“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 15 April 2021 20:05

Graces Anatomy. Diario di bordo – Giorno 3

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Continuando. È il terzo giorno di Danza Pubblica-Graces, la residenza organizzata da Scenari Visibili nell’ambito del programma ”Per chi crea”, sostenuto da MiBACT e SIAE.
E si continua a giocare, a cominciare dai filtri di Zoom che consentono mimesi carnevalesca. Ci si trasforma, nel volto e nello sfondo, nelle fattezze e negli accessori, per gioco e per amore del gioco. E chi non ha i filtri a disposizione sopperisce con l’inventiva.

Si riparte da qui, per poi cominciare a “sentire la parte di noi più rigida e iniziare a massaggiarla come fosse pasta della pizza”: collo, spalle, braccia. Silvia suggerisce di utilizzare anche parti dello spazio che si abita, muri, porte, sedie, pavimenti, rotolandoci sopra o facendoci pressione.
La domanda di partenza è: come si trasmette il movimento? Nel nostro corpo come avviene il massaggio guidato dal contatto con pavimenti o oggetti presenti in casa? Letti, sedie, porte, divani, tavolini, muri: ogni elemento d’arredo diventa funzionale a questo movimento che serve a  sciogliere i muscoli per dar loro modo di entrare fisicamente nel mood di giornata. Mood di giornata che musicalmente si apre con Amy Winehouse, la cui voce prelude e accompagna un primo tratto di percorso: massaggio, stretching, allungo.
A microfoni spenti, ognuno si sceglie una musica e si riserva un tempo per stabilire un proprio percorso in cui l’attenzione sia rivolta alla trasmissione del movimento.
Se ieri era stata l’attesa a costituire il nerbo concettuale dell’azione e dell’attenzione, oggi è “trasmissione” la parola chiave, così come in Graces, dove i quadri che si succedono all’inizio sono proprio incentrati su questi due concetti.
A ogni corpo viene chiesto di trasformarsi in vettore, di farsi portatore del movimento e trasmetterlo: si è chiamati a esplorare le potenzialità dello spazio circostante, così un muro diventa blocco di partenza, una tazza da sorseggiare punto di arrivo, sedie e divani parti fondamentali di passaggi intermedi per corpi dinamici. Si prende spunto da ciò che si vede, da quel che c’è intorno, ognuno sceglie una musica sul cui ritmo costruire la transizione del proprio movimento, chiamato a essere esposto e trasmesso. Chi passa attraverso una sedia accartocciandocisi (Guido), chi partendo da una libreria rotola fino all’obiettivo della webcam su una palla medica (Giulia), chi invece sceglie un letto per rotolare, prima di fare una verticale, piedi in cielo e testa pigiata sulla base di uno sgabello (Amina), o chi ancora, come Anna, sfrutta uno spazio minimale, senza suppellettili, per trasmettere in modo essenziale la propria idea di movimento, o chi invece come Arianna, di uno spazio pieno prova a esplorare le possibilità, lasciandosi girellare su uno sgabello a rotelle.
Piace guardare queste sperimentazioni dinamiche, queste esplorazioni di senso e possibilità; piace ancor di più soffermarsi a scrutare le reazioni degli altri, di chi guarda, di chi apprezza, plaude e osserva tra il divertito e lo stupito.
Questa fase inventiva serve a Silvia Gribaudi per porre l’accento sulla necessità dell’errore, sul suo estremo valore creativo: il valore prezioso dell’incidente di percorso, la possibilità di sbagliare. È un concetto ampio, e ampie sono le sue ricadute nel campo dell’esperienza teatrale, dove troppo spesso e con troppa miopia non si contempla questa eventualità, pretendendo prestazionalità, efficienza, pulizia estrema. Ma se ci osservassimo con maggiore attenzione, scopriremmo quanto facciamo ridere, perché dentro alla fluidità (e alla sua ricerca) c’è una realtà piena di ostacoli, che affrontati e attraversati con la leggerezza di chi si concede la possibilità – ma anche il gusto – di sbagliare, suscitano divertimento, promettendo di essere cifra espressiva di un codice che parla la lingua dell’umorismo. È nell’errore che si possono annidare i meccanismi del comico, gli sbagli da commettere sono possibilità da esplorare.
Ed è a questa esplorazione che mira il compito odierno: preparare un minuto di movimento individuale da trasmettere e condividere con il resto del gruppo; ci si alternerà, uno farà (trasmetterà), gli altri lo seguiranno (riceveranno). La domanda è: cosa trasmettiamo agli altri? E gli altri come possono seguirci?
Prima che nel pomeriggio i partecipanti ci mostrino le loro personali reinterpretazioni del concetto di trasmissione, li si invita a guardare (o riguardare) Graces. Stella polare da seguire rimane l’idea del gioco, unita alla possibilità salvifica – come detto – dell’errore, comprendendo che non esistono un giusto e uno sbagliato universali. Perciò: “Fregatevene, giocate!” è il diktat di Silvia ai partecipanti.
Così, nel pomeriggio parte una staffetta continua, da una persona all’altra, da un riquadro all’altro di Zoom..
Si prova a lasciare libera la fantasia, a renderla motore del movimento, cinghia di trasmissione dell’esperienza: parte subito Angela, giocando con le mani e l’espressività del volto e da lei in poi è una processione dinamica senza soluzione di continuità: le mani di Didi che roteano protese in avanti, l’energia sprigionata da Maria Chiara sulle note di Io ho in mente te dell’Equipe 84, le palme delle mani aperte di Valentina, quelle di Viviana prima aperte, poi strette a pugno, quelle di Giulia che si intrecciano per trasmettere questo movimento avvinghiante a tutto il resto del corpo, la ginnica armonia di Antonella, che passa il testimone alla sua omonima, la quale chiede a tutti di immaginare d’essere cani scappati dal canile, Sara che mostra le espressioni del suo viso con delle cuffie in testa, Luan che si muove a ritmo di musica, Francesco che chiede a tutti di aprire i microfoni per seguirlo sonoramente nei suoi movimenti, così come Leila, che batte palmi, pugni e gomiti su una superficie, Guido che guida (e come potrebbe essere altrimenti!) nel “ballo della giraffa ubriaca”; e ancora, Amina che giostra gambe e braccia prima di finire seduta in terra, Morgana che trasmette sonoramente il proprio respiro, stringendo i pugni ed evocando sforzo, Arianna che boxa, emette gridolini e chiude con linguacce, Beatrice che gioca a far scomparire le braccia nella felpa, i piedi di Aurora che trasmettono l’idea di poter essere sia tristi che felici, Ornella che chiede col proprio movimento di tagliare qualcosa del nostro ego, i cerchi disegnati coi fianchi da Kelly, le folate di vento immaginate da Fulvia affinché ci si lasci portare fuori dai propri corpi.
C’è poi chi immette una discontinuità, una cesura, chiedendo agli altri non di essere seguito, ma di immaginare un percorso in parallelo: Giulia che chiede a ognuno di muoversi immaginando la propria canzone preferita ballandola fortissimo, Simona che suggerisce a ciascuno di entrare in collegamento con lo spazio circostante, Maria Stella che propone a ognuno di immaginarsi come una Ferrari e “rombare” a modo proprio, o ancora Giulia (un’altra Giulia) che inquadra una parte del suo corpo, facendoci pensare più all’attesa che alla trasmissione, lasciando quell’istante di perplessità in cui si resta interdetti e che offre a Silvia l’appiglio per ricordare come sia importante accogliere anche ciò che all’inizio non si decodifica immediatamente e che comunque rappresenta occasione capace di schiudere un mondo. Perché bisogna osservare come cambia la percezione in presenza da uno all’altro: la fatica, la noia, l’entusiasmo sono tutte sensazioni che attraversano anche la messa in scena di Graces e che vengono rielaborate, anche improvvisando, “ascoltando” le reazioni del pubblico, accogliendole e creando punti di ripartenza. E quando si fa fatica a capire, si va avanti comunque, l’importante è “restare dentro” qualunque cosa si stia facendo in quel momento; perché se lo si fa, si sta di fatto producendo un dono che prescinde da chi sia l’interlocutore: che si tratti del pubblico, di una persona cara o di qualcuno con cui si lavora, in quell’istante del fare, c’è un valore che si trasmette, e c’è un destinatario che l’accoglie.
Una trasmissione da aprire anche all’esterno. Per fare ciò, anche oggi ci si lascia con un compito (da esperire e presentare domani), anche oggi si chiede a tutti di realizzare un video, sempre di una quindicina di secondi, in cui il concetto cardine consista proprio nel trasmettere qualcosa a qualcun altro: un movimento, un’azione, una danza. Riprendendo l’esito o il processo, purché ci sia la trasmissione.
Purché alla fine si possa dire, come in quel tempo in cui arrivavano le telefonate della gente in televisione, “complimenti per la trasmissione”.

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