“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 10 April 2021 00:00

E se questo non è amore: il pastore

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Ci sono mestieri che il tempo ha provato a cancellare, non riuscendoci, lavori duri le cui abilità si custodiscono e si tramandano da una generazione a quella successiva e a quella dopo ancora, sempre uguali o quasi, professioni il cui ritmo è scandito dai cicli delle stagioni e i cui giorni si regolano seguendo l’alternarsi naturale della luce e del buio.

Antiche professioni legate imprescindibilmente agli elementi: alla terra e al mare, all’acqua e al fuoco; denominatore comune la fatica, dura come la roccia, necessaria quanto l’aria da respirare. E di aria da respirare, in luoghi come questi, ce n’è da riempirsene i polmoni facendone scorta.
Proviamo a viaggiare lungo aspri sentieri poco battuti, scivolati fuori dalle rotte del grand tour (ma pure sempre più frequentati e richiesti da quel turismo che vuole riappropriarsi di un’autenticità perduta), e a incontrare chi in questi luoghi incantati continua a vivere, a perpetuare una tradizione plurigenerazionale, costantemente a rischio d’estinguersi, per essere soppiantata da una modernità iperproduttiva e votata a essere ultraconcorrenziale. “E se questo non è amore” potrebbe essere la frase che le accomuna tutte queste professioni senza tempo, strappate al tempo, che proseguono a dispetto del tempo.
“E se questo non è amore” è la frase che sentiamo pronunciare ad Antonio, quando scorge in lontananza le sue capre che l’aspettano affacciate alle “finestre” del casolare dove fa base per il suo lavoro. E sembra riconoscerlo anche un corvo da un albero lontano, visto che al nostro apparire lancia un grido stridulo che somiglia tanto a un richiamo codificato. Siamo ad Agerola, dal lato dal quale parte il Sentiero degli Dèi, che deve il suo nome alla leggenda secondo cui fu il cammino che le divinità percorsero in tutta fretta per raggiungere Ulisse e salvarlo dall’insidia del canto delle sirene. Ed è da lì che parte anche il nostro cammino, da questo paese arroccato a guardia della Costa d’Amalfi, porta d’ingresso all’incanto di panorami mozzafiato sospesi tra cielo e mare. Antonio è il nostro pastore che ci guida lungo il sentiero, col suo cane Venere e i suoi due muli, Limone e Limoncello, fino allo stazzo in cui lo aspettano le sue capre, come i figlioli aspettano un padre. E come un padre se ne prende cura.
È un ragazzone ben piantato, Antonio; ha poco più di trent’anni e possiede quell’innato senso dell’ospitalità delle persone genuine e la parlantina sciolta della gente sveglia. Ti tratta da subito come se ti conoscesse da sempre. E si racconta. Racconta del mestiere ereditato dal padre, dopo che da ragazzo era uscito dal paese per fare le prime esperienze lavorative in Costiera, cominciando poi fortuitamente a fare il pastore quando suo padre non poté più, così ritrovandosi erede di una tradizione, quasi suo malgrado, senza aver messo in preventivo che potesse diventare il suo avvenire, il suo rifugio dal mondo ma anche la sua prigione a cielo aperto.
Perché è un lavoro duro, fatto di giornate che cominciano quando il sole non è ancora sorto e che terminano quando la luce del giorno è tramontata in fondo al mare. Giornate che non conoscono soste né festività, fatte di accudimento degli animali, transumanze, pascolo, mungitura, all’occorrenza anche lavoro d’ostetricia – davanti a noi Antonio aiuta due caprette a partorire, occupandosi poi dell’accettazione dei nuovi nati da parte delle rispettive madri: “Se non lo riconosce subito, poi non lo vuole più” – e poi di nuovo pascolo, trasformazione delle materie prime in prodotti caseari e non solo.
Sono racconti dal sapore antico, quelli che ascoltiamo, impregnati di una saggezza atavica, tramandata e fatta propria: “Addò jett’ si’ jettat’!” ci dice riportando un principio non codificato ma ben radicato che è regola di vita: in pratica dove butti via ciò (o chi) credi non serva più, finirai per essere un giorno buttato anche tu. E sono racconti e principi che parlano la lingua franca della montagna, quella che udiamo risuonare come una sorta di richiamo della foresta nel momento in cui Antonio comunica con qualcuno che si trova a valle: riecheggiano in lontananza parole che non comprendiamo, in un dialetto stretto stretto che solo vagamente assomiglia al nostro, ma che accomuna i parlanti di questo spazio altro, fatto di fatica e immersione nella natura. Un linguaggio che è anche non verbale, sicché – ci racconta sempre Antonio – una tovaglia rossa stesa in bell’evidenza a monte poteva fungere da segnale per chi era a valle: voleva dire che c’era bisogno di braccia per zappare, richiamo colto e accolto da chi l’avesse scorto.
Il sentiero è impegnativo, soprattutto se non si ha dimestichezza con lo scarpinare lungo declivi e dislivelli, ma l’impegno ha la sua ricompensa nel panorama che si apre alla sinistra di chi s’incammina da Agerola in direzione Nocelle (ovvero Positano) lungo le falesie in frastagliato andamento, offrendo uno scorcio di Costiera tendente a infinito, con la vista di Praiano dall’alto e l’azzurro intenso d’un mare abbracciato dalla costa a distendersi verso la linea dell’orizzonte fino a confondersi. Nel mezzo, gli scogli di Li Galli – quelli dove, secondo la suddetta leggenda, s’annidarono le sirene che col loro canto ammaliarono Ulisse inducendo gli dèi a corrergli in soccorso – isolotti che furono, tra gli altri, di proprietà di Rudol’f Nureev che li elesse, sia pur per poco, suo buen retiro; in lontananza si scorge finanche Capri e, da uno scorcio dei faraglioni, al tramonto è possibile vedere il riverbero del sole che s’irraggia dipingendo il panorama dei colori del crepuscolo.
Su questo sfondo che conserva il panoramico incanto di una bellezza senza tempo, Antonio ogni giorno conduce il suo lavoro: d’estate e d’inverno, con la pioggia e sotto il sole, con cura amorevole e dedizione infaticabile. Cura e dedizione che da sole non è detto che bastino a rendere il lavoro autosufficiente, legato com’è a fattori variabili e non preventivabili; ed è per questo che Antonio s’ingegna, s’industria, prova a implementare la propria attività, per esempio – sin quando s’è potuto – fungendo da punto di riferimento in loco per tour operator e guide turistiche, offrendo la possibilità a gruppi di escursionisti di ristorarsi presso il suo casolare, godendo dei suoi prodotti e della sua ospitalità. E non solo, perché nei suoi progetti c’è anche quello di rendere ancora più “turistico” il proprio lavoro, mettendo il suo spazio a disposizione, in un futuro più o meno prossimo, anche di chi volesse soggiornarvi e pernottare.
La giornata con il nostro amico pastore (perché dopo due ore, ma forse già dopo due minuti, lo puoi solo considerare un amico) trascorre così, tra cielo e mare, a seguirlo nella sua attività, fino a che, con qualche escursionista che si ferma e qualche amico di Antonio che ci raggiunge dal paese, s’imbastisce un pranzo improvvisato (ma mica tanto) da consumare su una terrazza con vista sull’infinito; il vino scorre copioso (di acqua a tavola non v’è traccia, né ci si azzarda a chiederne), e quasi non t’accorgi che il sole ti sta abbrustolendo la capoccia fino a quando non avverti che al suo calore in picchiata s’è aggiunto quello etilico in ascesa e ti ritrovi preso tra due fuochi, uno esterno e uno interno, e vorresti solo poterti stendere sotto un albero a dormire il sonno dei giusti (e dei satolli).
Al contatto con la natura s’unisce quello umano, fatto di aneddoti e facezie, di cose semplici della vita d’ogni giorno che si connotano del colore della bonomia e della convivialità e s’apparecchiano del piacere della condivisione. Condivisione che abbraccia anche il lavoro del pastore, che prosegue per il resto del pomeriggio, andando a recuperare le capre lasciate al pascolo, per poi incamminarsi incontro al tramonto che segnerà la fine della giornata. Di una giornata. Alla quale seguiranno a ruota quelle successive, secondo il ritmo dei giorni e il ciclo delle stagioni, in un andamento circolare che è quello della natura. E degli uomini che con essa sono rimasti in contatto diretto. Come Antonio, che dalla sua prigione dorata, con vista sull’infinito t’accoglie e t’accomiata con un sorriso, che diventa anche il tuo, dopo che ti ha offerto una giornata strappata al tempo in un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato.
Si viene via che il sole è ormai calato, portandosi dietro la sensazione di un tempo ricevuto in dono.





N.B.: le foto a corredo sono di Peppe Petix

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