“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 06 May 2013 21:03

Ciclo Bergman (parte XI) - Sinfonia d'autunno

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“Ci sono donne così. Rifiutano di essere disturbate dai loro figli. Non vogliono perdere tempo con i loro problemi. Hanno la loro vita, la loro carriera. Tutto il resto non conta. È di una donna così che ho voluto parlare”.

Ingmar Bergman

Dopo Sussurri e Grida (1972) Bergman torna a rappresentare un dramma familiare. È la volta di Sinfonia d’autunno (1978). Lo avevano preceduti altri film di successo come Scene da un matrimonio (1973), Il flauto magico (1974), L’immagine allo specchio (1976) e L’uovo del serpente (1977). Con Sinfonia d’autunno invece Bergman torna quasi alle origini rappresentando il rapporto madre-figlia come nel suo film di debutto Kris (Crisi, 1945). Stavolta però il regista racconta tale relazione con la violenza di un incendio. La trama vede protagoniste Charlotte, famosa pianista con alle spalle una lunga carriera, e sua figlia Eva, scrittrice non proprio a tempo pieno sposata con il pastore luterano Viktor. La coppia accudisce la sorella più piccola di Eva, Helena, la quale è allettata poiché gravemente malata. Eva invita sua madre a passare un po’ di tempo con loro. La madre ha da poco perso il suo compagno e decide di accettare l’invito per distrarsi. Dopo un primo approccio idilliaco, le due donne finiscono per scontrarsi in modo violento. Eva accusa sua madre di aver abbandonato lei e suo padre quando era piccola, di aver rinchiuso in una casa di cura sua figlia Helena ed aver quindi causato l’aggravarsi del suo male. Charlotte si difende, ma invano, e partirà prima del previsto. Il film, anche se considerato da molti come una delle opere minori del regista (sicuramente non tra le più famose), è invece uno dei suoi film più potenti, secondo il critico cinematografico Paolo Valmarana, ad esempio, il film “è bergmaniano per eccellenza, forse il più bergmaniano di tutti, nel suo ridurre al minimo ogni mediazione tradizionalmente cinematografica per lasciare al dramma il massimo di spazio e di evidenza e il minimo di inquinamento”. Innanzitutto dobbiamo fare una piccola precisazione sul titolo originale, Höstsonaten. Com’è facilmente traducibile anche per chi non conosce la lingua, “sonaten” non sta per “sinfonia”, ma per “sonata”. Dettaglio non da poco. Se per “sinfonia” infatti si intende un brano musicale eseguito da un’orchestra, “sonata” invece rappresenta la composizione musicale tramite strumenti solisti. Tale allegoria dà forma al corpo e alla struttura dell’opera. I personaggi (e ci riferiamo ai due principali, Charlotte ed Eva), rimanendo in tema musicale, compongono un duetto.
La narrazione è rigorosa e asciutta, soffermando (come nello stile classico di Bergman) lo sguardo della macchina da presa sulle emozioni del volto delle due donne. Ovviamente la grande riuscita dell’opera deve molto alle sue interpreti. Inutile sottolineare ancora la prova della Ullman, attrice di una bellezza e dolcezza disarmanti, ancora un volta capace di imprimere al suo personaggio una tenerezza ed allo stesso tempo un rancore commoventi. Se da una parte c’è la Ullman, dall’altra nel ruolo della madre troviamo addirittura sua maestà Ingrid Bergman. La diva non tornava in patria (in realtà il film non è girato in Svezia, ma in Norvegia) da tempo ormai immemorabile (era tornata per girare un episodio del film collettivo Stimulantia,1966, film a cui aveva partecipato con un altro episodio, dal titolo Daniel, lo stesso Bergman). Fu subito entusiasta di tornare a recitare nella sua lingua madre dopo i tanti film in inglese, italiano e francese, ma le riprese non furono semplici. I due più famosi Bergman di Svezia ebbero diversi scontri. Innanzitutto l’attrice trovava poco credibile l’insensibilità di questa madre, Bergman invece insisteva sul suo interesse di raccontare questo tipo di personaggio. Facendo un piccolo passo in dietro, Bergman, come lui stesso ricorda, scrisse la sceneggiatura del film il 26 marzo 1976 in pieno smarrimento esistenziale. Alla fine del mese Bergman venne ricoverato per tre settimane al reparto psichiatrico dell’ospedale Karolinska di Stoccolma. Circa due mesi prima era stato portato in commissariato da due agenti con l’accusa di evasione fiscale (si scoprirà poi che a metterlo nei guai era stato il suo fiscalista). Il regista aveva reagito duramente agli interrogatori e alle perquisizioni in casa ed aveva annunciato che avrebbe lasciato la Svezia per sempre (ecco perché il film venne poi girato in Norvegia). Dopo questa prima reazione rabbiosa, arrivò la crisi depressiva. È lo stesso Bergman ad annotare cosa gli accadde: “La notte dopo l’assoluzione, non riuscendo a dormire nonostante il sonnifero, mi viene l’idea di fare un film su una madre e una figlia che devono essere impersonate da Ingrid Bergman e Liv Ullman, e soltanto da loro […]. Sinfonia d’autunno fu concepito durante alcune ore notturne, dopo un periodo di totale blocco creativo”. I due Bergman si erano conosciuti a Parigi all’inizio degli anni Sessanta, ed il regista aveva già annunciato all’epoca il desiderio di una collaborazione con la diva che ricorda l’episodio e lo commenta gustosamente nella sua biografia La mia storia (Mondatori, 1981): “Fuori dalla Svezia, Ingmar non si sentiva per nulla a suo agio e io non potei fare a meno di pensare che era simile al buon vino, che non si può trasportare da un luogo all’altro”.
Il film segna dunque l’unica storica collaborazione tra i due Bergman. Le tensioni tra i due, come già accennato, erano palpabili, e si manifestavano a volte in vere e proprie scenate. Ingmar decise di approcciarsi in modo aggressivo, quasi per scuoterla e provocare una forte reazione nell’attrice in modo tale da imprimere al suo personaggio un carattere autenticamente autoritario. Ingrid non era certo donna da farselo ripetere e rispose al regista: “Se non mi dici come devo fare questa scena, ti do uno schiaffo”. Il regista racconta l’episodio confessando che era proprio questa grinta che voleva ottenere dalla star. Per la verità queste scaramucce ebbero luogo solo all’inizio, del resto Ingrid era l’unico elemento nuovo del suo cast, gli altri, che invece componevano una sorta di bergmaniana compagnia teatrale, già sapevano e conoscevano le esigenze perfezionali del Maestro. Dopo le prime naturali difficoltà dunque, la recitazione iniziò a scorrere fluida e naturale consegnando alla storia del cinema una delle più intense interpretazioni della grandissima attrice svedese, ruolo che le valse anche la settima nomination agli Oscar (il film segna la sua ultima interpretazione cinematografica, l’attrice era già malata di cancro prima dell’inizio delle riprese e si spegnerà nel 1982). Al di là dei meriti interpretativi, il film presenta interessanti riflessioni sul dogmatico rapporto madre-figlia. Un connubio sacro che il regista rompe con una violenza disarmante, svelando che l’incomunicabilità è capace di annientare anche un sentimento così puro e naturale come quello materno. Il duetto, o meglio, duello madre contro figlia mostra tutta la meschinità dell’animo umano (ancora una volta raccontato attraverso l’universo femminile), incapace di abbandonarsi all’Amore. La madre, colpevole di aver anteposto la carriera di pianista alla famiglia, ora non raccoglie che odio. La figlia, apparentemente dolce e tenera, nasconde un rancore profondo che la rende acida e senza pietà. Tra le due stavolta spicca un personaggio maschile, il pastore marito di Eva, il quale sa di non essere amato dalla moglie (ha ascoltato la confidenza di Eva che dice a sua madre di non amarlo, è solo il suo “migliore amico”), ma accetta questo dato di fatto e la ama lo stesso, incondizionatamente. Il suo personaggio, così come il finale in cui Eva scrive una nuova lettera riconciliante per la madre, lascia ancora una volta aperta la speranza di una qualche possibilità di salvezza. Rimane comunque terribile l’impietosa rappresentazione di odio scolpita nelle parole di Eva nella scena del litigio: “Non hai attenuanti, mi dispiace. Non ci può essere perdono. Sei sempre riuscita ad assolverti, ma non puoi deciderlo da sola. Devi assumerti le tue responsabilità e le tue colpe, come tutti gli altri”. Ancora più blasfeme le parole precedenti pronunciate sempre da Eva ad una madre già affranta dal senso di colpa: “Mamma, è così? La sconfitta della figlia è il trionfo della madre? Mamma, il mio dolore è un tuo piacere segreto?”.
Un’opera dunque pesantissima, di un dolore esistenziale autentico benché inusuale come può essere quello del rapporto madre-figlia. Un dolore che però, trascendendo lo specifico, racchiude universalmente tutto il senso dell’angoscia umana, quel continuo riflettere sulla falsità e ipocrisia dell’apparire e che quest’opera svela con commovente realtà. Lo stesso Bergman era artista, benché severo e inflessibile, capace di commuoversi sul set durante una ripresa particolarmente riuscita. Come quella in cui Eva, contenta dell’arrivo di sua madre, le fa ascoltare al piano il Preludio n.2 di Chopin. Charlotte, pianista di professione, cerca di mascherare le imperfezioni che ha notato nell’esecuzione di sua figlia. Quest’ultima se ne avvede ugualmente e chiede alla madre di eseguirle il brano. Charlotte dà una grande lezione di musica ed una pessima dimostrazione di madre. La telecamera indugia immobile sui due volti, la pianista è tutta presa e trasfigurata dall’esecuzione del brano, la figlia, seduta di fianco, la guarda in maniera indescrivibile. Gli occhi del suo sguardo perso nel volto della madre racchiudono tutto l’universo dei suoi pensieri di odio e amore. Una scena indimenticabile che fa di quest’opera una delle più emozionanti della filmografia del regista.

 

Retrovisioni
Höstsonaten (Sinfonia d’autunno)
regia
Ingmar Bergman
con Ingrid Bergman, Liv Ullman, Halvar Bjork, Lena Nyman, Erland Josephson, Linn Ulmann, Gunnar Bjòrnstrand
produzione Katinka Sarago per Personafilm
sceneggiatura Ingmar Bergman
paese Svezia, Norvegia
lingua svedese
colore a colori
anno 1977
durata 90 min.

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