“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 11 May 2013 06:30

"Perché non vi siete ribellati alla morte?"

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La pizza fritta della signora Fernanda concilia l’animo e lo prepara alla visione. Il tripudio dei cicoli, del pepe e della ricotta miracolosamente avvolti nel loro dorato involucro di pasta, sono il viatico migliore per affrontare un lungo viaggio, anche nel deserto.
Mentre prendiamo posto Omar Suleiman è già in scena, sdraiato per terra su un fianco, e in mezzo al nostro rumore nel prendere posto risuona distinto un suono, un battito si direbbe, il battito di un cuore, sempre più forte.

 

Buio. Poi luce su di lui, fredda. Il battito si fa sempre più forte. “Sono i battiti di un cuore stanco”.
Abu Khaisa (Omar Suleiman) è palestinese, vorrebbe fare fortuna, in Kuwait. Vorrebbe attraversare lo Shatt, lo Shatt al-'Arab: “Al di là dello Shatt ci sono tutte le cose di cui sono stato privato”.
Ma ci vogliono i soldi per passare, bisogna affidarsi ai contrabbandieri, bisogna mettere la propria vita nelle mani di qualcuno che traffica in esseri umani, che specula sulla disperazione, che diventa ricco grazie al dolore altrui. Forse per questo Abu Khaisa non è ancora partito, è riflessivo, è pacato, senza età, già vecchio della saggezza di chi ha sulle spalle il portato di secoli. Poi però arriva il giorno in cui decide di partire. Ci sono altri con lui, un ragazzetto spaurito, con la pettinatura da cantante pop, grandi occhi sperduti, un’ingenuità disarmante e il desiderio di andare in Kuwait, a fare i soldi, a raggiungere il fratello, ad aiutare la sua famiglia. E c’è uno spilungone magro, con una folta chioma riccia, un po’ arruffata. Ingenuo anche lui, disperato anche lui, ricercato, sfuggito al deserto in Giordania. Crede di essere esperto, si sente uomo, crede di poter trattare a nome degli altri, ma in fondo anche lui in balìa del destino. E c’è il loro trasportatore, il loro Caronte, colui che li traghetterà oltre lo Shatt, forse. Non sappiamo perché lo fa, per soldi, sicuramente, ma sembra un po’ diverso dagli altri contrabbandieri, sembra un vagabondo anche lui, sembra avere qualche altra storia dietro, ma non lo sapremo mai, in fondo lui è solo un nocchiero in questa storia. Il veicolo che attraverserà il mare di sabbia o le piste battute è un camion, un camion cisterna, provvidenzialmente (?!) vuoto e pronto ad accogliere i tre improbabili cacciatori di fortuna. Il camion è un cubo di ferro a gradini, sopra c’è una manovella che apre la botola. Si sale da dietro, con una scaletta di ferro. Semplice ed efficace. Così come semplice ed efficace sembra il piano: in prossimità della frontiera i “passeggeri” entreranno nella cisterna, giusto il tempo di far firmare le scartoffie, e usciranno dopo il passaggio, in tutto “sette minuti. Giusto il tempo per non morire” (arrostiti nella cisterna arroventata dal sole del deserto).
Semplice ed efficace ancora il movimento scenico per il viaggio: due seduti, a traballare alla guida, due sdraiati sul camion a traballare ritmicamente al suono della musica. Semplice espediente scenico, eppure in quelle note, nello stridere delle corde del violino, nella voce nasale e vibrante, c’è tutto il viaggio e si materializza la polvere, la luce giallastra, gli odori, il fondo stradale diseguale. C’è tutto in quei pochi secondi, forse un minuto, di musica e sobbalzo.
Il finale non ve lo svelo, o almeno non così esplicitamente...
L’autista ha una lampada in mano, con dentro una candela e continua a ripetere ipnoticamente “Perché non vi siete ribellati alla morte? Perché non avete battuto forte alle pareti della cisterna?”. Poi ricomincia il battito del cuore. Buio. Applausi intensi.
Dedicato a tutti quelli che ci hanno provato, a tutti quelli che hanno seguito un sogno fino alla fine, a tutti quelli che hanno avuto coraggio. O magari disperazione.
Un bel lavoro. Asciutto, forse asciugato dal sole, dalla polvere, dalla sabbia. La storia è tratta da un racconto, Uomini sotto il sole, di Gassan Kanafani, ucciso nel 1972 dal Mossad. Una messinscena essenziale ed efficace, lontana dalla retorica e dalle parole d’ordine. Basta la presenza dell’esule, la sua sostanza di corpo e voce, così in contrasto, forse, con l’acerba recitazione dei giovani, che hanno la ventura forse di non avere tanto sofferto da sentire nella carne e nell’animo la disperazione. Ma forse questo possiamo considerarlo un pregio o comunque un momento di possibile evoluzione di uno spettacolo che ha la forza per crescere e raccontare una storia, una delle tante storie possibili e lasciare a tutti noi una domanda che è presa di responsabilità.

 

 

 

Sette minuti
scritto e diretto da
Luisa Guarro
liberamente ispirato a Uomini sotto il sole
di Gassan Kanafani
con Emilio Marchese, Ettore Nigro, Omar Suleiman, Ivano Russo, Rosario Giglio
disegno luci Paco Summonte
tecnico del suono Alessandro Messina
produzione Osservatorio Palestina
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Sala Assoli, 9 maggio 2013
in scena dal 9 al 12 maggio

 

 

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