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Thursday, 23 January 2020 00:00

Non c’è onore nel digiuno

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Torna l’affiatatissima coppia Lo Cascio/Rubini. Nato sul set di Mio cognato (anno di grazia, 2003, del “compianto” Piva, regista però, forse, da poco risorto), questo sodalizio artistico, che ci ha già regalato, un paio d’anni fa, la bella trasposizione teatrale del classico dostoevskiano, Delitto e castigo (di cui quest’altra opera rivela l’influsso, quantomeno nella scenografia, in cui ritroviamo almeno un oggetto di scena: la piccola scrivania dove Rodia Lo Cascio Raskolnikov riversava il suo flusso di coscienza), torna ora ad affondare i canini  in un altro poderoso tomo da mettere in scena: il Dracula, di Bram Stoker.

Molto più riprodotto, in realtà, di quanto letto, questo romanzo epistolare rappresenta una delle stelle di cui si compone la trinità gotica all’apice della sua forma: erede dei fasti della più decadente forma del romanticismo, rispetto ai classici del suo tempo, in Dracula la componente sessuale è assai meno sublimata (come, per esempio, ben dimostra la trasposizione filmica di Francis Ford Coppola, con tanto di Bellucci e amplessi interspecie campestri d’un gorilla brassensiano). Questa altro non è che una delle sfide che la messinscena dell’opera presenta. Un’altra, ça va sans dire, è quella della predetta forma epistolare. Un’altra ancora sono gli spossanti quanto numerosi spostamenti (vari i luoghi dell’azione: la Transilvania, Budapest, Londra). Per tacere di quella rappresentata dalla coralità dei tanti personaggi. Sfide che Rubini, in coppia con Carla Cavalluzzi, riesce a vincere (se non quasi sempre, almeno il più delle volte).
Il cinguettio che anticipa l’inizio della prima scena vede schiacciato contro la scrivania, ricoperto (infelicemente) da una parrucca bianca, Lo Cascio nei panni di Lord Archer, intento a rievocare, nelle sue memorie, i terribili accadimenti del passato (i panni dello scrittore, d’altra parte, li veste anche nella realtà, si veda alla voce Ogni ricordo un fiore). Indiscutibile punto di forza che vanta l’intera operazione, si anticipa, è proprio la convincente performance del cinquantaduenne palermitano, qui al suo apice, in forma smagliante più che nel precedente Delitto e castigo (dove la scena gli era rubata, sovente, da un Rubini camaleontico e in stato di grazia) o in un’Apologia di Socrate di alcuni anni or sono (nuovamente al Bellini, di cui è un aficionado attraversatore). Quasi sempre al centro della scena, la soggioga, con un’adesione al personaggio totalizzante, al punto da sembrarne, a propria volta, posseduto (come, tra l’altro, più volte, nella finzione della trama, succede al personaggio stesso). Più d’una scena, infatti, non fosse per la sua resa, sarebbe grottescamente quanto involontariamente ridicola. E invece, su quel letto su cui si riversa, risulta sempre credibile, sia mentre è posseduto dai ricordi del passato viaggio al castello del Conte (il nome Dracula non verrà mai apertamente menzionato) che quando è impegnato in un menage laocoontino, dalle tre vampiresse, lubriche come succubi. Finanche quando si presta a interpretare una donna cui il vampiro ha ghermito il figlio, è, incredibilmente, in parte. Lo Cascio, ormai, ha una sua personalissima quanto inconfondibile prossemica, che porta in dote ai suoi personaggi: le braccia sempre distanti dal corpo, per metà; il polso sporgente in antitesi con la mano; le dita sempre protese verso il vuoto, eleganti, come un quadro rinascimentale; il resto del corpo, flessuoso, sempre in anticipo rispetto ai piedi, versa in stato di semiabbandono, quasi una propaggine dimentica di sé, a segnare un personaggio mai compiuto, mai definito, sempre in progress, larvale nel suo essere a metà fra il superamento d’uno stato d’animo e il procinto d’affacciarsi a quello successivo, ma mai deciso a risolversi. Pinocchio eternamente incompiuto, trattenuto in un frame emozionale. Irretito dall’influsso malefico del Conte, ignaro della moglie che gli urla dietro, alle spalle; il viso perso nel vuoto, la luce dei fari che gli batte, come pioggia, sulla testa, proiettando lunghe ombre dall’arcata sopraccigliare e il naso affilato, fino a spaccare a metà le labbra sottili e il mento triangolare e sfuggente. Lo Cascio ha fatto propria l’incarnazione del nervosismo muscolare d’una maschera kafkiana (come quella de La tana che ha incarnato in passato), rendendo le sue interpretazioni vacillanti come quelle di un Anthony Perkins (ma molto meno mingherlino, come rivela quando si disfa della camicia). Che sia verticale o orizzontale, gettato sul plancito del palcoscenico a contorcersi, o tribolandosi, convulso, inarcandosi in una disperante danza disarticolata, il viso nascosto dal palmo delle mani, come una marionetta dai fili spezzati o una falena dalle ali tagliate, egli regala, in questo spettacolo, un’interpretazione (anche) dalla marcata impronta fisica, fin nel modo in cui attraversa a falcate, o salti, il palco: fatta di carne, sangue e polmoni, diaframma e lacrime, viscere e frattaglie.
Al solito, Rubini si ritaglia quel paio di ruoli necessari a fare da collante ai vari personaggi: dal vecchio armato di bastone (egli è sempre bravo nel calzare la maschera dell’acciaccante vecchiaia) in cui si imbatte la coppietta protagonista, al prof. van Helsing. Sempre padrone di sé, il cacciatore di vampiri incarnato da Rubini ha il compito di facilitare la storia. Se, ben si può dire, è regista anche nella finzione, senza perdersi mai d’animo, pure reca con sé, scoperte, le ferite del suo background. Per quasi tutta la prima parte, lui e Lo Cascio non si incrociano mai. Ma quando succede la prima volta, quando van Helsing ipnotizza Lord Harker, l’affiatamento dei due attori si palesa al pubblico in tutta la sua dirompente affinità elettiva. Rubini, di spalle, affida alla sua sola voce, calda come unguento lenitivo, e all’unica cosa visibile al pubblico, il dito sospeso nel vuoto, la sua interpretazione: in quella circostanza, il suo personaggio, come fa il suo alter ego registico, in un processo maieutico e ipnagogico, riesce a cavare, e dal personaggio in trance e dal collega attore, l’interpretazione che esige.
Unica donna in scena, quale moglie di Harker, la Mina Murray di Alice Bertini è un ruolo molto esigente. Dracula, infatti, non brilla certo per emancipazione femminile, e tutta la sessualità, in realtà, è demonizzata come una forza della natura incontrollata, quando non nevrotizzata dalla società perbenista e borghese. Sempre remissiva, sempre docile, sempre vittima, Alice Bertini sa però, dopo che è stata infettata dal Conte, riaversi, e sfoderare gli artigli d’una sessualità disinibita: quella che più annichiliva i contemporanei di Stoker. Quella incivile, pulsionale, non avvincibile: quella che urla parole di sfregio, quella che pretende la propria soddisfazione. Lo fa in due occasioni distinte: verso Harker, quando scopre dei suoi trascorsi con le tre vampiresse, provocandolo, e con van Helsing, quando l’influsso della parte del Conte che è in lei si fa più forte, approssimandosi la presenza di quest'ultimo. È il femminile che prepondera, scompagina e sfronda, erompe, incurante, travolgendo tutto. È quanto di vero questo romanzo vuol esorcizzare e castrare. Entrambe le volte, infatti, Mina viene ricondotta a più miti consigli, e la carica irrazionale della donna riportata laddove si vuole appartenga e non possa più provocare danni: che sia un cerchio nella neve o il ruolo di madre.
Al dottor Seward di Roberto Salemi mancano le occasioni, in realtà, per brillare di luce propria. Trascinato, perlopiù, dall’azione, specie nella seconda parte, il suo personaggio ha pochi monologhi, e più che altro incarna la sconfitta dell’io razionale e della scienza medica. Tramite questo personaggio si può credere che l’autore provi a imbastire un tentativo di rivalsa sulla religione del nuovo tempo, la scienza, da parte dell’inspiegabile e dell’indicibile: il vero scomparso del secolo scorso. Le sue armi, come le sue tecniche, sono quelle del navigato psicologo, direttore di manicomio, che però si limita a registrare e annotare, interrogare e appuntare, non potendo molto altro, l’uomo moderno, davanti alla follia o al sovrannaturale, se non averne sgomento, e sopprimerlo, come usa fare con tutto quanto contraddice i suoi teoremi o sbugiardi i suoi pretenziosi dogmi assolutizzanti. L’assistente di van Helsing, il suo Sancho Panza, o meglio, il suo Watson, è un Freud impotente, che perviene a una condizione di Jung, suo malgrado, strattonato a fortiori, incredulo.
Chi, invece, fa mostra di un talento in una parte superficiale o poco più (sebbene nel film di Coppola fosse interpretato nientemenoche da Tom Waits), se non marginale, piccola e che avrebbe dovuto essere di contorno, è quel Lorenzo Lavia (sì, figlio d’arte) che Lo Cascio aveva già incrociato sul set di Smetto quando voglio (era uno dei due latinisti). Il suo Renfield, ogni volta che invade la scena, la soggioga. È, realmente, lui l’elemento disturbante. Con la sua follia dissennata, egli spaura. Scattante, imprevedibile, è capace di conferire al suo personaggio destabilizzante, una presenza scenica non indifferente e mai prevedibile, in grado di mutare d’animo, come richiesto dalla parte, in pochi istanti. Quando allunga il suo sguardo sul pubblico, che lo incrocia, lo ghermisce e lo inchioda alle poltrone, impalandolo là dove si trova, manco fosse lui, il Vlad protagonista.
Per tutta la prima parte della pièce (due ore, senza intervallo), il Conte è una presenza che aleggia, che inquina, col suo fetore, i racconti di chi lo ha incrociato. Continuamente evocato, un morbo che si diffonde con sottile inquietudine, in un crescendo. La macchina è ben oliata, e la tensione sale, ogni volta, scena per scena, d’una tacca in più, fino all’insostenibile parossismo. La scelta di Rubini è assai audace. Tanti i precedenti con cui misurarsi che, per forza di cose, rappresentano un ingombrante metro di paragone cui è impossibile sottrarsi. Dracula è un’opera continuamente riproposta (ultima la serie BBC a opera di Mark Gatiss e Steven Moffat, che ci hanno regalato già quella di Sherlock: giusto per ricordarne l’attulità), cui il cinema, per citare solamente un medium, ha attinto, da sempre, e da subito. Rubini ha quindi preferito sfuggire il confronto con i predecessori, cercando d'essere inedito attenendosi religiosamente al testo, in maniera quasi filologica. L’attore cui ha scelto di affidare la parte è quel Geno Diana che ha incrociato sul set de Il grande spirito. Capelli scriminati, baffi a manubrio, uno e ottanta, camicia sbottonata fino al petto, sguardo spiritato, il Conte di questo Dracula parla una lingua incomprensibile, lo stesso slang dei gitani slovacchi (o gli zingari di Snatch) che lo servono e lo seguono, e che solo Harker riesce a tradurre. Al pubblico non è dato sapere cosa egli dica, ma è facile intuirlo. Accantonato il Nosferatu larvale di Max Schreck (quando si scorge il piano rialzato, sulla scena, sarebbe stato lecito attendersi di vederselo comparire, tagliato da una luce da espressionismo tedesco dal basso, sottile come un artiglio, nuovamente, come sul cassero della nave), come pure quello crepuscolare e infetto di Kinski, dimenticato l’indimenticabile decadentismo dandy di Bela Lugosi, il Conte che Rubini ha preteso per sé da Geno Diana è qualcosa di mai visto nella sua fedeltà (altra cosa se sia efficace o meno), e che ci sprofonda, col suo accento slavo, nel cuore di tenebra dell’Europa, fra gli isolati Carpazi. Ne deriva, non a caso, qualcosa di più simile al Lazar Ristovski dell’Underground kusturichiano, ben lontano anche da qualsiasi Rade Serbedzija, che pur avrebbe giovato maggiormente. Il suo physique du rôle trasuda un’allure maschilista e patriarcale, primitiva, che, così facendo, esalta quanto asimmetrico fosse il romanticismo di quando il Dracula venne scritto.
L’ultimo trattamento di Rubini vanta numerosi punti di forza, anche rispetto al precedente: l’idea, per esempio, di integrare il sound designer, G.U.P. Alcaro (premio Ubu 2014) all’interno della stessa scenografia, ritagliandogli un cantuccio nel sottoscala, in second’ordine, è uno stratagemma per esaltarne il ruolo, data la centralità del suo lavoro. La valorizzazione sonora, infatti, è sempre presente in tutta la messinscena, andando a sostenere il grandissimo lavoro del comparto scenico. Gregorio Botta, con poco più che qualche pannello, è in grado, di volta in volta, di far scaturire comparti ferroviari, ginecei di transilvanici manieri, alcove da sanatori mitteleuropei che strizzano l’occhio tanto a La montagna incantata di Mann quanto al piccolo mondo zweighiano/sveviano, cripte da classicone della Universal (talvolta anche della Troma), celle imbottite all’insegna del più tradizionale manicomio criminale. Ha gioco facile, quindi, la fantasia del pubblico nel riempire gli spazi d’ombra, lasciati vuoti dall’assenza delle rimanenti componenti, un po’ come si riempie lo spazio bianco fra una vignetta e l’altra in una striscia a fumetti (d’altra parte è, per sua stessa detta, la sua “un’arte del togliere, del poco, del meno, sperando di arrivare a un’arte del niente. Un’arte che sparisca e lasci solo, come una vibrazione, come un motore segreto, l’azione per la quale è nata”). A dar manforte a tutto, è il magistrale lavoro delle luci orchestrato da Tommaso Toscano, che si sposano perfettamente, ad esempio, con i teloni di spalle alla parete di fondo, che si issano in alto, come paratie catturate dal vento, evocando efficacamente la furia della tempesta, calando di netto, come le lame di un illusionista, a ghigliottinare l’azione scenica, come all’interno d’una lanterna magica. Luci che squarciano il palco in quattro quadranti, giacché è al loro gioco, in gran parte, per tutta la prima buona ora, che è affidata l’evocazione dell’appestante presenza del Conte. Luci che raggiungono il culmine dell’efficacia quando si riducono a una lunga lama, sottile come uno spillo, che va ad appuntarsi sul pomello della porta, unico oggetto scenico che rimane sempre immobile, infisso, al centro. Una porta che non viene mai aperta. Giusto sfiorata, ma mai schiusa. È la porta, infatti, che getta sull’abisso, e consente, a chi abbia la folle audacia di affacciarsi, di esserne inghiottito, come da profezia nietzschiana-zarathustriana. Un abisso in grado di imbiancare, d’un colpo solo, i capelli dell’Harker di Lo Cascio nella finzione (e del malcapitato Rubini quando si è accostato a questo impegnativo testo), riproducendo, sigillando il ciclo, il peccato originale, che ha dato il via all’azione, moderno Pandora, incorreggibile come Sisifo, in questi tempi di Prometei moderni.
Grazie alle meravigliose maestranze di cui dispone (come non riuscire a esser presi dalla meraviglia, all’ingresso della neve sulla scena, che prelude a un deus ex machina, la comparsa d’una slitta?), alla massa del materiale cui attinge, alla bravura degli attori che dispiega, il van Helsing finto/Rubini vero riesce a muovere il tavolinetto traballante della nostra fantasia, conducendoci per mano (quelle stesse mani che ci leva incontro) in una seduta spiritica che ci riporta a quell’età dell’oro in cui, smaniosi e temebondi a un tempo, come in un limbo incosciente, i prodromi di una sessualità agli albori, come demoni interiori, premevano per uscire, mescolandosi, nella turba preadolescente, a fantasmi puberali, dando libero sfogo a insopprimibili pulsioni istintuali che stracciavano qualsiasi freno inibitorio: l’indomabile irruenza della sessualità smodata, di cui il Conte è la feroce metempsicosi, mentre Arker, e noi con lui, la preda compiaciuta. Il Dracula di Rubini, infatti, sembra, per atmosfere, rifarsi, fra le sue influenze, al fascino neogotico d’un altro disturbante autore d’oltreoceano, lo scrivano di Providence, nel quale la turba turpidutidine sessuale giace tutta nel sottotesto, soppressa da una società pudica, se non pudibonda che, se le concedesse di liberarsi, ne rimarrebbe travolta. In entrambi, questa presenza soggiace, sottilmente suggerita, eppure tutto permea, giacché è tutto molto attutito. Non v’è aglio, non v’è sangue (a parte quello che spilla il Conte dal suo stesso petto), in questo Dracula. Non vi sono nemmeno i canini. V’è solo la disperante lotta della borghesia per non lasciarsi andare alla voluttà, spogliandosi di qualsiasi pudore. Una lotta, quella contro l’emancipazione sessuale, che qui perde una battaglia, ma non la guerra finale. La liberazione sessuale, come Stoker preannunciava (e che il suo Dracula si presta, così, a esorcizzare, dopo aver solo fatto intravedere), sarebbe andata irrimediabilmente persa, al di là di tutte le rivoluzioni sessuali successive, a vantaggio del puritanesimo borghese. In un’epoca d’unità di produzione, infatti, anche la più animale macchina da seduzione sarebbe stata costretta a chinare il capo, perché le fosse spiccato dal collo: con buona pace di Deleuze, l’unico desiderio che muove noi macchine desideranti s’è ridotto a essere soltanto quello del possesso materiale invece che del possesso culturale, o carnale, dell’altro o del pieno possesso della propria coscienza.





Dracula
di Bram Stoker
adattamento Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini
regia Sergio Rubini
con Luigi Lo Cascio, Sergio Rubini, Lorenzo Lavia, Roberto Salemi, Geno Diana, Alice Bertini
scene Gregorio Botta
costumi Chiara Aversano
musiche Giuseppe Vadalà
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
luci Tommaso Toscano
regista collaboraore Gisella Gobbi
foto di scena Filippo Manzini
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
lingua italiano
durata 2h
Napoli, Teatro Bellini, 17 gennaio 2020
in scena dal 17 al 26 gennaio 2020

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