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Sunday, 17 May 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a Sara Pischedda

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Per la trentaduesima intervista incontriamo una giovane danzatrice: Sara Pischedda. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Sara Pischedda nel 2015 entra a far parte della compagnia ASMED Balletto di Sardegna danzando per la produzione Aragosta di Moreno Solinas, Soffio di Mark Sieczkarek, Tempesta di Caterina Genta. Come autrice ha firmato Satura... sì?, 120gr e e se fossi...?.



Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
In questo momento della mia vita artistica − praticamente agli esordi, se così si può definire − mi sento di rispondere a questa domanda con la frase “essere se stessi”.
Questo nel mio percorso è stato fondamentale; dopo tanti tentativi ho iniziato a sperimentare su ciò che sono e su ciò che potevo offrire a chi veniva a vedermi in scena sviluppandolo con l’aiuto del mio vissuto e dei miei ricordi e dunque, adesso più che mai, sono convinta che per creare è efficace iniziare dalle proprie radici.
Poi l’evoluzione magari mi porterà da qualche altra parte, ma conoscere me stessa è una chiave per capire come sviluppare altri concetti.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Sì, gli strumenti si sono evoluti, ci sono più possibilità di residenze artistiche e più finanziamenti ma, a parer mio, si è tralasciata un po’ la cosa efficace per tutti gli artisti, ossia la relazione stretta con chi è “sopra” di noi come, ad esempio, gli organizzatori di festival. 
Ecco, forse ho sbagliato anche a definire l’esistenza di qualcuno al di sopra di noi: siamo tutti qui a lavorare per lo stesso obiettivo, magari con compiti differenti, ma la voglia e il desiderio di realizzare qualcosa di fruibile e di far conoscere quest’arte il più possibile, sono condivisi.
Possono esserci tantissimi strumenti produttivi ma se questa collaborazione tra le parti interessate (imprese, operatori ed artisti) non esiste il risultato rischia di essere comunque blando.


La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro Paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Penso ci sia un legame forte con la precedente risposta.
Ripeto. Il  problema, o meglio il freno che è inserito e che non fa muovere la macchina è proprio l’assenza totale di collaborazioni tra le parti. Voglio spiegarmi meglio: esistono delle collaborazioni ma sono comunque superficiali. Non danno spazio a delle vere e proprie conoscenze tra luoghi, spazi e persone che risultano differenti tra loro. Spesso si racchiude tutto in una cerchia ristretta di persone e tutto rimane lì. 
Invece no, bisognerebbe aprile il più possibile le porte e far circolare aria che sia colma di idee, legami e bisognerebbe creare delle vere e proprie connessioni. Come è scritto nella tua domanda, Enrico, siamo in una situazione in cui artisti o compagnie indipendenti e teatri stabili si muovono su strade parallele, che viste così non potranno incontrarsi mai. Forse perché la società ci ha portato sposare questo comportamento, “io coltivo il mio orticello e tutto è in ordine”.
Invece gli orti devono diventare distese immense dove poter coltivare ognuno le proprie peculiarità per poi avere la possibilità di usufruire delle capacità dell’altro e creare così una vera rete di condivisione.
Altro problema da non sottovalutare è la tendenza a concentrare più professionalità in una sola persona: dovuta sicuramente alla mancanza di strumenti economici necessari a ricoprire le varie professionalità necessarie alla valorizzazione completa di un processo artistico.
Ma magari potrebbe essere la benzina giusta per far riaccendere il motore di questa macchina ferma. 
A ognuno il suo.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l'esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
La creazione scenica che si vive al momento ha un sapore talmente unico che non si dovrebbe sostituire mai. 
A volte per praticità viene sostituita ma l’emozione, che possa essere negativa o positiva, è un attimo che viene recepito dallo sguardo che passa attraverso la pelle, percorre il cuore e rimane impresso nella mente e può darlo solamente il real time.  


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Il virtuale è entrato a far parte della nostra vita quotidiana più che mai: come se ci fosse un “mondo parallelo”, in cui possiamo sentirci bene con noi stessi. Inutile dire che le sensazioni vengono annullate tanto quanto la vita reale. Quindi rifugiandosi in questa “Second Life” giochiamo a un gioco ideale, creato da noi dove possiamo vivere le sensazioni che vogliamo noi.
Il reale potrei definirlo come situazione difficile da sviluppare ma, se devo dare un mio parere, è molto interessante proprio per questo. In conclusione mi ricollego alla mia prima risposta dicendo che lo strumento che più stimola l’artista è essere se stessi: reali, con i propri difetti e i propri pregi.

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