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Wednesday, 20 May 2020 00:00

Di padre in figlio: piccola epopea sentimentale

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Oggi sono giusto otto anni: il 20 maggio del 2012 il Napoli guidato in panchina da Walter Mazzarri alzava al cielo la Coppa Italia: 2 a 0 alla Juventus nella finale secca di Roma; trofeo minore, senz’altro, ma in ogni caso il primo titolo messo in bacheca dalla SSC Napoli dai tempi di Diego Armando Maradona. Per ritrovare un Napoli che conseguiva una vittoria che arricchisse la bacheca bisognava risalire a ritroso fino al 1° settembre del 1990 e alla Supercoppa Italiana, vinta sommergendo anche quella volta – e anche quella volta in sfida secca – la Juve al San Paolo con un sonoro 5 a 1.

Nei vent’anni e passa che erano seguiti c’erano state quasi solo ombre, mentre qualche sparuto barlume di luce si era sempre diradato fugacemente. Si erano vissuti anni bui, fatti di retrocessioni in B e culminati nel fallimento del 2004, dalle cui ceneri era poi nato il Napoli attuale, rilevato da Aurelio De Laurentiis e ripartito dalla Terza Serie.
Questa storia potrebbe cominciare in un pomeriggio torinese del 1975 e terminare in una notte romana di maggio del 2012. Eppure, nei miei occhi che la ripercorrono e nelle mie dita che rincorrono i tasti per raccontarla, questa storia si allarga a fisarmonica, dispersa in rivoli di memoria che si affastellano. Perché è una storia fatta di storie, fatta di passione che dilata i ricordi e li sovrappone. Un tempo ricordavo le cose importanti della mia vita in relazione alle stagioni sportive del Napoli: ho fatto la Prima Comunione l’anno che arrivò Maradona, il giorno che si giocava Napoli – Fiorentina di Coppa Italia, ero a un matrimonio il giorno in cui Diego fu sontuosamente ladro e fottutamente genio schiantando gli inglesi a Mexico 86 (perché la mia memoria era scandita non solo dal Napoli, ma anche da Lui! E la cosa strana è che gli sposi di quelle nozze ancora sono coniugati tra loro nonostante le mie jastemme postume!) e potrei fare mille altri esempi.
Comunque... Quel 20 maggio eravamo allo Stadio Olimpico di Roma. Andarci era stata una scelta maturata quasi in extremis: avevamo fatto un po’ di tira e molla per decidere e alla fine i biglietti di curva erano terminati. Il 12 maggio era il compleanno di mio padre (classe ’47, ergo ‘gemello astrale’ di Zdeněk Zeman, uno che da queste parti durò poco più d’un raffreddore e molto meno di quanto meritasse, ma questa è un’altra storia). Mentre siamo a pranzo fuori, scopro di aver pizzicato una corposa bolletta da oltre seicento euro, dalla quale cavo un paio di scarpe nuove e i biglietti di Tribuna Tevere per la Finale, regalo di compleanno inaspettato per il sessantacinquesimo paterno, e per me che l’avrei accompagnato nella trasferta romana. In più: posso permettermi anche il lusso di anticipare l’acquisto dei tagliandi per mio zio Enzo e mio cugino Andrea che ci avrebbero raggiunto a Roma da Bruxelles. Per la prima volta, dopo tanti anni in cui mio padre mi aveva portato allo stadio, ero io che portavo lui, piccolo gesto di riconoscenza filiale che ancora non sapeva sarebbe coinciso con una serata da ricordare.
Ma prima di proseguire nel racconto di quella sera, facciamo qualche passo indietro. E andiamo alle radici della storia, alla scaturigine della passione. Il cammino verso quella Finale era cominciato tantissimi anni prima, mescolando, anche in questo caso, passione calcistica e vita personale. Si era a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 e io non esistevo ancora nemmeno in forma di progetto futuribile. Colui che ancora non era mio padre conosce colei che ancora non era mia madre e il caso vuole che, mentre lui abita in provincia (e doveva quindi sobbarcarsi l’onere di macinare qualche decina di chilometri per raggiungere domenicalmente il San Paolo), lei invece fa residenza a Napoli. Precisamente a Fuorigrotta. Segnatamente a poco più di un chilometro dal Tempio della pedata partenopea. Fu amore non a prima vista ma al primo stadio. Un amore incondizionato (per il Napoli), quello che ti fa esclamare: “Se po’ ffa’”, pregustando la comoda possibilità di raggiungere il tuo posto sugli spalti senza rinunciare al ragù prepartita. Congiuntura astrale favorevole volle che anche in casa di quella che anni dopo sarebbe diventata mia madre si coltivava la medesima passione per il Napoli. Solo che si usava pranzare al ritorno dallo stadio. Sicché quello che di lì a qualche anno sarebbe diventato mio padre brigò affinché si sovvertisse questa malsana abitudine dello stadio a stomaco vuoto. Prevalse così la linea di un saggio pragmatismo: “Po’ va a ferni’ ca perdimm’ e ce ‘ntussecamm’ ‘o rraù. Meglio ca magnamm’ primm’ d’a partita!”. La mozione passò, anche perché erano tempi in cui le prestazioni della squadra erano piuttosto altalenanti, e in casa di mio nonno si capì che l’opzione stomaco pieno non faceva davvero un plissé.
Sicché finì per crearsi quell’amalgama fra suocero, generi, cognati che condividevano la frequentazione della casa di Fuorigrotta. E che finirono per condividere anche gli spalti. Del San Paolo e di qualche altro stadio in giro per l’Italia. Costruendo ricordi e memoria condivisa, che poi di tanto in tanto, nelle occasioni conviviali in cui la famiglia si riuniva, sfociava in racconti, aneddoti, primo fra tutti quello in cui quel signore che sarebbe diventato di lì a qualche anno mio padre affibbiò per primo a Peppe Bruscolotti, capitano e bandiera del Napoli, il soprannome di “Pal’ ‘e fierro”, con cui quegli è a tutt’oggi universalmente noto nella tifoseria: si giocava una gara di Coppa Italia fra Sorrento e Napoli, e Bruscolotti, allora militante nel Sorrento, giocava in marcatura su Altafini, all’epoca alla sua ultima stagione in maglia azzurra. Il vecchio José, prima di diventare di lì a qualche anno “Core ‘ngrato” in una balorda domenica torinese (ci arriviamo tra poco), era un centravanti di grande forza, tecnico e possente. Ebbene, in quella partita, scontrandosi con il giovane Bruscolotti finì per rimbalzarci contro: “’Stu guaglione me pare nu pal’ ‘e fierro”, l’affermazione condivisa a voce alta sugli spalti e presto diventata virale, fino ad appiccicarsi sul futuro capitano del Napoli come un marchio di fabbrica e una seconda pelle. Gli aneddoti e i racconti, dicevo: come quella volta che il Petisso Pesaola si presentò a sorpresa in trasferta con le tre punte, di Macchi che doveva essere “una macchina da gol” (e ne segnò uno soltanto in tutto l’anno), di “Clerici e Braglia gol a mitraglia”, o ancora di quel Napoli – Juve in cui Dino Panzanato spaccò la faccia a Salvadore, “guadagnandosi” ben nove giornate di squalifica (molte meno dei punti di sutura che furono necessari a ricucire l'avversario), ma conquistandosi al contempo un posto d’onore nel piccolo olimpo dei miti e nel cuore dei facinorosi. Eh sì, perché quel signore – che a questo punto del racconto non è ancora diventato mio padre – smessi i panni ordinari di un onesto impiegato di banca, allo stadio si trasformava in una sorta di hooligan ante litteram. Ancor oggi racconta con una certa fierezza di una trasferta a Firenze in cui, nell’entusiasmo per un pareggio agguantato allo scadere con un gol di Sergio Clerici, si avventò contro un tifoso viola facendogli ruzzolare non so quanti gradoni poiché “reo” di essere giunto a Firenze sin da Taranto per tifare Fiorentina (cose da pazzi! Da Taranto a tifare Fiorentina: si può essere più sfacciatamente inverecondi?). E veniamo a quel fatidico Juve – Napoli del ’75: era il Napoli allenato da “’O Lione” Luís Vinício, a detta di molti che l’hanno visto giocare, uno dei Napoli più belli della storia. Come mai prima di quell’anno andato vicino alla conquista di uno Scudetto che sarebbe invece arrivato solo oltre un decennio dopo, grazie a Maradona. È il 6 di aprile, cinque giornate alla fine e due punti di distacco tra la Juve prima e il Napoli secondo: sfida che vale una fetta di titolo. Da Napoli si mobilitano intere carovane. Partono anche colui che nel frattempo è (finalmente) diventato mio padre da una manciata di mesi e con lui suo suocero (mio nonno) e due cognati: Zio Gigi (che ritroveremo in curva negli anni d’oro con indosso l’immancabile maglietta di Careca) e Zio Enzo (che di lì a poco sarebbe emigrato in Belgio e che ritroveremo in questo racconto nella finale di Coppa Italia di Roma, di cui s’è già fatto cenno); treno alla volta di Torino. Zio Gigi premette: “Purtammoce ‘e ccarte, pecché io ind’o treno nun dormo!”; pare il convoglio non avesse ancora coperto il tratto da Napoli Centrale alla successiva stazione di Casoria che già il buon Gigino tirava un ronfo da competizione, costringendo gli altri tre a giocare col morto. La partita fu di quelle stregate: Juliano pareggiò l’iniziale vantaggio di Causio e un Napoli arrembante, sospinto da ventimila e passa tifosi in trasferta, sfiorò più volte il vantaggio, fermato solo da uno Zoff in stato di grazia, che quel giorno avrebbe parato anche gli spilli. Fino al minuto 88, quando il vecchio José mise la palla alle spalle di “Gedeone” Carmignani guadagnandosi a imperitura memoria l’appellativo di “Core ‘ngrato”. Non so descrivere lo stato d’animo con cui poterono tornare da quella trasferta; non lo so descrivere ma lo posso immaginare. Me li immagino pietrificati sugli spalti, incapaci di dire qualunque cosa. Non so quante volte ho sentito ripetere negli anni successivi “a portieri invertiti, quella partita l’avremmo vinta”. Ma so che una – parziale, parzialissima – rivincita sul campo mi parve di rivederla proprio nella notte romana di otto anni addietro. Era sempre Juventus – Napoli, che per chi è napoletano è sempre sfida dai risvolti particolari, e uno dei fotogrammi che mi parve più simbolico e significativo fu quello di due di quei quattro “reduci” del ’75 seduti l’uno accanto all’altro, mio zio Enzo e mio padre, qualche chilo in più e molti capelli in meno rispetto a trentasette anni prima, a riprendersi un pezzetto di tutte quelle gioie rubate mentre Paolo Cannavaro levava nel cielo di Roma la coppa nazionale. In quella istantanea stampata nella memoria di me che ero in piedi alle loro spalle c’era il flashback di tanti bocconi amari, una piccola nemesi che si consumava. Certo, nel mezzo c’erano stati gli anni di Maradona, gli Scudetti, la Coppa UEFA, ma quella serata romana del 2012 ebbe un fascino e un gusto particolari, forse perché era la prima dopo tanto tempo, forse perché strappata direttamente dalle mani di “quellì lì”, forse perché ancora me li vedevo come paralizzati al Comunale di Torino non riuscire a deglutire la delusione e li vedevo invece in quel momento blanditi e ricompensati dal piacere della gioia, appagati.
In un lunghissimo e discontinuo viaggio a ritroso mi tornavano alla memoria tutti i trascorsi allo stadio, dalle prime volte così lontane nel tempo da essere sovrapposte in dissolvenza in una memoria fattasi confusa: ero talmente piccolo che nemmeno me la ricordo con precisione la mia prima partita sugli spalti; potevano essere i primi Anni Ottanta, ricordo un torneo estivo, le maglie del Flamengo, forse un quadrangolare. E poi i primi ricordi “coscienti”: i rigori di Ferrario a scongiurare la retrocessione in B, uno striscione a tutta curva con su scritto “Resteremo in Serie A”, un Napoli modesto in cui i giocatori si chiamavano Scarnecchia e Frappampina (sì, pure i nomi facevano discretamente schifo!). Così come ricordo bene la mia prima partita in trasferta, sempre al seguito di mio padre: Roma – Napoli 5 a 1 (gol di Dal Fiume per noi) era il 1983, il 30 ottobre (per altre ragioni una data nient’affatto banale). Ricordo il tragitto fino all’Olimpico, ricordo mio fratello, più piccolo, fare il gesto dell’ombrello ad ogni romano che incontravamo (altri tempi...), ricordo che tutto mi sembrava ovattato, come una favola gioiosa.
Venne poi l’era maradoniana, intervallo godurioso fra periodi bui, i sette anni più belli di tutti, gli Scudetti, la Coppa Uefa, una Coppa Italia, una Supercoppa e soprattutto il privilegio di vedere dal vivo “qualcosa” di totalmente inumano compiere sul prato verde magie mai viste prima, mai più riviste dopo, una specie di alieno con un “10” sulla schiena che col pallone faceva quello che qualunque altro bipede senziente può fare fatica anche solo a immaginare. Ma anche questa è un’altra storia (e che storia!).
In questo excursus disordinato, fatto di pallone e aria di famiglia, sono tanti piccoli eventi, magari anche minori, a giustificare il senso del racconto. Come un Napoli – Milan del 2001: mio padre, già infartuato mesi prima (ma non per questo meno presente allo stadio), comincia a sentirsi male nel tragitto dall’abitazione di Fuorigrotta al San Paolo; chiamo a casa per farci venire a prendere, saliamo in auto dirigendoci al San Paolo (ospedale), ma una volta davanti al San Paolo (stadio) lui, con un secondo infarto in corso (di cui avrebbe avuto poi conferma l’indomani) si fionda letteralmente fuori dalla macchina in corsa e entra alla partita. Non riesco a far altro che corrergli dietro e assistere insieme a lui a un sonnolento (per fortuna!) 0 a 0, seduti in curva inferiore, con lui che, sotto infarto, si dondolava in continuazione, l’immancabile radiolina nelle orecchie e i risultati dagli altri campi comunicatimi a simular normalità e a tentare maldestramente di infondere una rassicurazione che non poteva aver luogo. Incoscienza allo stato puro. Non è facile essere figli di uno scalmanato...
Ma probabilmente anche questo c’entra eccome con la gioia di quel ricordo di otto anni fa: averlo potuto vivere dopo aver rischiato di non arrivarci, dopo aver visto la morte con gli occhi, due infarti e tre by-pass dopo. Eppure senza riuscire a rinunciare allo stadio, a quella passione insopprimibile che si tramanda di padre in figlio. E, sempre a proposito di padri e figli – senza scomodare Turgenev, che in questo caso c’entrerebbe più o meno come la Juventus con una vittoria onesta – c’è un altro ricordo, tenero e doloroso, che mi porto dietro da quella notte romana. Capitai accanto a un padre e un figlio che si erano trovati a Roma per la finale, provenendo l’uno (il padre) dalla provincia di Napoli, l’altro (il figlio) da Genova, dove lavorava. Facemmo amicizia, furono le persone che mi ritrovai ad abbracciare quando Cavani trasformò un rigore che solo il Pocho avrebbe potuto conquistare e quando Marek Hamšík la chiuse in contropiede. Chi si trova a condividere con te certi momenti conquista d’ufficio un posto nell’album dei ricordi, c’è poco da fare. Tempo dopo venni a sapere, per puro caso, che quel ragazzo era morto in un incidente stradale, proprio mentre era in macchina col padre. Ricordo che si chiamava Mario. E che quella notizia mi straziò il cuore, come lo conoscessi da sempre, solo perché avevamo vissuto insieme novanta minuti, un tempo limitato, ma a latere di qualcosa che finisce per affratellarti per sempre.
Ecco, è per quei padri e per quei figli che consumano una parte consistente della loro vita appresso a una passione che spendo queste righe, per quella appartenenza che si tramanda, per quelle emozioni che si scolpiscono. È per mio padre, che ancora ho potuto portare con me in curva lo scorso gennaio per Napoli – Lazio, ed è per quel figlio che il proprio padre non potrà più abbracciare dopo un gol, come avveniva otto anni fa, in una notte romana in cui l’azzurro era stato il colore della felicità.

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