“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 11 May 2013 11:41

Il Teatro: questa vita, questa prigione

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L’elemento di scena che contraddistingue davvero Eleonora: ultima notte a Pittsburgh non è lo scrittoio, di legno sbiadito e contenente vecchie carte, vecchi libri, vecchie penne; non è il letto, distesa di lenzuola sul fondo che racconta con le grinze gli incubi, i pensieri terribili, gli affanni notturni; non è il cumulo di valigie di lato, coperto dalla polvere e recante all’interno cappelli e vesti di scena (che sono l’unica vivacità colorata, l’unica testimonianza che esistono ancora il lilla, il granata, il celeste); non è la poltrona posta nel centro, quasi in ribalta, su cui Eleonora s’adagia piegandosi tra cuscini e pizzi e cordoni da vecchia sartoria manuale. L’elemento di scena che dà, alla scena, l’intero tono dell’opera è il drappo che pende, dall’alto a sinistra, e che – in apertura del sipario del Teatro Nuovo – è un leggerissimo velo di tulle o cotone che tutto ricopre e che viene tirato: un secondo sipario dunque che, trascinato dal davanti sul fondo, sparisce senza mai sparire davvero.

Il drappo fa di questa stanza d’albergo di Pittsburgh, in cui Eleonora Duse sta per sfiorire, un teatro. Il drappo fa di questa vita da commediante girovaga, che Eleonora Duse sta per ricordare, un teatro. Il drappo fa della confessione, in cui Eleonora Duse si spossa prima di retrocedere per sempre nel buio, un teatro. Il drappo – simbolo fisso che domina immobile e che impone la propria presenza ossessiva – è il Teatro poiché è il Teatro che domina immobile e che impone la propria presenza ossessiva a questo fragile uccelletto (fortissimo) costretto, fin dal suo primo pigolo, a battere le ali ad un pubblico.
“Io non ho visto altro che camere d’albergo e camerini di teatro: quanti tramonti di sole persi perché bisogna andare a teatro”. In questa frase, rubata nel mezzo, il senso di una formula che s’adatta alla Duse ma che s’adatta a tutti coloro che prostrano davvero la loro esistenza a quest’Arte benigna che infetta, ammala ed intossica: il Teatro è la vita, il Teatro è una prigione, la vita è una prigione. Corollario: la vita è imprigionata nel Teatro, la prigione della vita è nel Teatro, il Teatro è una vita in prigione.
“Papà, ma non avevi capito tu che la vita io l’ho sempre guardata con l’occhio di chi aveva motivo di odiarla sin da piccina? Nelle notti d’inverno, nel carrozzone che ci sballottolava da un paese all’altro, con cosa credi mi riscaldassi, con la tua sacra fiamma da guitto?”.
La nascita in ostello o su un treno, l’urna per culla, l’erranza sbandata. Il randagismo felino che la porta ad accucciarsi dovunque e, dovunque, a fissare i genitori – mediocri mestieranti da palco – che fingono le loro scenette modeste. Le prime percosse per piangere. Le prime maschere. I primi belletti, i primi trucchi, le prime riverniciature alle guance. I primi ruoli, i primi inganni, le prime cessioni della propria esistenza all’esistenza dei personaggi inventati dai poeti. “Io fui Giulietta” sembra di percepire nell’aria: “Io fui Giulietta, una domenica di maggio, nell’immensa Arena, nell’anfiteatro antico, sotto il cielo aperto, dinnanzi a una moltitudine di popolani che avevano respirato nella leggenda di amore e di morte”. “Io fui Giulietta e la mia immaginazione era sconvolta da una strana congiuntura: compivo quel giorno quattordici anni, l’età di Giulietta!”. “Io fui Giulietta e quando udii Romeo dire ‘Ah, ella insegna alle torce ardere’ veramente io mi accesi, mi feci di fiamma”.
“Io fui Giulietta” è la formula dell’identificazione assoluta, la testimonianza che certifica la mancanza di spazio e di ossigeno e luce tra ciò che appartiene al reale e ciò che appartiene alla scena per cui, se tutto il reale è una scena, la scena è l’unico reale possibile.
Da una lettera che la Duse scrisse nel 1892 a Hermann Sudermann, in occasione del debutto di Casa paterna: “La vostra Magda ha lavorato dieci anni. Chi vi scrive lavora da venti anni. La differenza è enorme se si calcola che si tratta di una donna, e di una donna la quale – al contrario di Magda – conta i giorni per andarsene dal teatro. Magda ha avuto diciassette anni a casa sua. Chi vi scrive, niente di questo. A dodici anni le han messo delle gonnelle lunghe e le han detto: bisogna recitare”.
Dallo spettacolo appena veduto, nel momento in cui si ricorda il telegramma che arriva e che annuncia la morte paterna mentr’ella – nella Pietroburgo lucente di neve – interpreta Nora, interpreta Casa di bambola: “Io sono Nora, io sono Nora… il padre di un’altra è morta, non il mio: io sono Nora. Non pensare a tuo padre, imbecille! Pensa a Nora che deve concludere la sua scena. Io sono Nora”.
“Io fui Giulietta”, “Io sono Nora” ed Emilia, Bianca, Silvana, Francesca, Pia, Caterina, Tisbe ed Elisa, Maria, Agnese, Anna, Marcella, Edda, Ellida, Helene, Lidia, Odette, Foscarina – ed altre ed altre ed altre – finendo per non essere mai completamente se stessa ma una parte di sé fusa alle mille parti di altre: “Io credo di aver recitato sempre lo stesso personaggio…  ‘recitare’, che brutta parola…”.
La Duse di Scaparro – questa Duse che riflette e che mormora, che spasima e affanna, che si entusiasma e si stanca, che si piega silente per un attimo per poi recitare nella recita le parti recitate in altre recite – finisce per essere fisicamente il Teatro perché fisicamente è il Teatro questo fragile uccelletto (fortissimo) che risponde al nome di Anna Maria Guarnieri: nelle vene dei polsi, nelle pieghe del viso, nei capelli raccolti; nelle piccole spalle coperte, nei passi morbidi e zitti, nei fremiti vissuti e placati; nei respiri, nei battiti, nelle pause tra parole e parole Anna Maria Guarnieri è Eleonora Duse; Eleonora Duse è Nora, Giulietta e le altre; Nora, Giulietta è le altre sono il Teatro e – quindi – Anna Maria Guarnieri è il Teatro: è il Teatro delle baracche e dei carri, delle casse e dei sacchi, delle panche e dei ninnoli; è il Teatro dell’acetone, delle candele, delle lampade; è il Teatro degli stracci, dei fondi di cartapesta, delle tele pittate. Anna Maria Guarnieri è la Duse che possedette il Teatro tanto quanto è il Teatro che possedette la Duse: è la calma delle prove e la stanchezza dei viaggi; l’emozione della prima e la noia della replica; il fremito dell’applauso e la paura del pubblico; è la parte interpretata piangendo ed è la parte che si piange perché non è stata più interpretata.
Anna Maria Guarnieri è la Duse ma questa Duse è il Teatro per cui Eleonora: ultima notte a Pittsburgh (il cui testo è un insieme di citazioni in formato di trama che – partendo dal  brandello di una lettera: “Grande il mare, grande il cielo, grande New York, grande speranza, grande affanno” – mette in forma autobiografica la storia della Duse: gli amori subiti e sedotti, i figli perduti e lasciati, le prime parti in commedia, i grandi ruoli, i trionfi frequenti, le sconfitte che restano e Cafiero, D’Annunzio, la Serao, la gamba mancante della Bernhardt, la lontananza inevitabile da Enrichetta) piuttosto che “un percorso nel mito” della “più grande attrice del suo tempo” ed “un omaggio ad una donna straordinaria” (dalla cartella-stampa) è – per chi scrive – un’ode al Teatro, a quest’effimero che non passa ma che – anzi – si torce addosso, s’adatta e si accumula fino a vestire del tutto chi, per un attimo, ha ceduto alla sua foggia illusoria.
Una gioia, il Teatro, ed un tormento. Un diletto, il Teatro, ed un affanno. Un incanto, il Teatro, ed un imbroglio. Un piacere e uno strazio, un desiderio e un obbligo, un bisogno e un travaglio, un diletto e un martirio. Come il sole e l’assenza del sole, come l’aria e l’assenza dell’aria. Come la vita quando è vita e prigione, come la prigione quando è prigione ed è vita.
Il Teatro: questa vita, questa prigione.

 

 

 


Eleonora: ultima notte a Pittsburgh
di Ghigo de Chiara
regia Maurizio Scaparro
con Anna Maria Guarnieri
musiche a cura di Simonpietro Cussino
scena di Barbara Petrecca
luci Gino Potini
costumi a cura di Sartoria Teatrale Farani
assistente alle regia Alice Guidi
assistente di produzione Vincenzo Albano
foto di scena Andrea Messana
produzione Teatro della Pergola
durata 60'
Napoli, Teatro Nuovo, 10 maggio 2013
in scena il 10 maggio 2013 (data unica)

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