:00

L’Antigone, con Žižek, va a morire

Written by 

“Was die Erfahrung aber und die Geschichte lehren,
ist dieses, daß Völker und Regierungen niemals etwas
aus der Geschichte gelernt und nach Lehren, die aus
derselben zu ziehen gewesem wären, gehandelt haben”
(Georg Wilhelm Friedrich Hegel)



Antigone, How Dare We! è un film di Jani Sever del 2020. A presentarlo, al Trieste Film Festival del 2021 (questo II anno pandemico online), è lo stesso produttore, scrittore e regista. È egli stesso, infatti, a introdurci (con una entrée quasi personalizzata) al suo Antigona – kako si upamo!.

Come ci illustra il cinquantottenne sloveno (autore già di cinque documentari e una serie tv), è rimasto talmente colpito dall’esordio teatrale del suo connazionale Slavoj Žižek – un’Antigone riveduta e corretta: La triplice vita di Antigone, da noi, sic! et simpliciter, ancora inedito – da decidere di farne un complesso oggetto filmico, sfrenatamente metateatrale. Complici le tre variazioni del mito sofocleo apportate dall’orso sloveno della filosofia, l’opera – da noi portata sui palchi da Angela Richter – ben si presta a questo tipo di operazione. Inoltre, approffittando dell’indulgenza del marxista lacaniano a non sottrarsi, anzi, dal fascino della pellicola, è stato possibile approfittare delle sue gentili rasoiate, le cui incursioni interrompono nel procedere della tragedia, con chiose puntuali e sempre d’effetto. Attraverso le chiavi di lettura che lo contraddistinguono (le celebri lenti carpenteriane dell’ideologia, il teatro calato nella postverità, la psicanalisi lacaniana, la logica marxista nell’interpretazione dello spirito del tempo, l’inflessibile storicità hegeliana), Žižek sovverte la consueta lettura del dramma greco, applicandolo alla modernità e agganciandolo agli sconvolgenti quanto esecrabili riflussi storici recenti che hanno scombussolato il nostro mondo, già prima della pandemia. Grazie a un prezioso lavoro di farcitura, Sever contrappunta alle due linee narrative – il dispiegarsi del dramma e il florilegio žižekiano – flash di immagini di repertorio d’eventi recenti politici, farseschi nella loro messinscena quanto grotteschi contenutisticamente. Tanto per cominciare, il protagonista del dramma, per Žižek, non è più Antigone (lo era nel secolo precedente), quanto Creonte (qui con le fattezze di Primoz Bezjak).
Il re tebano, infatti, sarebbe uno specchio più fedele dei nostri tempi, coi suoi ripensamenti, la sua natura solamente apparentemente testarda, e il suo tentativo di deviare il corso della storia con le sue leggi inflessibili, cui anch’egli deve sottostare, solo tardivamente e pateticamente, in puntuale ritardo à la Sisifo contro un destino ineffabile davanti al quale anche i governanti sono impotenti e risibili. E allora ben si accosta al suo personaggio quello di politici colti in imbarazzo davanti a un’autoproclamata indipendenza catalana, o a una brexit sinceramente sconfortante per i suoi risvolti come per i politici che sono passati, gongolando, al Parlamento, sventolando questa vittoria di Pirro, all’insegna della divisività, dell’antisolidarietà, del separatismo miope, ignorando qualsiasi interdipendenza umana, in un mondo globalizzato, abbracciando il solipsistico individualismo narcisistico e disimpegnato. A spiegarci che l’Antigone (la trentenne Anja Novak, già vincitrice del Borštnik Award come miglior giovane attrice nel 2019) in sé è solo un pretesto per passare in rassegna una carrellata di imbarazzanti momenti storici, è, ancora una volta, il regista stesso, invitando a interrogarci su quale percorso l’umanità stia imboccando, affidandosi a chi, che faccia gli interessi di chi, e che risponda a chi.
Non a caso, il film si apre con la celebre frase di Hegel (d’altra parte Žižek è anche un hegeliano convinto) sulla storia e la sua insottraibile condanna alla ripetibilità per un’umanità incapace in alcun modo di tesaurizzare la sua storia e i suoi errori, autocondannandosi a un sempiterno, smemorato, ritorno che, se la prima volta l’errore è passibile di tragicità, la seconda, anche peggiore, si ripropone come grottesco (il problema si risolve solo quando a commettersi è un errore irreversibile, come quello da cui ci mette in guardia Greta Thunberg, che non poteva mancare in questa sfilata di celebrità planetarie). La tesi, quindi, è che non è tanto l’Italia la terra dell’oblio, oltreché del rimorso, quanto tutto la terra a essere sfortunata perché bisognosa di continui ripassi. Le scene del film vero e proprio sono in un bel bianco e nero di Mitja Licen, che fanno somigliare la scena dell’eccidio, fuori le porte di Tebe, a uno zombimovie romeriano.
Ciò è dovuto anche al fatto che la messinscena, oltre a esser virata in una manichea bicromia, è ambientata in tempi moderni, nelle scenografie di Tina Kolenik e Lara Stefancic, come diversamente non avrebbe potuto essere. Dalla recitazione in sottrazione degli attori e delle attrici, giungerà ulteriore conferma di come sia decisamente secondario comprendere se ad aver ragione sulla sepoltura del cadavere del traditore Polinice sia Creonte o sua nuora in pectore Antigone: entrambi personaggi storici sono condannati all’arbitrio di una superiore legge (superiore anche a quella non scritta di onorare i propri estinti ché τὸν τεθνηκóτα μὴ κακολογεῖν, ovvero De mortuis nihil nisi bonum, vale a dire dei morti niente si dica se non il bene, e quindi, va da sé, gli sia dia una coerentemente onorevole sepoltura: insomma, scherza pure coi santi ma lascia stare i morti), quella della storia, davanti alla quale le loro azioni e i loro giudizi sono quasi ininfluenti, come il buon senso e la ragionevolezza (contro le quali lo stesso Žižek si scaglierà, citando un altro suo maestro: Althusser). Antigone è la classica eroina greca: per chi non lo ricordasse, seppellisce il fratello pur sapendo di inimicarsi così il re che questi ha tradito, e che la condannerà a morte (inducendo così il proprio figlio, innamorato proprio della figlia di Edipo, a suicidarsi: alé!).
Le colpe di Edipo non ricadono su Antigone ma essa stessa si condanna da sé, pur di far valere i propri principi, incurante delle conseguenze, obbedendo a una legge, quella degli affetti, superiore a qualsiasi editto regale (ella stessa lo dice: un figlio si può rifare, un marito si può sostituire, ma un fratello, dopo la morte dei genitori, è insostituibile, con un esempio mirabile di calcolosi empirica iperrazionalista protoborghese da homo oeconomicus ante litteram, anzi, domina oeconomica). Ma solo un’Antigone a Žižek non era sufficiente, e così lui ci presenta ben tre alternativi finali, attraverso i quali ci conduce per mano il coro greco, rappresentato da tre giovani (che sembrano usciti da una copertina degli Autobahn nagelbett) che, sempre secondo il neolacaniano, incarnano l’insopportabilmente stolida vox populi del buonsenso populistico, inconcludente e assecondatrice del vento della storia (e dei suoi, inconcludenti, lunghi viavai): questi tre non-tanto-allegri comari, queste moderne Urdhr, Verdhandi e Skuld (o, se si vuole, Cloto, Lachesi e Atropo o, ancora, Megera, Aletto e Tisifone) son gli unici ancora incapaci di scorgere come quella natura umana, di cui tessano le lodi, sia in realtà fallace e tediosamente ripetitiva nei suoi inciampi e nella sua andatura singhiozzante quando non gamberescamente a ritroso.
In un montaggio, che non può non ricordare il mitico Lola rennt (1998) dove a sfuggire alle maglie del tempo era un’interstiziale Franka Potente, Antigone sopravvive a Creonte e viene vilipesa dal coro, Creonte perdona Antigone ma quand’è già tardi, e via così (per quel che vale!), in un relativismo sfrenato dove è sostanzialmente indifferente, per le sorti dei talebani tebani, se prevalga l’uno o l’altra, e dove non si comprenda se sia più logico obbedire o più onorevole imbracciare la disobbedienza civile in tempi incivili come quelli presenti (o passati, tanto si confondono). Ben sintetizza il coro quando dice che il brulichio della vita umana (al quale nulla può nemmanco il Cynar) è caotico e sfugge a qualsiasi tentativo di governo e ogni mossa in tal senso non fa che destabilizzare ulteriormente il già disordinato stato delle cose nella realtà. A fare da controcanto a questo coro, le immagini recenti di movimenti destorsi che scendono in piazza, le salmodianti arringhe di Salvini all’Unione Europea sulla protezione dei confini in nome di un’identità inesistente, l’osceno nazionalismo di Viktor Orbàn e del gruppo di Visegràd (giustamente ribattezzato Isengard), il terribile spot della Le Pen, Marianne au contraire, o Farage che ride sprezzante della fuoriuscita dell’UK dall’UE prima di riciclarsi, con un cambio di palco, disinvolto endorser di Trump, irremovibile dal nostro immaginario collettivo. Se a questi materiali di archivio recenti se ne affiancano altri ormai vintage che molto ci aiuterebbero a esser meglio edotti della nostra storia (e quindi magari difenderla: Europa compresa), basti citare su tutti il discorso di Robert Schuman o quello di Churchill che, invocava, addirittura, degli Stati Uniti d’Europa (!), la vera chicca, la perla che rende un terribile peccato il fatto che assai difficilmente agli italiani sarà dato poter vedere questo film, sono, ça va sans dire, le provocazioni di quel prêt-à-penser di Žižek. Mentre siamo, infatti, assediati dal coro privo di contraddittorio di intellettuali che dall’antropocene e dallo chutullocene passano alle apericene, esegeti che marciano col Capitalismo realista di Fischer nel taschino come cinesi col libretto rosso sotto Mao, e che magari non hanno mai sfogliato Gramsci o Marx, o rimbalzano su Internet divulgatori storici le cui lezioni passano da Salamina a Napoleone, a seconda della ricorrenza storica della settimana, da Caporetto ai fabliaux medievali sulla voglia di cazzi, Žižek resta fedele a quegli autori che ha sviscerato per un’intera vita, provocatorio come sempre, contraddittorio ma mai solo per il gusto posmodernista di stupire, sempre curioso e sempre intento a lanciare il suo sguardo dove nessuno lo dirige: avanti e non (solo) indietro. Originale anche nell’errore. Eretico e mai accomodante, lasciando sempre con la sensazione di non esser riusciti, mai, per quanto lo si rimandi a loop, ad afferrare la totalità del suo complesso universo di significato (proprio come i suoi maestri: Lacan, Hegel, Marx). E lo fa, e riesce a farlo, benché la nostra soglia di attenzione si sia ridotta a una finestrella attraverso la quale non passi che un pesciolino rosso, divertendo, infilandoci i suoi elettrodi direttamente nei gangli dei nostri cervelli sopiti e dormienti, quando non comatosi. Lo fa con nient’altro che la sua maglietta bartlebyana e riesce a farlo anche quando una paresi facciale gli calcifica i nervi di mezza faccia destra, senza però privarlo di nessuno dei suoi guizzanti tic.
Fustigatore impenitente e irrispettosso, nella sua trappola sofistica, la tesi che sostiene è che Creonte sia la burocrazia di Bruxelles, quel capitalismo dal volto fantozzianamente semiumano, così imperfetto, così odioso, eppure, in qualche modo, in continuità con la cultura europea da cui è continua gemmatura, e dal quale sarebbe così miope, così disgregativo e separatista, così anticomunitario staccarsi, volendosi consacrare a un indipendentismo identitario fuori tempo massimo dato l’imperante e impetuoso multiculturalismo globalizzante, che solo un’Antigone reazionaria e nostalgica potrebbe desiderare (e che solo in quanto a sua volta erede può avere la libertà di rinnegare, per quanto stupido e antistorico sia). Un’Antigone, quindi, quella attuale, secondo Žižek, molto diversa da quella di brechtiana memoria che, con la sua amorevole cura verso la comunità, contro Hitler, era una paladina assai più femminista, nel suo antiseparatismo, di quella odierna (lo stesso Brecht sulla stessa Tebe sofoclea si chiedeva chi ne aveva strascicato i lastroni su cui era stata edificata; gli intellettuali è un po’ così che fanno: pongono dubbi, non smerciano certezze o sventolano nozioni sul mercato della infosfera). Tempi paradossali come il presente richiedono eroi paradossali come Creonte: Creonte cambia idea, torna sui suoi passi, incespica, è attanagliato dal dubbio, non vanta monolitiche certezze come Antigone, nella sua irremovibilità. Creonte commissiona omicidi di stato (precorre i tempi!) e, così facendo, perde il figlio. In un tempo di padri svaporati e stati westfalici vuotati di senso da imperi economici privati transnazionali, non può che il padre, laddove ci sia ancora, a esser tragico, tagliato fuori com’è dalla storia, rispetto alla figlia, martire integerrima, integralista della sicumera. Antigone, come l’Agnese, va a morire. Vuol morire. Creonte, invece, fa il nodo intorno al suo collo, ma a lui che lo fa, e che è anche colui che può disfarlo, tocca la peggior sorte: quella dell’insottraibile giogo delle sue responsabilità non richieste. Insomma, l’Antigone è l’imbarazzante impasse fra una forza inarrestabile che incontra un oggetto inamovibile: attualissima in un’epoca, la nostra, di semplicistiche e grossolane polarizzazioni che non conoscono sfumature (o bianco o nero, o con me o contro di me, non siam sempre più spesso chiamati a queste oltranziste scelte di campo a fortiori da tutte le battaglie che accampano le nostre bacheche social come fossero agende politiche?).
Ironia della sorte, è la lotta stessa contro l’Europa, consentita dall’Europa stessa. L’Europa si può concedersi il lusso di criticarla, perché è l’Europa che rende liberi di farlo. È insito nel suo stesso DNA. I parametri, i riferimenti filosofici, le pezze migliorative all’Europa, infatti, sono offerte, proprio, dal sistema filosofico e ideologico della stessa Europa. Il che fa sì che l’Europa sia migliorabile, come tutte le comunità, rimamendo al suo stesso interno, valorizzando ciò che di meglio già ha insito, e non defilandosene (con una fuga all’inglese, per intenderci). Come in tutti i casi, vale anche qui l’antico motto: è restando che si dimostra il vero amore, interessamento, e attaccamento, e non sfilandosi alla carlona. Questo il pensiero di Žižek: la cura alla burocrazia bruxelliana? Il marxismo (da poco ha compiuto duecento anni, e l’orazione di Junker è stata terribilmente retrograda!). E cosa c’è di più europeo del marxismo stesso? Mentre la risposta di Antigone è fondamentalista, e il fondamentalismo è una reazione al capitalismo, e non la sua soluzione. Attaccare il fondamentalismo è attaccare il sintomo del malessere, e non la causa, rappresentata dal capitalismo. Da cui il ritorno al marxismo. Ed ecco perché la via risolutiva al conflitto non è, in conclusione, né parteggiare per Creonte, col suo capitalismo dal volto umano, né il rifiuto duro e puro del fondamentalismo d’Antigone: ma una terza via che passi per entrambi: un marxismo nuovo e rivoluzionario. La via di Antigone è mortifera come il fondamentalismo perché ricerca la propria morte, quella del capitalismo mostruosa perché non si fa scrupoli di passare sopra le vite degli altri: sta nel rispetto e nell’amore della vita la strada a metà fra i due estremi da percorrere, eccola la vera ragionevolezza altro che parche, norne o erinni (ben diceva Majakovskij: spero che non verrà mai per me l’infame buonsenso!). Esser votati alla vita, a differenza di Antigone, e non costringersi da sé a cose terrificanti, al contrario di Creonte, legittimando la violazione persino delle leggi, quando ingiuste (con buona pace di Socrate, l’Anti-Antigone per eccellenza). E noi? Ecco la terza vita di Antigone: a noi il compito di fare il coro. Ma non un coro populista e passivo. Non un pubblico, ma un coro che si faccia giudice giudicante, che non covi timori e sia rotto a qualsiasi giudizio. Più che un coro, quindi, un collettivo. Un corpo mobile (in sostituzione dei partiti, quelli sì, i veri grandi assenti, fantasmi di un cardine che ha smesso da tempo di girare a dovere) che medi fra il fanatismo dei separatisti, degli indipendentisti, degli individualisti atomizzanti, antigonici, e il pragmatismo autorevole, il kafkiano burocrate mittleuropeo, senza cuore e indifferente, dell’austerity non sobria ma cruenta, creontiano. Una minoranza etica invece che etnica. Una sottocomunità che dal suo basso elevi i propri valori fino alla cima della comunità che vuol contaminare ma senza uscirne, partecipando e non astraendosi, sporcandosi e mettendosi in gioco e non limitandosi allo slacktivism. Un tribunale del popolo, quasi robespierriano, ma non populista, che faccia gli interessi di tutto il popolo e non solo di qualche parte di esso, che l’autorità la fronteggia e vi si confronta, anziché ripudiarla di sana pianta, rendendosene complice e lasciandole il campo libero (e in ciò avrebbe incontrato il favore di Lacan), e che nemmeno si erga paternalisticamente a prestare la voce a chi non ce l’ha, esautorando, con le più nobili intenzioni, gli oppressi senza voce che si voleva difendere.





Trieste Film Festival
Antigona – kako si upamo!
regia
Jani Sever
sceneggiatura Milos Kalusek, Stojan Pelko, Jani Sever
con Slavoj Žižek, Primoz Bezjak, Anja Novak, Matija Vastl, Zan Perko, Jure Henigman, Doroteja Nadrah, Matej Zemljic, Gregor Prah
fotografia Mitja Licen
montaggio Milos Kalusek
scenografia Tina Kolenik, Lara Stefancic
produttore Nina Jeglic
paese Slovenia
lingua originale sloveno
colore bianco e nero
anno 2020
durata 86 min.

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook