“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 11 May 2020 00:00

La pianta mangiona

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Agata camminava per strada con la testa immersa nei suoi pensieri, un flusso di coscienza difficile da fermare e racchiudere in un concetto di senso compiuto. C’erano tante cose da riorganizzare. Aveva da poco finito il trasloco e la casa era ancora un accumulo di scatoloni che la guardavano quasi implorando di essere aperti e sistemati.

Ogni mattina si svegliava con il buon proposito di fare ordine fra tutte quelle cose, che avrebbe significato anche fare ordine nella sua vita, ma subito dopo aver preso il caffè, si guardava intorno e le veniva voglia di scappare via. Ma da cosa? Dalle sue stesse decisioni? La storia con Annibale era ormai finita da più di un anno e, se non fosse stato per lei, sarebbero andati avanti ancora per chissà quanto. In fin dei conti non lo sopportava più. Le davano fastidio i versi che faceva di prima mattina, appena sveglio, il rumore della masticazione mentre mangiava i biscotti e quel buonumore e ottimismo che lo accompagnavano per tutta la giornata. Aveva quell’insopportabile propensione a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno che la irritava ancora più di tutte le altre cose. Senza contare il fatto che quando si rivolgeva a lei, lo faceva spesso con quella vocina che si usa con i bambini piccoli pensando che non ci capiscano. Aveva fatto bene. Una mattina aveva preso la decisione, aveva fatto le valige e... arrivederci. Certo, quel mese da sua madre mentre cercava una casa in cui andare non era stato una passeggiata, ma era sopravvissuta. Spesso si dimenticava di avvisarla se rimaneva fuori per cena e lei la chiamava in preda al panico per sapere dove fosse. Ma la mamma è la mamma e non la si può cambiare.
Comunque, aveva superato anche questo e adesso finalmente era di nuovo libera e padrona della sua vita. Casa nuova, vita nuova! Ma allora perché non si decideva a mettere tutti i pezzi al loro posto? Passava quelle giornate di metà luglio andando a zonzo con la scusa di cercare le ultime cose utili per la casa, che sistematicamente non comprava. Invece, spesso, prendeva la macchina, raggiungeva uno dei tanti parchi della sua città e rimaneva fino al tramonto, seduta sul prato o su una panchina, con la compagnia di un buon libro. E quando tornava a casa si diceva: “Domani mi metto di impegno e sistemo tutto!”. Era presa da questi pensieri quando qualcosa le finì tra i piedi rischiando di mandarla per terra, sul marciapiedi, in mezzo a decine di persone. “Ma che cacch!...”. Cos’era stato? Si girò, guardò in basso e vide un piccolo vaso con una pianta quasi rinsecchita. Ma da dove era arrivata? Guardò in alto. “Forse è caduta da un balcone... meno male che non mi è finita in testa”, pensò. Poi guardò bene la piantina, forse non era del tutto morta e lei non sarebbe certo riuscita a risalire al legittimo proprietario, che probabilmente, neanche la voleva più. Magari l’aveva gettata di proposito. “Potrei cercare di recuperarla” − pensò − "Ma sì, forse ha bisogno solo di un po’ di acqua”. Poteva salvare quella piantina e farla crescere. Lei e quell’arbusto sfortunato potevano ricominciare insieme! Si dimenticò perché era uscita quella mattina, prese la pianta e tornò di corsa a casa, impaziente di metterla sul balcone e darle un po’ d’acqua. Arrivò nell’appartamento al quarto piano, senza ascensore, quasi correndo. Spalancò la porta finestra, si guardò intorno sul terrazzo per individuare il punto che riceveva più luce e finalmente sistemò la piantina. Mise un sottovaso che trovò nel terrazzo, gentile omaggio dell’inquilino precedente, le mise l’acqua e stette a guardarla per un quarto d’ora, sperando inconsciamente che si riprendesse sotto ai suoi occhi. Dopo un po’ si diede della stupida. “Ci vuole pazienza” pensò, ed entrò in casa carica di energie. Cominciò a svuotare gli scatoloni e a riordinare il contenuto. Ci vollero quattro giorni per finire il lavoro. Si disse che aveva accumulato troppe cose e che, adesso che aveva fatto una cernita e gettato il superfluo, non si sarebbe più ridotta in quello stato. “Da oggi comprerò solo quello che mi serve veramente”. In quei quattro giorni non vide e non sentì nessuno. Si dedicò soltanto alla casa e alla piantina che, lentamente, dava segni di ripresa. Il fusto, ancora privo di qualsiasi infiorescenza, aveva ripreso vigore e piccole foglioline verdi cominciavano a spuntare. “Dai che ce la fai”, le diceva ogni sera, quando le dava l’acqua. “E se ti riprendi, vado a comprare altre piante da metterti accanto, così finalmente anche questo balcone sarà meno spoglio!”. La casa non era grande, misurava solo quaranta metri quadrati che a lei sembravano una reggia, visto che poteva goderseli da sola senza nessuno che le chiedesse a che ora si mangia, che film voleva vedere in televisione, quando sarebbe andata a letto. “Amore vieni... addormentiamoci insieme”, così le diceva tutte le sere Annibale. “Si, tu addormentati, che poi vengo a soffocarti con un cuscino”. Le era capitato di pensare anche questo... si, decisamente aveva preso la decisione giusta andando via di casa.
Dopo quattro giorni trascorsi come un eremita, il cellulare squillò. Ormai si era talmente abituata al silenzio che si spaventò. Erano le sue amiche che, non avendola più sentita, cominciavano a preoccuparsi. Quel fine settimana sarebbero andate tutte alla casa al mare di Antonia, perché non veniva anche lei? In fin dei conti era estate e, anche se non aveva i soldi per andare in vacanza, visto che aveva dovuto dare tre mesi anticipati alla proprietaria di casa, si meritava almeno qualche giornata di mare. Si era talmente ambientata che le dispiaceva lasciare il suo rifugio, ma poi cedette al pensiero della spiaggia e di qualche bel bagno e, soprattutto all’idea di sfuggire all’afa cittadina e alle zanzare! In città di solito non ce ne sono molte, eppure ogni volta che si sedeva in terrazzo per più di dieci minuti, veniva punta in ogni angolo di pelle scoperto.
Decise di partire e in mezz’ora fu pronta. Ma non poteva andare via così, la piantina ce l’avrebbe fatta senza acqua per due giorni? La annaffiò e poi riempì una bottiglia e la mise capovolta nel vaso. “Così dovresti essere a posto finché non torno... eddai, sono solo due giorni!”. Suonò il citofono, erano le sue amiche, si chiuse la porta alle spalle e andò a godersi il suo meritato week end di mare.
La domenica sera rincasò piuttosto tardi, era quasi mezzanotte, ma l’aveva messo in conto. Si chiamava “rientro”, l’incubo di tutti i pendolari che fanno vacanze mordi e fuggi nel fine settimana. Fila per andare, fila per tornare. Ma ne era valsa la pena. La prima cosa che fece, appena si chiuse la porta alle spalle, fu andare in terrazzo a vedere come se l’era cavata la sua piantina. Inizialmente le sembrò di non vederla. La piantina piccola e sofferente che aveva lasciato solo due giorni prima, si era trasformata in un arbusto alto circa mezzo metro, con il fusto spesso il doppio e delle grandi foglie verdi. Proprio non se lo spiegava... come era potuto accadere? Quella bottiglia d’acqua capovolta aveva fatto miracoli. Prese una birra dal frigo, una sedia, e si sedette al fresco a godersi i risultati della sua dedizione a quella piantina. Rimase in balcone per circa tre quarti d’ora e solo quando rientrò in casa per mangiare qualcosa – era quasi l’una di notte e aveva lo stomaco completamente vuoto – si rese conto che le zanzare non l’avevano punta. “Che strano” – pensò – “mah, forse è stato solo un periodo... saranno andate via”.
La mattina dopo si vegliò tardi, troppo tardi. Erano le 11! Si sentì subito in colpa. Avrebbe dovuto lavorare. Agata scriveva per una rivista femminile. Aveva detto al suo capo che si sarebbe presa una settimana per il trasloco, ma che avrebbe rispettato la consegna degli articoli. E invece, erano passate tre settimane. Entro due giorni avrebbe dovuto consegnare tre pezzi! Si alzò immediatamente “Ce la posso fare” si disse. Fece il caffè e uscì in balcone per godersi gli ultimi dieci minuti di relax. Ma quello che vide la distolse da qualsiasi altro pensiero. La pianta era raddoppiata rispetto alla sera prima. Ora era alta un metro, il fusto sembrava quello di un albero di limone e dalle foglie erano spuntati dei fiori rossi... era bellissima, ma com’era successo? Il vaso stava per cedere, era troppo piccolo ormai. Agata si vestì, andò al vivaio più vicino, comprò un vaso grande e due sacchi di terra. “Non si sa mai” – pensò – “se continua a crescere di questo passo...”. A casa si preoccupò di travasare la sua pianta in un alloggio più comodo e aggiungere terra a sufficienza. “Adesso dovresti stare bene per un po’”, disse a quel vegetale che le stava costando più di un cane o di un gatto, e non le faceva nemmeno un po’ di fusa! Poi tornò in casa e si mise a lavorare. Non voleva ricevere la telefonata infuriata del suo capo che aspettava gli articoli. Per cinque ore si isolò da tutto, concentrata solo su quelle frivolezze femminili che le chiedevano di scrivere: il trucco adatto per l’estate, come combattere la ritenzione idrica... Quegli argomenti non la entusiasmavano, ma era sempre meglio che fare un lavoro d’ufficio. Quando cominciò a sentire un formicolio al collo e male alla schiena, decise che era arrivato il momento di fare una pausa. Fu a quel punto che si accorse di un rumore, non capiva di che genere fosse né da dove arrivasse. Stette ferma e ascoltò. Era simile al rumore dei tarli che mangiano la legna. Lo conosceva bene perché, da piccola, i suoi nonni la portavano spesso in una casa di campagna dove c’era il camino e nel sottoscala avevano la legna da ardere. Peccato che lei non avesse né il camino né la legna. Uscì in balcone a prendere un po’ d’aria e rimase pietrificata. Intorno alla pianta si era formato un nugolo di zanzare – le maledette! – che venivano attirate dal colore e dall’odore dei fiori rossi. Non appena si avvicinavano un po’, il fiore si protendeva verso di loro e se le mangiava in un boccone, così velocemente che quelle che stavano dietro non avevano neppure il tempo di scappare. Agata rimase a guardare quella scena per dieci minuti buoni, poi si risvegliò come da un sogno, tornò dentro e cominciò a fare delle ricerche. Nessuna immagine di pianta trovata su Internet corrispondeva a quella che era nel suo terrazzo. Decise di fotografarla e tornare dal vivaio per chiedere informazioni. Apprese che esistono le piante carnivore. Queste emettono un liquido che attrae gli insetti che vi si posano sopra. Dopo qualche minuto, le foglie si richiudono sul malcapitato. Però, dalla foto il vivaio non riusciva a riconoscere di quale specie di carnivora si trattasse. Agata ringraziò e tornò a casa più confusa di prima. Aveva evitato di raccontare a quell’uomo così gentile che le era sembrato di vedere i fiori masticare letteralmente le zanzare che ci erano finite dentro. “Forse me lo sono immaginato” – si disse – “sto troppo tempo da sola e comincio a dare i numeri!”. Comunque si consolò pensando che aveva trovato il rimedio contro le zanzare!. Si erano fatte le otto di sera, troppo tardi per continuare a scrivere. La mattina dopo avrebbe finito e avrebbe inviato tutto. Era giusto in tempo anche se per il rotto della cuffia, come al suo solito.
Salì i quattro piani di scale e si precipitò in balcone per vedere se il “banchetto” della sua pianta stava continuando o se, finalmente, era sazia. Tutto taceva. Il sole iniziava a tramontare. “È l’ora di darti l’acqua” – disse Agata rivolta a quel vegetale affamato, pensando se veramente non fosse meglio prendere un gatto – “ma vedi di non crescere ancora perché non ho un’altra giornata da dedicarti”. Prese la bottiglia vuota, la riempì in cucina e si avvicinò alla pianta per annaffiarla.
Era piegata sul vaso quando sentì un fruscio. Alzò la testa, ma non vide niente, non c’era vento, tutto era immobile. Tornò a guardare la terra dentro al vaso e continuò a versarvi l’acqua. Improvvisamente le mancò l’aria. Qualcosa la stava strozzando. Cominciò a dimenarsi nel tentativo di sciogliersi da quella presa, prima ancora di capire da dove venisse. Lottò per qualche minuto, poi alzò lo sguardo e capì con orrore che la pianta l’aveva imprigionata e continuava a stringere e stringere. Il fiato le mancava sempre di più, ma non riusciva a liberarsi. Un ramo gli si era arrotolato intorno al collo con un doppio giro. Vide un paio di forbici per terra e cercò di allungarsi per prenderle, ma non ci arrivava. Non ci poteva credere, quella pianta la stava soffocando, voleva farla fuori! “Bella riconoscenza!” le venne da pensare, e subito si disse che quell’umorismo non era appropriato al momento. La vista cominciò ad offuscarsi, le forze le vennero meno. Agata svenne. Solo a quel punto, quando non poteva più opporre alcuna resistenza, la pianta iniziò la sua cena...

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