“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 14 May 2013 07:18

A Gabriella Ferri, un omaggio garbato

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Icona e anti-diva, emblema di romanità, voce calda e graffiante: Gabriella Ferri è uno di quei personaggi che in un ideale immaginario culturale si ritagliano un posto speciale nei cuori della gente. La si celebra non con l’elegia d’un rituale agiografico, ma con un garbo ed una misura che dal palco alla platea trasmettono la cura amorevole con cui di una figura cara si mantiene lustra la memoria.

E in quella memoria c’è aria di famiglia, c’è l’atmosfera d’un quartiere, Testaccio, suggerita con aria di contiguità, in cui si respira l’atmosfera d’un dopoguerra fatto di povertà e gente genuina, di fame e d’allegria indomita, di scarpe con la para e i ferretti con cui tuttavia correre a perdifiato e stoffe grossolane con cui tuttavia giocare a far le regine: così due sorelle attraversavano i giorni fra giochi e monellerie. Una delle due ed un oste, scalzi testimoni del tempo, s’imprestano sulla scena ad officiar memoria; l’altra, Gabriella, da un po’ di anni ha lasciato un vuoto laddove vibravano una voce e un’anima.
Drappi bianchi in trasparenza ricreano sul palco il diaframma del tempo, dietro il quale una vecchia radio, poggiata su di un tavolo con un vaso di fiori, modula le prime note, regesto della voce di Gabriella.
La famiglia, la vita, i sogni, le speranze; un padre ambulante che per lei s’improvviserà paroliere, un lavoro in una boutique del centro per sbarcare il lunario e, per accidente, Gabriella entra in contatto col mondo dell’arte e dello spettacolo. E mentre piango rido punteggia gli attimi salienti della vita di un’artista che ha saputo incarnare la visceralità più autentica dell’anima romana popolare.
Non c’è un santino da riverire, non c’è una cronistoria minuziosa da ricostruire, c’è soprattutto la celebrazione pacata di un’essenza, c’è soprattutto il senso profondo di un’anima autentica baciata dal talento e dalla pena che sovente al talento s’accompagna, travestendosi da malattia dell’esistere. Si procede per frammenti, per brandelli e passaggi significativi: l’avventura milanese, a cantar gli stornelli romani con Luisa De Sanctis (la figlia di Giuseppe, il regista – fra gli altri – di Riso amaro); la carriera solista, un primo album che vende un milione e settecentomila copie; eppoi il Sudamerica, dove furoreggia, fino ad arrivare a Sanremo, in coppia con Stevie Wonder, arrivando incredibilmente ultima, piazzamento poi smentito (com’è spesso accaduto dopo il Festival), dal successo di vendite.
Sulla scena, una voce di famiglia, quella che per interposta persona fa parlare la sorella Maria Teresa, ed una voce popolare, d’una figura tipica, quella dell’oste: Alice Tudino e Carlo Bisconti, maieuti della memoria, fan da corona ad immagini di repertorio che impressionano le tele bianche: estratti televisivi griffati Teche RAI istoriano momenti e dettagli, frammenti significativi della storia di un’artista che si racconta, la voce, quella voce così forte nell’atto di dispiegarsi a canzone, leggero soffio nel raccontare quasi con pudore, persino scusandosi, l’essenza intima del proprio sentire: “Vi chiedo scusa se sono eccessiva”, flauta in un soffio che si mischia al tinnire dei suoi ninnoli durante un’intervista televisiva.
Fino ad arrivare – e non poteva essere altrimenti – a Dove sta Zazà, evocato con una bombetta sul palco, che progressivamente lo occuperà solitaria, un mazzo di fiori soltanto a farle contorno, la voce di Gabriella Ferri a completare l’evocazione; gli attori in scena, i maieuti del tempo, si trasformano progressivamente in coreografia d’accompagno, fino a scomparire, lasciando simbolicamente il proscenio a Gabriella, che si prende la serata, una serata ch’è già sua quando le campane rintoccano a morto; che rimane sua quando delle campane s'è spenta l'eco.
Garofani offerti alla platea: Gabriella, per interposta persona ringrazia dell’applauso che ne celebra la memoria tributando merito a chi, con garbo e misura e con delicatezza amorevole ha saputo celebrarla.

 

 

 

E mentre piango rido (omaggio a Gabriella Ferri)
regia
Gianni Tudino
con
Alice Tudino, Carlo Bisconti
produzione Teatro KappaO
costumi
Patrizia Lombardi
disegno luci e montaggio video Antonio Colaruotolo
grafica Lorenzo De Luca
trucco Myriam Pagnotta
lingua italiano e romanesco
durata 55’
Napoli, Teatro Sala Ichòs, 11 maggio 2013
in scena dal 10 al 12 maggio 2013

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