“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 26 January 2020 00:00

Di quei silenzi che stanno attorno alle parole

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Ogni volta che Roberto Latini sale su un palcoscenico, piccolo o grande che sia, è un evento. Autore capace di spogliare la scena, di spogliarsi di tutto e allo stesso tempo riempire di senso e di emozione ogni istante, ha deciso di leggere i versi di La delicatezza del poco e del niente. Non è la prima volta che Latini affronta un testo in versi: d’altronde, ben si sposa la forza con cui l’autore romano piega le parole alle sue volontà interne con lo sforzo che il poeta fa per piegare la grammatica ai suoi versi.

Durante la lettura di Mariangela Gualtieri siamo testimoni dell’invisibile: si incrina il confine che separa realtà e finzione, i suoni che Latini trasforma in parole (o le parole che trasforma in suoni) sono sonde di mondi sommersi e indistinguibili. Inesistenti se non nell’attimo di eterna concretezza che i versi della poetessa sanno costruire ritmo dopo ritmo. La lettura de La delicatezza porta a chiedersi cosa ci sia nell’assenza, nel vuoto della scena: se nell’ombra dietro il corpo di Roberto − in quel lucido istante dove la luce sparisce − si annidino i demoni di lui o di lei, o di noi, se iniziano ad esistere nella pronuncia strozzata o urlata o sussurrata o trasformata del lettore. Ricordi dell’infanzia che si sovrappongono a rabbia che prende il posto del dubbio sul suo corpo, quello di Latini, che racchiude e schiude bellezza quando è rannicchiato nel delimitare dell’ombra, e poi in piedi: come sospeso. Ed è proprio il corpo che si contorce e si distorce per dare forma al suono, le gambe tremano e le braccia si piegano così da trovare la giusta vibrazione, e i due microfoni lanciano la sfida a duplicare la voce, a renderla viva, a renderla materica.
“Le parole mi deludono” dice Mariangela per bocca di Roberto e allora via, prendiamole, facciamole uscire e facciamole nostre, e prima di farle uscire freniamole, mastichiamole, storpiamole, trasformiamole, trasmutiamole in pesantezza, in odore, in dolore. Ma “quanta nostalgia avremo dell’umano” quando il ricordo diventerà solo suono; “non avremo le mani, non potremo fare carezze con le mani, e nemmeno guance da sfiorare leggere”. Ed ecco allora dove si annida e dove nasce la potenza e l’armonia disperata della Delicatezza di Roberto Latini che legge Mariangela Gualtieri: in quel desiderio che si fa presto rimpianto, nella consapevolezza che lo sforzo produrrà altro dolore e altro sforzo, in quella voce che ubbidisce alla volontà della materia e diventa altro da sé, da noi. Quel microfono appoggiato alla gola, anzi sulla gola, quasi a cercare altra fuoriuscita di fonema che non sia dalla bocca, quasi a cercarne la verità altra e vibrante; quelle mani e quei piedi che si rinchiudono in loro, si aprono, tremano. E quei due microfoni quasi costruiscono la lontananza, perché la lontananza suggerisce il peso: Latini libera il peso e ci fa più leggeri, la leggerezza del corpo di Roberto vestito di bianco diventa delicatezza e ci invade di armonia, di quel post orgasmic chill che è malinconia e liberazione e quindi felicità sfuggente. Le parole ci spingono su un precipizio, buio come il piccolo palco dietro Latini: il vuoto è il limite che varchiamo, la trasformazione avviene senza fine.
“Appartengo all’essere e non lo so dire”. E gioiamo.


La lettura che stai portando in tournée La delicatezza del poco e del niente: sulla sua autrice hai detto che “arrivare a Mariangela vuol dire arrendersi alla poesia”. Da una parte un’autrice che ha sempre sottolineato l’inadeguatezza delle parole, dall’altra tu che usi le parole come punto di partenza per far nascere idee sinestetiche mentre la forma di adegua al contenuto. Può nascere da qui l’intersezione con la Gualtieri?
Diciamo che una poetessa come Mariangela in qualche forma è già in corso, prima di incrociarla, prima di intercettarla davvero. Questo − rispetto al mio personale percorso − è un lavoro legato alle parole e alla capacità che hanno le parole di tacersi, e quindi alla qualità del silenzio che le parole riescono a produrre. È una riflessione recente alla quale arrivo con una certa emozione, pensando che forse davvero più che dire le parole il tentativo è quello di dire i silenzi intorno alle parole: costruire silenzio, piuttosto che costruire testo. Quel che c’è nelle poesie di Mariangela (che sono delle formule, rispetto alla bellezza e alla capacità che hanno di creare i silenzi) è una dimensione alla quale arrivo il più disarmato possibile, arrendendomi a una resistenza che è quella necessaria per condurre fondamentalmente la sintassi. Forse la poesia stessa rispetto alla prosa fa questa cosa: sollecita la grammatica fino a una resa, fino a dirle “non c’è bisogno, si può stare in un modo diverso”. Ciò che avviene quindi sul palco, anche quando lavoro con altre persone e non solo quando sono solo, è cercare di non disturbare lo spettacolo. Questo è il compito più importante ed è tra le sensazioni che un attore dovrebbe portarsi. In casi come questo, La delicatezza è un concerto scenico, l’attore deve essere il più trasparente possibile, deve essere quasi attraversato, non può essere un riferimento di nessun altro genere ed è invece solo un mezzo attraverso il quale queste parole arrivano agli spettatori e, una volta arrivate, l’attore non può disturbare quell’approdo.


Hai parlato di silenzi, di essere un tramite, di essere disarmato in scena, di essere attraversato: hai anticipato in qualche modo ciò di cui volevo parlare, ovvero quella sorta di senso di sacro che a volte emerge dalle tue messe in scena. Un “sacro profano” che sembra provenire dall’unione delle parole, dalla ricerca sul suono e dal silenzio.
Per me è sacra l’occasione che abbiamo insieme, noi sul palco e gli spettatori in platea e lo dico anche da spettatore: è qualcosa di sacro essere nel tentativo del teatro.
E non è detto che accada, non è dato saperlo.
Quest’occasione non può essere diminuita da nessun atteggiamento, quindi ciò che normalmente mi porto sul palco è il pensiero che gli spettatori abbiano una responsabilità fondamentale, non sono coloro dinnanzi ai quali si apre il sipario ma sono parte integrante di una restituzione costante e continua. Lo spettacolo si sa, cambia a seconda delle platee, e cambia nella capacità che hanno le platee di respirare insieme allo spettacolo.


In tutti i tuoi lavori, dai Giganti al Cantico dei cantici a Sei fino a In exitu parti da un lavoro altrui e compi questa ricerca sul suono, sul fonema. Come pieghi a te, se pensi di farlo, la volontà di senso delle parole altrui?
Accompagnando. Nel caso del Cantico dei cantici forse è più evidente, è una questione fondamentale rispetto ai testi che diventano drammaturgia. Per drammaturgia intendiamo la capacità altra delle parole di essere oltre la narrazione, oltre la grammatica, la capacità di essere di fronte a quell’aspirazione che è il teatro e questo concetto riguarda la temperatura: le parole hanno una temperatura diversa, i testi vanno a varie temperature e io ho bisogno come attore − come “colui che agisce”, come quello che reagisce alla scena − di essere e di sollecitare il mio corpo e la mia temperatura per arrivare a un’emissione possibile. Ci sono delle parole che non potrei dire con quella qualità se non fossero dello scambio con la platea; c’è bisogno che si arrivi ad una progressione, che poi spesso è una regressione... però siamo dentro a una drammaturgia e quindi dentro a un percorso di senso.


Abbiamo nominato prima Sei, uno dei tuoi lavori più recenti, con in scena Piergiuseppe Di Tanno. Lui è assolutamente straordinario e a volte si percepiva la presenza dentro e dietro di lui dell’autore. Quando capita di portare in scena altri interpreti come ti approcci a loro, come e cosa cerchi di trasmettere?
Quello che fa Piergiuseppe è uno spettacolo che soltanto Pier potrebbe fare così: non ho messo lui nel mio spettacolo, se l’avessi fatto io l’avrei fatto in un altro modo. Di certo era chiaro fin dall’inizio che Pier non avrebbe fatto me e che io avrei invece accompagnato lui nel suo proprio percorso. Ciò che dico agli attori − ed  è un concetto piuttosto chiaro per chi è sul palco, e se non lo è lo diventa, chiaramente, ogni volta che l’autore dice, muove, respira, ogni volta che sta decidendo un tempo, sta decidendo una questione che però non è fine a sé stessa ma in relazione con gli spettatori continuamente − è che io mi fido degli spettatori, mi fido delle platee, mi fido di quello che le platee possono restituire o di quello che possono immaginare da sole senza che debba essere io ad accompagnare la mia visione personale. Spero sempre che non vengano a vedere il MIO spettacolo, che non se ne vadano con il MIO spettacolo, ma che siano venuti e che se ne vadano per qualcosa alla quale io potrò essere difficilmente ammesso, o forse soltanto così, per una sfumatura, o qualcosa che ha a che fare con una sensazione, con un sentire.

Hai portato spesso i tuoi lavori a Primavera dei Teatri, che è anche una vetrina particolarmente importante in Italia rispetto alla critica. Il teatro è forse oggi l’unica arte rispetto al cinema, alla musica, alla letteratura, nella quale la critica ha un peso preponderante: nel senso che spesso accade che la parola di un critico possa cambiare e influire sul percorso di uno spettacolo. Perché nel teatro ancora resiste, fortunatamente, questo peso, quest’osmosi tra chi studia dall’esterno lo spettacolo e l’autore?
Perché il teatro passa per il patto teatrale. Passa per un concetto che è quello che il patto teatrale si rinnova, costantemente: se i critici sono degli spettatori professionisti, se i critici sono nella disponibilità dell’incontro rispetto all’attore e alla compagnia, questo accade durante lo spettacolo, non soltanto quando scriveranno la recensione. Questo fidarsi degli spettatori, che dicevo prima, è un fidarsi di chi guarda criticamente e non soltanto nel gusto di scegliere il teatro come occasione (non sto parlando ovviamente di intrattenimento), di chi sceglier il teatro come possibilità.
Ci sono alcuni critici che vedono percorsi e quindi non soltanto lo spettacolo; ci sono alcuni critici che nel mio caso hanno visto anni e anni di proposte, ma per me lo spettacolo è quello. È una proposta: non afferma mai niente. Non può fermare e non può affermare. Personalmente ho bisogno di avere riscontro, e non avrebbe senso se così non fosse, e non solo rivolto ai critici: ma in questa arte qui credo che questo possa accadere perché alla base, come dicevo prima, c’è un patto teatrale, il patto che va rinnovato costantemente, sera per sera.
Quindi siamo nello stesso patto.





La delicatezza del poco e del niente
di
Mariangela Gualtieri
con Roberto Latini
musiche e suono Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
produzione Fortebraccio Teatro
foto di scena Fabio Lovino
lingua: italiano
durata: 1h 5’
Lamezia Terme (CZ), Teatro TIP, 18 gennaio 2020
in scena 18 gennaio 2020 (data unica)

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