“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 28 July 2020 00:00

Tornando a teatro: sensazioni, impressioni

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Tornare a teatro – sebbene al teatro possibile in questo momento, all’aperto, mascherati e distanziati – è un’azione che compio non senza certa qual riluttanza, ancora spaesato da tutti quegli interrogativi irrisolti che questa stramba prima metà di 2020 si porta ancora dietro: se fosse giusto ripartire, in che modo fosse opportuno farlo, quale risposta sarebbe stato capace di elaborare il teatro (come comparto, come àmbito poetico in cui si riflette – e riflette – il tempo presente).

Sicché mi ritrovo a questa edizione del Napoli Teatro Festival senza ancora saper dare quiete a questi rovelli pregressi e perduranti, seduto in questa strana platea che ci vede accomodati su sedie ben discoste l’una dall’altra: sapevo già, prim’ancora di mettere piede a Capodimonte, che i miei primi sguardi sarebbero stati indirizzati non verso un palco, non verso quanto sarebbe accaduto in scena, ma sarebbero stati veicolati dalla curiosità verso tutto ciò che è per il momento cambiato e non sappiamo fino a quando. Abituarsi a una nuova forma di normalità, a un pubblico a volto coperto e sparpagliato, ai termoscanner e ai dispenser di disinfettante all’ingresso in platea. Una platea in cui ci si ritrova ad essere un po’ più soli e anche leggermente straniti. Ma ci si abituerà, ci si dovrà abituare.
E mentre m’abituo all’idea di dovermi (ri)abituare, m’interrogo su quanto vedrò, su cosa scriverò, sul senso che potrebbe avere recensire uno spettacolo come lo avrei fatto prima. Perché è inutile provare a negarlo: c’è un prima e un dopo rispetto alla pandemia (che non è nemmeno del tutto un dopo, visto che l’emergenza non può ancora dirsi finita), c’è un modo di stare al mondo, di relazionarsi, di fare le cose, che non è e non può essere perfettamente identico a prima. Non può ignorarlo ciascuno di noi, quando va a fare la spesa, quando fa la coda alla posta. Non può ignorarlo il teatro, che non può accadere come alcunché d’avulso, come fosse un rifugio per cortigiani che scampano alla peste rinchiusi in un castello a consumare l’attesa che il pericolo possa dirsi scampato indugiando in storie raccontate per diletto.
Pertanto ragiono e rimugino, dal primo accomodamento in platea, su questa nuova fase, fino a quando le luci si abbassano a ricordare che in scena c’è uno spettacolo a cui dedicare sguardo e attenzione. Ed è quello che inevitabilmente faccio, riprendendo confidenza con quel rito della visione, che però continuo a non riuscire a tenere slegato da queste premesse. Perché continuo a ritenere che pensare al tempo presente non possa voler dire solamente allestire un cartellone così come lo si era pensato, identico e preciso, come se nulla fosse successo, propalando l’idea semplice semplice (semplicistica?) di un doveroso ritorno alla normalità e al lavoro delle professioni della scena. Penso che i festival che hanno scelto di ripartire – e il Napoli Teatro Festival nello specifico, perché è quell’unico che ho scelto di frequentare quest’anno – si siano ritrovati ad essere gli avamposti in cui condurre una riflessione (attraverso quel che va in scena, ma non solo) sui cambiamenti d’orizzonte che sono giocoforza ancora in atto in un periodo di crisi non ancora superato; una crisi che ha messo in ginocchio il settore teatrale, come e più di tanti altri comparti lavorativi, mettendone in luce criticità che già c’erano, che già ben si conoscevano e che l’emergenza legata al Covid-19 ha finito irrimediabilmente per esacerbare.
Ed è (anche) per quanto finora enunciato che trovo – sempre per rimanere all’ambito napoletano, geograficamente prossimo – significativamente positive le iniziative portate avanti ad esempio da teatri quali il Bellini e il Sannazaro, che in forme e modi diversi hanno saputo interpretare il momento di crisi elaborando una risposta a quella crisi: il Bellini presentando una proposta per il primo scorcio della prossima stagione che proverà ad andare incontro al pubblico con una nuova forma di partecipazione, ripensando la platea, la creazione scenica e la programmazione; il Sannazaro mettendo il proprio spazio a disposizione delle compagnie che vorranno usufruirne per le prove.
Sarebbe stato auspicabile – sebbene non dovuto – che un evento come il Napoli Teatro Festival, nel momento in cui sceglieva di farsi comunque (legittimamente, intendiamoci), aggiungesse alla legittimità di questa scelta qualche iniziativa che non lo facesse percepire come avulso da quanto è accaduto, ma come un interprete del tempo presente, una ribalta in cui si potesse sentire davvero che si volesse tenere una luce accesa su una crisi in atto e perdurante. Ma tant’è: questi sono i rovelli che avevo questi sono i rovelli che mi tengo.

Poi però, una volta che ci si accomoda in platea, taccuino e penna alla mano, è anche giusto soffermarsi su quanto accade in scena, darne testimonianza e riscontro, magari anche e proprio cercando di metterlo in relazione con quanto accade fuori, cercando punti di congruenza e di convergenza, in altre parole vivendo la visione come una sorta di lente attraverso cui guardare al reale, che forse ingrandisce, forse deforma, in ogni caso filtra.
Il primo spettacolo a cui assisto è Troia City, la verità sul caso Alèxandros, una libera rivisitazione che prende le mosse dai frammenti di Euripide e da una storia – o meglio, un mito – universalmente noto come la guerra di Troia per rielaborarlo in una forma che somiglia a un giallo, un giallo a chiave che si autoalimenta coi suoi interrogativi, a partire dal ritrovamento da parte di una coppia di pastori di quel bambino in fasce che sarà chiamato appunto Alèxandros e che in realtà conosceremo come Paride, figlio di Ecuba e Priamo, nonché tradizionalmente ritenuto innescatore del casus belli (il rapimento di Elena, sposa di Menelao) che diede il via alle ostilità tra Troiani e Achei raccontate nei poemi omerici. Qui la storia di Paride (Alèxandros) diventa il fulcro attorno a cui ruota una sorta di lezione di storia inscenata con Antonio Piccolo nei panni del professore: vestito in giacca e cravatta, una lavagna in scena e il canto degli aedi sostituito dalla spiegazione ragionata dei meccanismi universali che sottendono alla Storia (e alle storie). Una delle chiavi di lettura di questa trasposizione diretta da Lino Musella risiede pertanto proprio in questo approccio programmatico, che finisce per riconsiderare vicende vecchie di oltre tremila anni col filtro del presente, a dimostrarne l’universalità, leggendole come un giallo, appunto, applicandovi quelle categorie e creando un parallelo (come nelle Vite di Plutarco, come parallela qui è la narrazione delle vite di Alèxandros e Paride, prima che confluiscano in un’unica stessa), tra una città risalente a un passato millenario, cantata nei miti antichi, e una del presente: da un lato Troia (o Troia City, “per non cadere in banali equivoci”) e la sua guerra dalle motivazioni variabili, dall’altro la Milano dei gialli di Gianni Biondillo, scrittore vivente di “una città che non vuole morire e che, se muore, comunque rinasce, con orgoglio”. Proprio come Troia, distrutta e ricostruita più di una volta. E la domanda fondamentale a cui s’impronta il primo romanzo dell’autore milanese è proprio quella che gli dà il titolo: Per cosa si uccide, che è forse il ganglio fondamentale attorno a cui ruota questo viaggio che parte dal Monte Ida, dai frammenti di Euripide, dal greco classico (adoperato a tratti in scena e alternato col neogreco) e dal mondo antico per arrivare fino a noi, passando per il Mondiale di Mexico ’70 (metafora di un’epica conclamata), per riferimenti vari al tempo presente e alla decontestualizzazione (Pulcinella che “arap e e chiure ‘a vocca”, gli orologi che a si fermano, un cavalluccio rosso che più che all’inganno ordito da Ulisse ci porta alla mente Riccardo Pazzaglia), ma a tremila e passa anni di distanza l’interrogativo inevaso resta il medesimo: perché si uccide? Il denaro, il sesso, gli ideali, la patria, l’amore... tutte risposte plausibili ma nessuna esaustiva, tutte risposte racchiudibili in un’unica categoria superiore: il potere.
Sulla scena tutto ciò prende corpo nelle parole e nei gesti di Antonio Piccolo, che agendo nel clima sonoro creato dalle percussioni e dai cordofoni di Marco Vidino, si muove tra la lavagna e una riproduzione in terreno in miniatura dell’antica Troia accompagnando la narrazione con una vestizione e una rivestizione, come se volesse simbolicamente evocare il passaggio da Alèxandros a Paride, da Paride ad Alèxandros, cosicché “un eroe vero e un codardo falso, un eroe falso e un codardo vero si mischiano fra loro”. E la verità è inghiottita dal buio di un giallo che si tinge di nero, come la Storia fatta di storie, mentre una fiammella si fa incendio e brucia Troia (City) – così come bruciò Alessandria – lasciando macerie sotto la cui coltre rimasero dubbi irrisolti.

Da Capodimonte a Palazzo Reale, ci spostiamo da uno spettacolo che prende le mosse dal classico per calarsi nella modernità a uno che invece trae spunto dalla letteratura del secondo Novecento, dalle storie di Raymond Carver, in particolare da Una cosa piccola ma buona – racconto che dà il titolo allo spettacolo – tratto dalla raccolta Cattedrale. Si parte da quell’America usuale e essenziale illustrata per sottrazione dallo scrittore (e portata ad esempio sul grande schermo da Robert Altman in America oggi), per trasporla in una dimensione dichiaratamente nostrale, in un tempo arretrato di almeno un trentennio (si parla di lire, i nomi dei protagonisti sono italianizzati, non esistono i cellulari e la scansione dei tempi della vita è leggermente differente rispetto all’oggi). A portarlo in scena, nella sezione Osservatorio del Napoli Teatro Festival, una giovane compagnia, Teatro Felino, guidata da Mario Perna, che firma drammaturgia e regia. Il testo carveriano non viene ridotto per la scena ma ampliato, rispetto al racconto l’azione si sposta nell’interno domestico di una coppia e non più tra la casa e l’ospedale in cui il figlio dei due coniugi è in coma; la drammaturgia si riempie di connotazioni in esubero, quali ad esempio le tensioni della coppia che assiste all’agonia del proprio figlio, investito da un pirata della strada nel giorno del suo compleanno; un’aggiunta che sembra stridere col minimalismo carveriano, fatto di momenti di apparente trascurabilità dai quali inquietudine e insofferenza emergono con spiazzante semplicità. L’intento, a leggere la breve nota di regia, voleva essere quello di estrarre e mostrare gli aspetti più intimi dei personaggi, ma in scena ciò avviene con una propensione all’esasperazione melodrammatica che, oltre a non essere presente nella scrittura di Carver, in cui tensione e umanità restano come sottotraccia, accenni percepiti e non deflagranti, finisce per rassomigliare, se volessimo azzardare un parallelo cinematografico a certo ‘muccinismo’ di lana grossa, pur senza comunque raggiungerne i fastidiosi parossismi.
Al netto di queste imperfezioni, la compagnia in scena sembra avere qualche potenzialità e la regia di Perna riesce ad essere essenziale e precisa, sia nel connotare l’interno famigliare che ospita la scena, disseminato degli oggetti che evocano la presenza del bambino, sia soprattutto nell’epilogo della storia, che ne conchiude tutto il senso più profondo, nel confronto fra i genitori di un bambino che non c’è più e quel pasticciere che ignaro e protervo li aveva tormentati al telefono reclamando il pagamento di una torta che non era stata ritirata. Ecco, nella costruzione di quell’ultima scena, in cui si può anche riuscire (o voler riuscire) a leggere un aggancio al presente, c’è tutta la delicatezza poetica di cui si può avere bisogno in un momento angoscioso e tragico per iniziare a guardare, quasi senz’accorgersene, in direzione di un nuovo giorno.
E questo vale per sia per il presente che stiamo vivendo, sia per chi, mettendo in scena questo racconto di Carver, ne ha tratto un lavoro che, pur con qualche sbavatura, ci lascia la curiosità e la voglia di rivederli in nuove prove, per capire quanti e quali margini di crescita possano esserci e quanta e quale nuova teatralità ci sarà dopo questo periodo di crisi. E quanta e quale capacità di leggerla e di interpretarla, questa crisi.





Napoli Teatro Festival Italia

Troia City, la verità sul caso Alèxandros
liberamente ispirato ai frammenti di Alèxandros
di Euripide
testo Antonio Piccolo
regia Lino Musella
con Antonio Piccolo, Marco Vidino (cordofoni e percussioni)
elementi scenici Paola Castrignanò
assistente alla regia Melissa Di Genova
produzione Teatro in Fabula, Quartieri dell’Arte – Galleria Toledo Produzioni
paese Italia
lingua italiano, greco antico, neogreco
durata 1h
Napoli, Real Bosco di Capodimonte – Fagianeria, 7 luglio 2020
in scena 7 e 8 luglio 2020

Una cosa piccola ma buona
ispirato ai racconti di Raymond Carver
drammaturgia e regia Mario Perna
con Simona Fredella, Andrea Palladino, Alessio Sordillo
scene Luciano Cappiello
disegno luci Mario Perna
produzione Teatro Felino
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Palazzo Reale – Giardino Romantico, 10 luglio 2020
in scena 10 luglio 2020 (data unica)

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