“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 04 February 2020 00:00

Tra feticismo del reale e analfabetismo iconico

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Il libro Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale (Bompiani, 2019) di Gianni Canova, raccoglie nella prima parete una serie di scritti inediti o rielaborazioni di articoli usciti su riviste, mentre nella seconda ripropone vecchi lavori incentrati su alcune realizzazioni – riguardanti il fumetto, la letteratura, la televisione e il cinema – proposte come modello di diffusione di “democrazia culturale”.

Il volume prende il via da una riflessione su quello che l’autore individua come il principale problema italiano: l’ignoranza. Quell’ignoranza che, fattasi sistema nel Belpaese, diviene, appunto, ignorantocrazia al servizio del consenso e del potere.
Canova ragiona sulle cause, sulle reticenze e sulle complicità che hanno condotto a quell’assenza di democrazia culturale senza la quale non può esservi piena democrazia politica. All’origine del pessimo stato delle cose, lo studioso individua alcuni nodi irrisolti della storia italiana recente. A differenza di ciò che è accaduto altrove, in Italia l’avvento della “civiltà mediatica” non è stato preceduto da un’alfabetizzazione e da una scolarizzazione di massa: radio, cinema e tv in questo Paese sono arrivati prima, presentandosi in una realtà priva di un’industria culturale strutturata e in balia di uno snobismo di fondo degli intellettuali nei confronti della “cultura popolare” e del successo di pubblico.
Eppure, ricorda l’autore, tentativi di colmare il solco tra alta e bassa cultura sono stati fatti: basti pensare a quel cinema sperimentale di massa praticato da Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini, ma anche a quegli “straordinari confezionatori di prodotti di qualità legati ai generi” come Elio Petri, Mario Monicelli e Sergio Leone. Se tali tentativi non hanno avuto seguito, secondo Canova, la responsabilità deve essere divisa tra diversi soggetti. Certo, per spiegare il deserto culturale nazionale si possono additare i vertici dei diversi media e la classe politica, ma non di meno, sostiene lo studioso, anche gli intellettuali ed i professori. “Abbiamo coltivato un’idea di cultura solipsistica, snobisticamente criptica, del tutto indifferente al compito di diffondere il piacere della conoscenza. Abbiamo premiato il conformismo più che l’originalità, l’appartenenza più del merito. Abbiamo commesso la colpa più grave: abbiamo reso la cultura noiosa. Conformistica e noiosa. Peggio che bruciare i libri. Perché nel fuoco, almeno, c’è un odioso atto di censura a cui qualcuno si può ribellare”. Circa l’ottimistica speranza riposta da tanti nella “democrazia della rete”, Canova mette in guardia: l’accessibilità priva di competenze potrebbe migliore ben di poco, se non addirittura peggiorare, lo stato delle cose.
Tornando alle cause, lo studioso non manca di indicare tra queste coloro che, anziché mirare davvero alla democrazia culturale, hanno preferito virare verso “un ambiguo e peloso elitarismo progressista” e a tal proposito il fenomeno neorealista non appare affatto privo di colpe. Già a metà degli anni Settanta Vittorio Spinazzola – Cinema e pubblico, Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965 (Bompiani, 1974) – denunciava, e lo faceva da sinistra, l’equivoco di fondo del neorealismo: se da un lato questo pretendeva di rivolgersi agli ultimi, dall’altro conquistava interesse solo “nell’ala radicale dell’intellettualità borghese”. Il neorealismo non sarebbe pertanto riuscito a creare un nuovo linguaggio cinematografica capace di parlare a un pubblico allargato in modo da contribuire ad accrescerne l’autoconsapevolezza sociale e culturale. Nella loro autoreferenzialità, gli intellettuali avrebbero finito per realizzare “film sul popolo, ma non per il popolo”. Paradossalmente l’idea che un film potesse essere di qualità e al tempo stesso interessare a una platea allargata, in certi ambienti, è parsa del tutto fuori luogo ed è così che la produzione neorealista, rimuovendo la “questione del pubblico”, sarebbe finita col divenire un semplice alibi per gli intellettuali “impegnati”, ma in realtà incapaci di incidere socialmente, o disinteressati a farlo.
Canova ritiene che all’origine del problema neorealista vi sia quello che allo stesso tempo è un mito e un equivoco: il “cinema del reale”. “La formula – nobile ancorché talora abusata e fraintesa – spesso nasconde la rimozione dell’idea stessa di cinema come rappresentazione. Eppure Zavattini diceva che storicamente l’uomo si è accorto della realtà solo quando l’ha rappresentata. A Zavattini interessavano i ‘fatti banali’ di ogni giorno, sospesi nella loro indeterminatezza di senso, e non lo sfiorava neppure l’idea di trasformare il 'banale' in 'eccezionale'. [...]. Oggi, invece, la fame del reale sfocia in una ricerca spasmodica del marginale, dell’eccentrico, del bizzarro, del freak”.
In epoca recente, nel film votato al realismo Sacro GRA (2013), Gianfranco Rosi finisce con l’interessarsi esclusivamente delle frange più assurde e bizzarre che vivono ai margini del Raccordo anulare. Il “culto del reale”, l’ossessione per il “pedinamento del quotidiano”, sostiene Canova, “di fatto nascondono o dissimulano una debordante voglia di messinscena, di rappresentazione. Rosi spaccia per 'vero' ciò che è spudoratamente 'finto' e 'artefatto'. Se si passano tre anni a filmare determinate persone, è inevitabile che alla fine queste si trasformino in personaggi: sullo schermo non sono più loro stesse, ma ciò che il regista ha voluto che diventassero, o ciò che le ha guidate a diventare. Come i concorrenti del Grande Fratello, anche i personaggi di Rosi vivono davanti a una telecamera sapendo di essere ripresi. Cioè recitano se stessi. Operazione legittima. Se non fosse che anche qui – come per certi capolavori neorealisti – a essere assente è proprio il pubblico”. Ancora una volta, al successo di critica (Leone d’oro a Venezia) non è corrisposto un benché minimo successo di pubblico.
“Il fatto è”, sentenzia lo studioso, “che nel cinema italiano contemporaneo dilaga una sorta di pezzentismo estetico che spinge molti registi [...] a giustificare il mancato dialogo con il pubblico con la buona causa della messinscena degli ultimi, dei marginali, dei ‘pezzenti’. Di nuovo: lo chiamano ‘reale’. Il ‘cinema del reale’. In realtà si vergognano della finzione che perseguono”. Qua, ribadisce uno spietato Canova, sta “il peccato originale” del neorealismo: “L’aver trasformato in colpa la voglia di finzione e l’aver fondato – al cinema, ma non solo – il feticismo del reale”.
Difficile dire se al neorealismo spettano davvero tante responsabilità, resta però il fato che l’Italia vanta un bassissimo livello di competenze visive ed ha sicuramente ragione lo studioso nel denunciare come questo sia un paese in balia di un vero e proprio “analfabetismo iconico”, un Paese che ben si guarda dal pianificare e attuare un minimo di media literacy e di insegnamento cinematografico nelle scuole.
Per comprendere qualcosa in più della deriva italiana contemporanea, forse vale davvero la pena riflettere, insieme a Canova, sull’ostinata e perdurante incapacità di questo paese di uscire da un’idea di reale coincidente con l’eccezionale e sull’incredibile analfabetismo mediatico/visivo che caratterizza gli italiani. Non a caso, si tratta di due questioni che, da parecchio tempo, hanno parecchio a che fare con la gestione del potere in questo Paese.





Gianni Canova
Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale
Bompiani, Milano, 2019
pp. 292

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