“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 09 February 2020 00:00

Il campanile sdoppiato

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Mi piaceva quando nevicava, là, in Curlandia. La città di S. si ammantava di neve e mi piaceva soprattutto guardarla dalla finestra del mio modesto appartamento, posto a un piano alto di un edificio del centro storico. Il vento soffiava incessante dal Baltico e i fiocchi di neve danzavano in mille giravolte disordinate, in un vortice impazzito che diventava più chiaro e luminoso sotto la luce dei lampioni.

Inutile dire che le giornate erano molto corte, in febbraio, là, in Curlandia, e che il mio unico desiderio, quando calava il buio, era andare a casa e restarmene alla finestra a guardare la neve cadere. Erano diversi mesi, ormai, che abitavo in quella casa nella città di S. perché ero stato chiamato come precettore privato dei figli di una eminente famiglia cittadina, i conti di T. Ogni giorno percorrevo a piedi tutto il centro storico per recarmi nell’elegante palazzo della famiglia del conte. La città di S. era molto bella: cupole dorate si innalzavano in ogni angolo del centro e l’oro che in esse si ammantava era rivestito di un verde marino, quasi bronzeo, che sembrava rivolgersi verso il Baltico cupo, distesa di acque che penetrava nei più profondi meandri della città per mezzo di una fitta rete di canali. Il mare di fronte alla città era adesso quasi del tutto gelato e nelle notti di luna si vedeva una luce lattiginosa che si specchiava sulla neve e sul ghiaccio, una luce tersa e silenziosa, che ristagnava tutto d’intorno come un dolce fantasma. Una volta, il mio amico Karl, che svolgeva la sua professione di istitutore presso un’altra casa cittadina, mi portò a fare un giro delle zone più vecchie del centro storico. Vi erano dei palazzi del Quattrocento dai muri colorati e ad uno di essi, rivestito di un colore rosso, in particolar modo era legata una cupa leggenda. Pare che quel colore fosse dovuto al fatto che il nobile padrone del palazzo si era innamorato di una vampira e, proprio da un bacio di lei, sarebbe scaturito tutto quel rosso. In seguito al bacio lui venne colpito da una maledizione e, da quel momento, nelle notti di luna, sarebbe apparso come spettro a ricercare le labbra della sua perduta vampira. Anzi, Karl affermava che, secondo molte dicerie sparse fra gli abitanti di S. (anche lui, come me, era forestiero), ancora oggi il suo spettro si aggirava nei dintorni di quel cupo palazzo color sangue.
Non prestai molta fede, in verità, a queste fantastiche dicerie e, tutte le volte che uscivo con Karl, non mancavo di prenderlo in giro per la sua credulità nei confronti di tutte le cupe leggende che aleggiavano nei vicoli del centro storico di S. Il palazzo dove prestavo servizio era veramente magnifico, maestoso e si ergeva di fronte ad una delle più antiche chiese della città. Un’altra delle leggende che Karl mi raccontò riguardava proprio il campanile di quella chiesa: pare che tanti anni fa gli abitanti di S. si svegliarono una mattina e videro il campanile sdoppiato. Secondo la leggenda, fu l’effetto di un terribile incantesimo del mago Gamel, un potente stregone che in quel tempo lontano teneva assoggettata la città. Tutti conoscevano la leggenda ma vi assicuro che nessuno vide mai il campanile sdoppiato. L’ingresso della casa era riccamente decorato e recava l’immagine di un animale reale o fantastico – in questo caso un unicorno, simbolo della casata del conte – come era uso presso i vecchi palazzi di S. Varcato un sontuoso portone di legno, un atrio grandissimo mostrava una imponente scalinata per mezzo della quale si accedeva all’appartamento privato della famiglia. Nella casa del conte dovevo dare lezioni di grammatica e di retorica a Afo e Blafo, i suoi due figli. Che fatica rincorrerli per quei corridoi lunghissimi e che fatica, ogni volta, ripercorrerli completamente per recarmi nella biblioteca dove si tenevano le lezioni! Quei due ragazzini erano alquanto svegli nello studio e devo dire che non dovetti faticare moltissimo in quei mesi che rimasi a servizio del conte (in altre situazioni di insegnamento avevo faticato molto di più). Ora, un’altra leggenda fra le molte che circolavano a S., riguardava proprio un libro che sarebbe stato conservato nella biblioteca del palazzo del conte. Si trattava di un libro magico, lasciato dal mago Gamel, e chi lo apriva poteva librarsi in volo sopra la città e recarsi dovunque nel giro di brevissimo tempo. Fatto sta che, comunque, di quel libro non vi era nessunissima traccia. Afo e Blafo mi dissero che loro, davvero, lo avevano visto quando erano molto piccoli… ma, nonostante fossero due bravi scolari, non me la sentivo proprio di credere a quelle fantasticherie da ragazzini.
Come ho già detto, eravamo in febbraio, proprio nel mezzo del carnevale e venni a sapere che, presso il palazzo del conte, si stava preparando un sontuoso ballo in maschera. Arrivò quindi la sera della festa e tutti i saloni della casa erano illuminati da miriadi di candele riposte su candelabri d’argento. Il conte aveva pensato proprio a tutto: due camerieri in livrea sbarravano l’ingresso dei saloni della festa e permettevano l’entrata solo a chi indossava una maschera. Inoltre, poteva passare soltanto chi beveva un bicchiere di un fortissimo liquore della Curlandia, offerto dagli stessi camerieri, per prepararsi all’atmosfera carnevalesca della festa. Io indossavo una semplice maschera veneziana che mi ricopriva metà volto mentre le maschere intorno a me erano riccamente decorate, composte da abiti sontuosi ed eleganti. Molte dame vestivano maschere veneziane e lunghi abiti sgargianti; altri invitati, sia uomini che donne, invece, portavano maschere terrificanti, ispirate ai più truci ed infernali dipinti di Goya: volti stregoneschi e scheletrici, segnati dalle turpi devastazioni di una micidiale follia. Altre maschere erano animalesche ed erano quasi il simbolo e il segno della metamorfosi umana in belva nonché l’immagine della vicinanza fra uomo e animale. Mentre, stupefatto, avanzavo nel lungo corridoio, venni affiancato da un gigantesco orso bianco: che spavento e, subito dopo, che sorpresa nello scoprire che non si trattava di altri che di Karl! Insieme a lui avanzai fino al salone centrale, dove si trovava il culmine della festa. Il conte e la contessa erano vestiti con due splendide maschere veneziane settecentesche e il mio sguardo venne successivamente attratto da una dama vestita di scuro che, come me, portava una semplice maschera che le copriva metà volto. Karl, prontamente, mi informò che si trattava di mademoiselle Pucinsky, una nobildonna polacca, lontana parente dei conti T. Iniziò quindi il gran ballo e, dopo aver bevuto diversi bicchieri di quel forte liquore che avevo assaggiato all’inizio, mi ritirai da una parte insieme a Karl. Mentre parlavamo, mi accorsi di una cosa: cioè che dalla festa era  sparita mademoiselle Pucinsky. Chiesi a Karl se la aveva più vista ma anche lui mi disse che era letteralmente scomparsa.
Stanco e affaticato, nonché ormai esausto a causa del grande strepito della musica e dei balli, salutai Karl e mi diressi verso uno degli altri saloni del palazzo per sedermi un po’ in solitudine e tranquillità. Passando vicino alla biblioteca mi accorsi di una flebile luce. Possibile che Afo e Blafo stessero ancora leggendo o studiando a quest’ora? E mentre c’era la grande festa di carnevale... entrai nella sala e quale fu la mia sorpresa quando vidi, seduta sul grande tappeto della biblioteca, mademoiselle Pucinsky, intenta nella lettura. Mi feci coraggio e, chiedendo scusa, entrai nella sala. Lei non sembrò per niente sorpresa del mio arrivo, anzi, mi invitò a sedermi vicino a lei sul grande tappeto bianco sul quale si allargavano i suoi lunghi capelli neri. “Voi siete il precettore, vero?” – mi chiese. Risposi di sì e, mentre mi stavo per sedere, mi disse: “mi potreste fare un grosso favore? Sarete sicuramente molto bravo nel leggere le storie… sareste così gentile da  prendere quel libro rosso, dalla rilegatura elegante, che si trova su quello scaffale della biblioteca più vicina a noi e, se vi va, potreste leggermi qualcuna delle storie in esso contenute?”. Io la ringrazia della fiducia che aveva riposto in me come narratore e come lettore e presi il libro rosso che mi aveva indicato. “Anche voi vi siete annoiato alla festa?” – mi chiese, e aggiunse: “troppa confusione, questa sala invece è tranquilla, in penombra e silenziosa, da qui si può guardare la neve che cade...”. Non me ne ero accorto fino a quel momento ma aveva ripreso a nevicare copiosamente. Dopo aver preso il libro, mi avvicinai alla finestra e guardai la neve che volteggiava in candide danze fino terra, fino a divenire luminescente sotto la luce dei lampioni. “Amo tantissimo guardare la neve che cade” – disse mademoiselle Pucynsky – “è un momento silenzioso e incantato...”. Presi il libro e mi sedetti vicino a lei, iniziando a leggere la prima storia. Era un racconto fantastico, di fantasmi e di maghi crudeli che volevano assoggettare paesi e città sotto il loro perfido dominio. Solo pochi maghi del bene lottavano ancora contro gli spettri del male, ma sembravano essere sopraffatti. La dama mi ascoltava in silenzio, concentrata e quasi incantata dalle mie parole. Mentre ero lì che leggevo vicino a mademoiselle Pucinsky mi accorsi di una cosa straordinaria, cioè che il tappeto si stava sollevando da terra e, lentamente, come spinto da una forza magica, stava uscendo, portandoci con sé, dalla finestra che si era spalancata improvvisamente. Io e la dama, seduti sul tappeto che si era trasformato in un vero e proprio tappeto volante, ci ritrovammo a volteggiare nella notte, sopra i tetti della città.
Volammo davvero sopra le case, perduti nella danza incantata della neve: nonostante fossimo all’aperto, in una fredda notte, vestiti di abiti leggeri, non sentivamo freddo, come se fossimo avvolti da un incantesimo. Sentivo un vero e proprio incantesimo provenire da mademoiselle Pucinsky: ella era felice mentre volavamo sul tappeto e si guardava in giro come una bambina stupefatta di tutta la bellezza che la circondava. I tetti delle case e le guglie delle chiese e dei palazzi erano candidi e ricoperti di neve: soffiava un leggero vento dal mare e dal porto dove le navi, con le vele ammainate e con le loro maestose alberature, sembravano quieti e giganteschi animali addormentati nelle loro tane di ghiaccio. “Anche io amo tantissimo guardare la neve come voi, mademoiselle Pucinsky” – le dissi – “e adesso stiamo vivendo veramente dentro un incantesimo fatato...”. A un certo momento il tappeto discese lentamente a terra e ci trovammo nella piazza più antica della città, proprio di fronte a quella casa dai muri rossi che, secondo la leggenda che mi aveva raccontato Karl, era abitata da un fantasma elegante ossessionato dalla sua vampira perduta. Tutto intorno vi era un silenzio totale, le antiche lampade della piazza disvelavano i candidi mulinelli della neve che danzavano come esili, piccole fate.
Così mi parlò allora mademoiselle Pucinsky: “Il mio vero nome è Pulcina e sono una fata della neve. Sono dovuta intervenire qui, nella città di S., perché il crudele mago Gamel stava per soffiare il suo turpe incantesimo su tutti gli abitanti. Egli era alla festa, ricoperto di una crudele e macabra maschera, e intendeva assoggettare tutti gli abitanti, uomini, donne e bambini: voleva ricoprirli di odio, di dolore, del sentimento della mancanza crudele, della tristezza che emerge dall’anima senza motivo e ti divora dentro, della rabbia e dell’invidia eterne, della paura e dell’odio verso chi è diverso... voleva cancellare dal cuore dei bambini la fantasia, l’immaginazione e l’incanto di tutte le fiabe. Solo io, come fata della neve, potevo fermarlo, solo io e quel libro rosso elegante che voi avete letto… vedete, io sono la musa delle fiabe, sono io che ispiro le fiabe che sono state scritte e lo saranno per tutti i bambini del mondo. Carissimo amico, è solo grazie a voi e alla vostra lettura che ho potuto fermare il mago Gamel... voi, con la vostra voce, avete permesso che il mio incantesimo avvenisse. Con le vostre parole mi avete resa felice e io ho potuto allontanare le crudeli maledizioni del mago Gamel… se domani mattina vedrete il campanile dell’antica chiesa sdoppiato, non sarà il segno del dominio malvagio di Gamel, ma sarà invece il segno del mio incantesimo che lo ha definitivamente sconfitto. Sarà il momento più dolce di una fiaba e del suo immaginario che ha sconfitto la crudeltà e l’aridità dei cuori”. Mi guardava sorridendo mentre, lentamente, il tappeto si stava sollevando di nuovo da terra. Intanto, volando nel cielo, era arrivato un animale dall’aspetto di un cavallo bianchissimo: era l’unicorno dell’insegna del palazzo del conte, finalmente liberato da un incantesimo malvagio che lo aveva costretto in quel bassorilievo. “Vedete” – disse Pulcina – “questo è Pocatrix, il mio fedele unicorno, che era stato imprigionato molti anni fa dal crudele incantesimo di Gamel… addio, dolce amico, forse ci rivedremo… sappiate che io posso apparire soltanto in inverno...”. Pronunciate queste parole, ella carezzò dolcemente il muso di Pocatrix e gli salì in groppa allontanandosi nel cielo, verso le nuvole e le montagne lontane, ricoperte di neve. Io ero veramente troppo stupito per poter pensare qualsiasi cosa in modo razionale. Mi dissi che allora, quella del mago Gamel non era una leggenda e, forse, non era una leggenda neppure quella del fantasma elegante e della sua casa rossa. Lentamente mi diressi verso casa e, probabilmente, ero ancora avvolto dall’incantesimo della fata Pulcina perché non sentivo per niente freddo, nonostante fossi senza cappotto.
Tornai al mio appartamento e mi misi alla finestra a guardare la neve cadere: non mi sarei mai stancato di quel meraviglioso spettacolo. La lampada nella mia stanza ardeva di una luce più viva, più calda e mi riscaldava il cuore come se fosse un vivo fuoco. Sul mio tavolo trovai un libro rosso molto antico: era un libro di fiabe e di racconti fantastici, lo stesso che avevo letto nella biblioteca del conte! Chissà – pensai − forse in quelle candide danze della neve che cadeva c’era la stessa Pulcina, la fata di una mia notte in Curlandia, perduta nell’incantato volteggio, avvolta dai suoi lunghi capelli neri.
Il giorno dopo il sole splendeva nel cielo, anche se faceva molto freddo. Appena sveglio mi diressi subito verso il palazzo del conte: tutto, apparentemente, sembrava normale quando guardai in alto e vidi due campanili completamente identici che svettavano sull’antica chiesa che si trovava davanti al palazzo. Il campanile si era sdoppiato, proprio come aveva detto la fata. Una sensazione dolcissima mi avvolse: era bello camminare nella neve, sentire i piedi che affondavano nel folto e bianco manto che ricopriva la strada, era bello sentire il caldo del sole sul viso. All’orizzonte, verso il mare, intanto, si stava addensando un nuovo fronte compatto di nuvole scure: segno che avrebbe nevicato ancora abbondantemente nelle notti successive. L’inverno e il suo incanto erano ancora lunghi.

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