“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 28 January 2021 00:00

La periferia, i destini generali: “Delitto nella strada”

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L’invasione degli ultracorpi fu un fiasco. Stati Uniti, 1956. Sono gli anni della Guerra Fredda e dell’amministrazione di Dwight Eisenhower, del tentativo di mantenere l'impegno nazionale a contrastare la diffusione dell'influenza sovietica e della fine dell’isterismo maccartista.

La fantascienza verosimile del film di Don Siegel, con la sua morale squisitamente ambigua tra perversione anticomunista e disobbedienza anticapitalista, era inevitabile si traducesse in un fallimento: gli americani non poterono comprendere − e laddove poterono non vollero farlo – l’ampia ragnatela dei sottotesti simbolici del film e il sostanziale principio di ipostatizzazione compiuto attraverso la figura anfibia dell’alieno come (non) totalmente altro. Siegel, che come tutti gli americani è un uomo pratico che non si paralizza in vaghezze congetturali e postulati meditativi, si adopera a realizzare un secondo film a distanza di pochi mesi dal precedente. Per Delitto nella strada (1956), traduzione italiana dell’originale Crime in the Streets, il consenso di critica e pubblico sarà amplissimo sia negli Stati Uniti che in Europa.
Il film è derivato con una certa fedeltà da un teledramma di Reginald Rose – scrittore oggi dimenticato, ma ai suoi tempi piuttosto noto – adattato per la televisione da Sidney Lumet col titolo originale di Twelve Angry Men. Sono gli anni del realismo sociale: un realismo che non aggredisce e che talvolta sfuma nell’oleografia, ma è ad ogni modo un tentativo sincero di comprensione delle dinamiche sociali e delle relazioni tra miseria e delinquenza. Sono gli anni del cinema della rabbia giovanile: László Benedek con Il selvaggio (1953) e Nicholas Ray con Gioventù bruciata (1955). Ma se in quel cinema la collera si costituiva quale forma di marginalità esistenziale – soprattutto per James Dean – con derive inconsapevoli e mestamente capricciose, per Siegel il discorso riguardava l’identità sociale nell’era del capitalismo avanzato: insomma uno scontro fra una visione umanistica e classica della cultura contro una visione antropologica e moderna. Nel processo di rielaborazione del testo di Rose, Siegel mantiene alcuni degli attori dell’originale televisivo di Lumet: John Cassavetes, esaltato e ghignante, e Sal Mineo, che ottiene un Oscar per la sua recitazione nervosamente introflessa. Nei confronti del testo a cui si ispira, l’atteggiamento del regista è però contrastante: se da un lato condivide gli assunti culturali di Rose – la privazione degli affetti come esito della disgregazione familiare e della miseria, il disordine giovanile tra nichilismo e affrancamento sociale, l’integrazione impossibile degli immigrati neoamericani − dall’altro ha in sospetto l’arido manicheismo dei caratteri e delle tipizzazioni psicologiche (il cattivo dal cuore d’oro, il samaritano, il buon padre di famiglia, la madre affranta, l’amico vigliacco), il determinismo freddamente causale delle azioni progressive (la delazione, il piano d’omicidio, l’agguato, il pentimento).
L’insofferenza del regista, come i suoi continui scontri con Reginald Rose, lasciano una traccia evidente sulla pellicola, proprio perché egli non accetta l’eccessiva semplificazione di un realismo con troppo chiari intenti moraleggianti. L’istinto dell’eroe siegeliano prevale sempre sul senso comune: una sorta di psichismo barbaro, metastorico, ecumenico e – a suo modo – morale. In questo senso la sequenza finale del film, conciliatoria e banalmente stereotipata sugli onesti sentimenti americani, stride per effetto di una precipitosa risoluzione dei conflitti sociali e per uno scioglimento della vicenda distante dalle sequenze splendidamente tronche e insolute di Siegel, che, nonostante ciò, riassume con sensibilità d’analisi le dialettiche umane tra i suoi ribelli di strada e la malinconia di un personaggio centrale come Wagner, assistente sociale e padre sostitutivo, redento da un oscuro passato ma non ancora affrancato dal dolore di un male senza storia e senza ragioni che tutte le ragioni schiaccia e divora: il suo volto sconsolato, la sua stazza legnosa, la sua marginalità ai destini generali, di lui ogni cosa tramanda impotenza e disagio.
Col tempo, il valore di Delitto nella strada è stato ampiamente ridimensionato dalla critica e si è finito, per eccesso di zelo, a sottostimarne le qualità artistiche e il portato cinematografico. Il film di Siegel ha tempra nell’affrontare il tema del disagio giovanile di una classe economicamente miserabile (splendidamente fotografata in una triste e opprimente scenografia in cui il basso budget fa risaltare il senso della claustrofobia generale) che non ha nulla in comune con la media borghesia americana; in mezzo ai caseggiati fatiscenti di una periferia urbana si consuma un dramma – ed è un’interpretazione suggestiva che occorre tentare – che affonda le sue origini in un dilemma oscuramente psicanalitico di gelosie familiari e complessi edipici. L’esigenza, tipica del cinema americano liberal degli anni cinquanta, di dare un’interpretazione raziocinante dei conflitti interiori ha gioco nel sottrarre profondità reale al film che s’ingolfa proprio per un eccesso di parola a fronte di certi silenzi che avrebbero meglio suggerito le ragioni profonde delle cose. Notazioni marginali, comunque, che non ledono il valore di un lavoro irriducibile alla filologia del cinema americano degli anni Cinquanta.





Retrovisioni
Delitto nella strada
regia Don Siegel
soggetto e sceneggiatura Reginald Rose
con James Withmore, John Cassavetes, Sal Mineo, Mark Rydell, Virginia Gregg, Peter J. Votrian, Will Kuluva, Malcolm Atterbury, Denise Alexander, Dan Terranova, Peter Miller, Steve Rowland, Paul Bryar, Jimmy Ogg, Doyle Baker, Richard Curtis, Duke Mitchell, Syd Sailor, Ray Stricklyn, Paul Wallace
fotografia Sam Leavitt
montaggio Richard C. Meyer
musiche Franz Waxman
produttore Vincent M. Fennelly
casa di produzione Allied Artists Pictures, Lindbrook Productions
distribuzione Euro International Film
paese USA
lingua originale inglese
colore bianco e nero
anno 1956
durata 91 min.

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