“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 02 August 2020 00:00

Kilowatt 2020. Esserci o non esserci, oggi, ora?

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“Céline ci dice che la notte va attraversata tutta, vissuta nella sua pienezza, perché stando a contatto con la paura che porta con sé tocchiamo le corde più profonde di noi stessi... afferma che la notte c’è, e che conviene farci i conti. Non è proprio un pensiero allegro da diffondere in un festival estivo, però l’arte deve avere il coraggio di portarci le notizie meno buone, sennò a che serve?”.

Già, a che serve? Rileggo le parole con le quali Luca Ricci e Lucia Franchi presentano la XVIII edizione del Kilowatt Festival: un viaggio al termine della notte. Notte come fondo o come fine; notte come la buia incertezza nella quale ci siamo, inaspettatamente e traumaticamente, ritrovati tutti e che ancora, seppur con l’autoconforto di un oramai insipido “andrà tutto bene”, stiamo attraversando.
In questa notte a cosa serve l’arte? A cosa serve il teatro? A cosa serve il nostro essere qui ad assistervi e a raccontarlo? Me lo chiedo dal primo momento in cui metto piede a Sansepolcro perché, prima, la stagione dei festival teatrali era una rassegna, una vetrina di debutti, un momento di collaudo per i lavori appena nati; una catena di incontri e confronti, di convivialità anche... prima. Ma ora, oggi, in questo strano 2020 cosa può/deve essere un festival?
Un viaggio al termine della notte. In un luogo notturno ci attende Simone Perinelli per il suo Baccanti - Βάκχαι  da Euripide. Il luogo del mito e della tragedia, uno spazio ancestrale dove le origini di dèi e uomini si confondono, dove il tempo si confonde, come risucchiato dalle costellazioni. Spazio eterno e insieme contingente, sembra suggerirci la poetica scenografia: una panchina sormontata da un grande ramo fiorito, vivo in sempre diverse luminescenze; un intermediario tra la terra e quel cielo del fondale che, nel finale, assorbe e poi restituisce in fasci sottili uno sciame di punti luminosi, la Via Lattea. Perinelli è Dioniso o, meglio, è i frammenti di un’essenza dionisiaca che si racconta nei panni di un clochard, di un funambolo dal viso coperto di cera bianca, che ha anche un po’ del Cappellaio Matto e procede in bilico sui gesti e le parole. Il dio, il coro, Tiresia, Penteo e poi Agave e Cadmo prendono possesso del suo corpo e della sua voce, così come le maschere raccolte dal ramo assorbono le espressioni del suo volto. La tragedia si dà, allora, in un rituale incalzante, in un alternarsi forsennato di quadri visivi e atmosfere acustiche.   
Ma l’equilibrio di questo baccanale performativo, la sintesi nell’inebriata offerta di voci, suoni, di danze tribali su sonorità techno, di gestualità, fa fatica a comporsi. Il tanto implode, la complessa operazione drammaturgica non sembra trovare una quadra e lo stesso performer, pur tecnicamente prestante, pare però lontano, scisso dal suo stesso lavoro.
Lontano resta il mito, relegato nello spazio astrale. Cosa ci dice questa notte?              
La tecnica, l’estetica della performance, hanno senso – ancor più oggi, ora – di per sé?
Osservo le linee perfette pensate da Lucrezia C. Gabrieli per Stretching One’s Arms Again e disegnate dal suo corpo, in scena insieme a quello di Sofia Magnani. La suggestione pittorica di Untitled (Blu, Yellow, Green on Red) di Mark Rothko si trasferisce nei colori vivaci di cui sono vestite le danzatrici e si declina in un codice coreografico che, come un canone, le vede scambiarsi passi e sequenze. In sospensione. Sospesi i loro sguardi rivolti verso il pubblico, abilmente sospeso il loro muoversi nello spazio bianco, etereo, sulle punte; sospese le note di Serenade di Wolfgang Amadeus Mozart inghiottite da un silenzio che porta con sé un lontano fruscio.              
Perfetto e ineccepibile è questo dispositivo che “desidera coinvolgere lo spettatore in un’esperienza visuale di astrazione dalla realtà”. Dalla realtà veniamo astratti, ma poi? Cosa rimane con noi? L’intento drammaturgico di “esplorare l’equilibrio, la vicinanza... il bisogno di scambio, la complicità, l’incomunicabilità” resta, anche qui, interdetto tra le variazioni di un affascinate esercizio di stile.
L’arte coreutica, in assenza di una parola che possa dirla, lascia custodito sotto tra le fibre muscolari delle interpreti il suo messaggio.               
Che poi, è davvero la parola costruita in sintassi logica a essere necessaria? Oppure oggi, ora, un corpo – quello stesso che dobbiamo monitorare, controllare, distanziare – può, da solo, dire? Me lo chiedo mentre seguo la parabola del gesto di Giselda Ranieri nel suo T.I.N.A (There Is No Alternative), una produzione Aldes che condensa in trenta minuti di performance tutta la pregnanza comunicativa del teatro-danza di cui la compagnia è dal 1993 un magistrale esempio in Italia.   
Indefiniti suoni gutturali, poi sillabe sparse, poi frammenti di parole che si compongono in un dialogo che stanzia sul confine tra reale e visionario; un parlare tra sé e sé o, piuttosto, tra i vari sé di una personalità stretta tra urgenze comunicative e necessità di silenzio, tra relazione e isolamento. Stretta tra le tante alternative che il presente ci offre. Il famoso acronimo coniato da Margaret Thatcher si presta, ribaltato nel senso, a raccontare la miriade di possibilità tra le quali ogni giorno possiamo – o forse dobbiamo? – scegliere, un’overloading opprimente che grammo dopo grammo, chilo dopo chilo, tonnellata dopo tonnellata – quel linguaggio strozzato che si accumula progressivamente –, si fa massa insostenibile che schiaccia il nostro agire fino alla paralisi. È l’ansia. Dalla paralisi scaturisce la danza della Ranieri, il suo occupare lo spazio con un corpo che via via si ribella ai gesti scattosi, ai tic, alla stessa parola, per dire con le sue fibre quell’ansia, quell’oppressione, quella mancanza di fiato.            
Un lavoro del 2017 che confonde abilmente ironia e drammaticità nel raccontare una condizione che, a vari livelli, parla del nostro presente. Un recupero sì, ma intelligente, efficace, sensato che oggi, ora, ha ancora qualcosa da dire. Non serve forse a questo l’arte? Non è forse il suo farsi altro dalla realtà ma, allo stesso tempo, il suo contenerla che la rende viva e vicina?
Vicinanza. È un’offerta di prossimità quella di Andrea Cosentino che ascolto parlare di fisica quantistica, tempo e ricordi, accompagnandosi alla musica del maestro Fabrizio De Rossi Re. Rimbambimenti. Dalla fisica quantistica al morbo di Alzheimer è un primissimo studio di un progetto che, nel personaggio di un fisico malato di Alzheimer, innesca un cortocircuito tra la nozione scientifica del tempo e quella labile e sfuggente di chi vede svuotarsi progressivamente i cassetti della memoria. Un lavoro che certamente paga il prezzo di un periodo limitato di prove e (peccato davvero) di un’acustica non ottimale. E tuttavia il tono ironico e placidamente sardonico di Cosentino, le virate intimistiche quasi casuali, lasciano trapelare comunque quell’offerta di vicinanza, veicolata dalle eloquenti melodie suonate al pianoforte dal maestro che sanno dire il ricordo che sfuma, la memoria che gira a vuoto.
Vicinanza. Si offre senza alcun filtro Christian Di Domenico nei panni di un moderno Ercole in Eracle, l’invisibile di Teatro dei Borgia, seconda tappa di un progetto, Il trasporto dei miti, che dell’icona mitica cerca un corrispettivo urbano, metropolitano nel presente (su Medea e Filottete gli altri due lavori). Qui allora è la realtà che precipita con irruenza nel teatro. La realtà di un uomo che, prova dopo prova, costruisce vita, carriera, famiglia ma che poi, come se il destino riavvolgesse il proprio nastro, vede tutto frantumarsi contro un evento imprevisto. Come può un brav’uomo con affetti stabili, realizzato, diventare un divorziato, un disoccupato, un barbone... un omicida e (tentato) suicida? In quello che inizia come il raccontino della biografia di un uomo medio, il dramma dei nuovi poveri che cadono in miseria a causa del divorzio e di una legislazione incapace di tutelarli. 
Nessun effetto scenico mozzafiato, nessuna complessa acrobazia drammaturgica, nessuna pretesa di un senso che vada oltre la superficie. Ma sono le superfici a entrare in contatto e la semplicità narrativa del testo di Fabrizio Sinisi, la naturalezza quasi ingenua e un po’ impacciata dell’interpretazione di Christian Di Domenico, la spontaneità degli scambi con il pubblico, consegnano senza mediazione la sincerità e l’urgenza di un intento artistico che individua nel reale il proprio materiale di lavoro per farsi portatore di un’altrettanto esplicita urgenza sociale e umana. 
La realtà che si fa iper-realtà sulla scena. Può essere, questo, il modo in cui il teatro può rispondere al trauma, oggi, ora?
Realtà e iper-realtà. Si fatica a definire il confine che le separa in C’est la vie della compagnia francese Collectif Zirlib, scritto e diretto da Mohamed El Khatib, il quale catapulta sulla scena Fanny Catel e Daniel Kenigsberg con la loro tragedia personale, quella suprema, che non trova neppure un lemma a definirla: la perdita di un figlio. Il dolore acerrimo del lutto, raccontato con la mediazione di supporti video (Milo Rau docet), stride con la presenza fisica degli interpreti che sembrano alter ego delle loro immagini addolorate sullo schermo: questa giovane donna minuta dal sorriso che più osservo, più mi pare di plastica, questo omone che sembra prenderci un po’ in giro; e poi la leggerezza del loro dialogo informale e l’opuscolo consegnatoci a inizio spettacolo, dal quale, dietro suggerimento dello schermo posto al centro del palco vuoto, leggiamo frammenti della realtà – mail, messaggi – che ha fatto da prologo alla nascita del lavoro.        
Questa ironica mediazione, certamente voluta, piuttosto che amplificare il sentire mette un filtro tra noi e quel dolore che aspira a mostrarsi nudo ed evidente. E viene da chiedersi il perché di ciò che si è visto e sentito. Perché elaborare il trauma più crudele con quello specifico impianto drammatico e scenico. Cosa ha spinto l’autore e gli attori a essere lì, in quel modo?      
Essere lì. Passando da uno spettacolo all’altro, al ritmo – forse troppo – incalzante del festival ho continuato a chiedermi perché noi stessi fossimo – di nuovo –  lì, se quel nostro starci fosse cambiato di segno, se non sia necessario che cambi di segno.            
Non è su questo che dovremmo interrogare l’arte e noi stessi? Non è su questo che dovremmo cercare terreno di confronto?
Il confronto a Kilowatt si è svolto nel segno di Roberto Latini, “padrino” del festival, che ha puntellato le prime tre giornate con le letture di brillanti testi dei giovani allievi del Corso di perfezionamento per dramaturg internazionale della Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro della Fondazione ERT, e intorno al quale ha ruotato la conferenza La tradizione dell’innovazione. Una due-giorni di interventi – infuocato quello di Rezza/Mastrella, poi Andrea Porcheddu, Elena Di Gioia, Massimo Marino, Antonio Audino, Paolo Aniello, Clarissa Veronico, Elena Bucci, Claudio Longhi sul percorso fulminante di un artista e di una compagnia che certamente stanno lasciando una traccia indelebile nella storia del linguaggio teatrale e performativo.     
E tuttavia, la celebrazione collettiva di un percorso artistico cosa può dirci oggi, ora? Dopo lo strappo, dopo il trauma, può davvero essere utile per “attraversare la notte”? Lo spazio concesso all’arte non dovrebbe accompagnarsi a una problematizzazione delle istanze di realtà che quella stessa arte fa emergere? Tanto più in un tempo incerto, instabile, “notturno”?      
Certo, a illuminare questa notte può esserci la bellezza. Non la pura estetica ma quella che interroga, smuove, sposta. E allora sì, nell’assistere ad Amleto + Die Fortinbrasmachine di Fortebraccio, oggi, ora, ho trovato una risposta. Certo, la maestria della costruzione drammaturgica e dell’interpretazione, certo, l’imponenza geniale della scena e la malia delle atmosfere sonore ma, soprattutto, la rilettura di una rilettura (Müller che rilegge Shakespeare) di un testo che già all’origine fa proprio del dubbio dell’essere qui e ora, del “problema", della “questione” il proprio assunto fondante – problematizzazione al cubo – ha inspessito il nostro essere insieme, ancora, nel trauma, ad assistere al rito della scena. Per sentirci chiamati in causa, “costretti” ad ascoltare/ci, a dare a quel rito un senso che aderisca davvero alle nostre esistenze. E questo, nell’incontro, nel contatto.   
Incontro. Contatto. Quali vie per renderli ancora veri, intimi?              
La catena di domande mi conduce a Carta Carbone, la “mostra sonora a doppio percorso drammaturgico” realizzata da Roberto Latini, Gianluca Misiti e Max Mugnai.
Una cabina, delle cuffie e un microfono, un tête-à-tête tra la propria voce che si lascia guidare da quella di un altro nell’attraversare parole prive ormai di dimensione temporale, che – me ne accorgo mentre le pronuncio – ci parlano ancora, oggi, ora, con straordinaria efficacia.

Essere o non essere, questo è il problema.
Se sia più nobile sopportare
le percosse e le ingiurie di una sorte atroce,
oppure prendere le armi contro un mare di guai
e, combattendo, annientarli.
Morire, dormire.
Niente altro.
E dire che col sonno mettiamo fine
al dolore del cuore e ai mille colpi
che la natura della carne ha ereditato
È un epilogo da desiderarsi devotamente.
Morire, dormire.
Dormire, forse sognare: ah, c’é l’ostacolo,
perché in quel sogno di morte
il pensiero dei sogni che possano venire,
quando ci saremo staccati dal tumulto della vita,
ci rende esitanti.
Altrimenti chi sopporterebbe le frustate e lo scherno del tempo
le ingiurie degli oppressori, le insolenze dei superbi,
le ferite dell’amore disprezzato,
le lungaggini della legge, l’arroganza dei burocrati
e i calci che i giusti e i mansueti
ricevono dagli indegni.
Qualora si potesse far stornare il conto con un semplice pugnale,
chi vorrebbe portare dei pesi
per gemere e sudare
sotto il carico di una vita logorante
se la paura di qualche cosa dopo la morte,
il paese inesplorato dal quale nessun viandante ritorna,
non frenasse la nostra volontà,
facendoci preferire i mali che sopportiamo
ad altri che non conosciamo?
Così la coscienza ci fa tutti vili
e così il colore innato della risolutezza,
lo si rovina con una squallida gettata di pensiero
e le imprese d’alto grado e il momento,
proprio per questo, cambiano il loro corso
e perdono persino il loro nome di azioni.

Poi una poltrona, la musica, e la restituzione di quell’incontro tra voci.
Ecco, forse lì, in un contatto inaspettatamente intimo con un altro che, pur nella bellezza, ti incalza con il dubbio, che domanda, che pungola il discernimento, un concentrato di ciò che oggi, ora potrebbe essere l’arte.





Kilowatt Festival
Sansepolcro (AR), dal 20 al 26 luglio 2020


Baccanti - Βάκχαι
ideazione, regia e interpretazione
Simone Perinelli
consulenza artistica, aiuto regia e organizzazione Isabella Rotolo
coproduzione Teatro del Carretto, Teatro della Tosse
luci Fabio Giommarelli
suono Hubert Westkemper
musiche originali Camera
scene Francesco Givone
costumi Laura Bartelloni – Labàrt Design
foto di scena Manuela Giusto
con il sostegno di Officine Papage, Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt)
lingua italiano
durata 1h 10’
Sansepolcro (AR), Chiostro San Francesco, 20 luglio 2020
in scena 20 luglio 2020 (data unica)


Stretching One’s Arms Again
coreografia e interpretazione
Lucrezia C. Gabrieli
e con Sofia Magnani
suono Giacomo Calli, Giacomo Ceschi
su musiche di Wolfgang Amadeus Mozart, Iona Brown
foto di scena Elisa Nocentini
produzione Anghiari Dance Hub, Versiliadanza
co-produzione CID Centro Internazionale della Danza
con il sostegno di Associazione Sosta Palmizi
in collaborazione con Fondazione Teatro Comunale di Vicenza
si ringraziano Auditorium Ballet, Associazione RicercArti
durata 40’
Sansepolcro (AR), Giardino Misericordia, 21 luglio 2020
in scena 21 luglio 2020 (data unica)


T.I.N.A. – There Is No Alternative
coreografia e interpretazione
Giselda Ranieri
collaborazione artistica Sandro Mabellini
foto di scena Elisa Nocentini
produzione Aldes
con il sostegno di MiBACT, Regione Toscana
in collaborazione con Teatro della Contraddizione
durata 30’
Sansepolcro (AR), Chiostro San Francesco, 22 luglio 2020
in scena 22 luglio 2020 (data unica)


Rimbamimenti – Dalla fisica quantistica al morbo di Alzheimer (primo studio)
di e con
Andrea Cosentino, Fabrizio De Rossi Re
collaborazione alla drammaturgia Dario Aggioli
foto di scena Luca Del Pia
lingua italiano
durata 50’
Sansepolcro (AR), Auditorium Santa Chiara, 22 luglio 2020
in scena 22 luglio 2020 (data unica)


Eracle, l’invisibile
da
Euripide
drammaturgia Fabrizio Sinisi
ideazione e regia Gianpiero Borgia
con Christian Di Domenico
co-produzione Festival Colline Torinesi, CTB Centro Teatrale Bresciano
comunicazione Margherita Cristiani
amministrazione Delia Tondo
distribuzione Paolo Gorietti, Marianna Pezzini per Ass. Lucciola
grafica Lella Povia, Roberto D’Introno
foto di scena Luca Del Pia
lingua italiano
durata 1h
Sansepolcro (AR), Chiostro Palazzo delle Laudi, 22 luglio 2020
in scena dal 21 al 23 luglio 2020


C’est la vie
di Mohamed El Khatib
regia Fred Hocké, Madeleine Campa
con Fanny Catel, Daniel Kenigsberg
suono Nicolas Jorio
foto di scena Luca Del Pia
produzione Martine Bellanza
co-produzione Bois de l’Aune, CDN Orl.ans/Loiret/Centre, Le Liberté – scène nationale de Toulon, Centre dramatique national de Tours-Théâtre Olympia, Pôle Arts de la scène de la Friche la Belle de Mai, Théâtre de la Ville-Paris, Théâtre Ouvert Centre National des Dramaturgies Contemporaines, Festival d’Automne à Paris
ringraziamenti Bruno Clavier, Alain Cavalier, Mots découverts, Les Éditions Vies parallèle
lingua francese (con sovratitoli in italiano)
durata 1h 15’
Sansepolcro (AR), Chiostro Santa Chiara, 22 luglio 2020
in scena 22 luglio 2020 (data unica)


Amleto + Die Fortinbrasmachine
ideazione, regia, interpretazione
Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai
collaborazione alla drammaturgia Barbara Weigel
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri, Lorenzo Martinelli
organizzazione Nicole Arbelli
foto di scena Fabio Lovino
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi, Fortebraccio Teatro
in collaborazione con L’arboreto – Teatro Dimora, ATER Circuito Regionale Multidisciplinare – Teatro Comunale Laura Betti, Fondazione Orizzonti d’Arte
con il contributo di MiBACT, Regione Toscana
lingua italiano, inglese, tedesco
durata 1h 10’
Sansepolcro (AR), Chiostro Santa Chiara, 21 luglio 2020
in scena 21 luglio 2020 (data unica)

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