“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 19 December 2019 00:00

Συμπάθεια by the Devil

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La resa in scena a firma di Andrea Baracco del samizdat capolavoro di Bulgakov è magistrale in quanto riesce nell’impervia impresa di trasfeire in toto il realismo magico dell’opera originale, nel teatro, che è arte del reale, realtà vivente e vivida, materia che respira insieme a noi, a pochi passi, tutto il realismo magico dell’opera madre. Come Berlioz subirà, inerme, il fascino da stupor mundi del misterioso Messere, Woland, fino a perderci, letteralmente, la testa, così a noi non rimarrà che rimettere gli occhi nelle orbite per riaverci della grandeur di uno spettacolo che non fa sconti, e da cui nessuno rimanere scontento.

Il Maestro e Margherita è un libro che ha una storia a sé, di cui l'Italia è parte interessata. Un’opera amatissima e particolarmente sentita (non sempre altrettanto letta) e ormai classico affermato. Degno erede delle poderose opere dostoesvskiane, sia a livello analitico che come intreccio (come nei Karamzov anche ne Il Maestro e Margherita c’è un romanzo nel romanzo. Per di più, entrambi a tema biblico), la sua riduzione è sicuramente nient’affatto facile, tant’è che al cinema ancora si fa attendere una resa fedele (ivi compreso, probabilmente, il film che ne è stato tratto, con Tognazzi nei panni del Maestro, ma è proprio di questi giorni l’annuncio che una prossima trasposizione, a firma di Baz Luhrmann, reduce da Il Grande Gatsby, dovrebbe essere in arrivo). A ciò è dovuta l’aura che lo aureola, da sempre, come un libro culto. Facile, quindi, immaginare il timore reverenziale che deve aver afferrato Letizia Russo nel curare questa riduzione: una singolar tenzone impegnativissima, e per l’intreccio, e per la trama, e per i molti personaggi coinvolti. Ma non per il fascino di questi. Un fascino che, la sua penna, riesce a tenere immutato.
Il sipario si solleva, e ci troviamo in un bugigattolo doestoevskiano, con pareti spoglie, scarnificate persino dalla passé carta di parati floreale, tipo kommunalki, come quello di Nastenka, o di qualsiasi bigio apparatcik, come il proiezionista dell’omonima pellicola di Koncalovskij, disadorni, senza mobilia, escluso un materasso, dove sta, medusato, nel suo naufragio interiore, il Maestro. Le pareti, anch’esse spoglie, sono istoriate, come l’interno della grotta di Lascaux da graffiti, immagini evocative, scarabocchi di bimbi, tabule rase dove i personaggi lasciano il loro segno, come studenti che graffitano i banchi o disegnano oscenità sul retro delle lavagne. Le ombre che si affacciano, però, su questa caverna platonica, sono le inquietudini dell’inconscio, i Démoni interiori che gettano la loro ombra sui nostri personaggi in crisi. Perso nelle sue elucubrazioni, assistiamo al precipitare del Maestro nella sua desolazione: non lo sapremo che poi, ma stiamo assistendo a un incipit cruciale che solo dopo, rievocato, verrà retroilluminato di retroattivo significato. Allo specchio, di spalle, Margherita si strugge, come fievole fiammella imprigionata, falena di se stessa, al di là dello specchio che ci getta il suo riflesso distorto, nella pallida luce d’un amore che la realtà ha ridotto allo stoppino. Cambio di scena. I cambi di scena sono oscenamente fluidi (ma sempre esaltati dalla musica varia di Giacomo Vezzani, flautata quando serve, a tambur battente quando incombe): i versatili attrezzi di scena di Marta Crisolini Malatesta mano-messi dagli stessi attori. Nel giro di pochi istanti, e con un gioco di luci, ci troviamo, come lo stesso Berlioz, trasposti dalla Mosca stalinista alla Gerusalemme pilatesca, con un gioco straniante. Una semplice fune movimentata a mimare l’andirivieni ondivago della Moscova, e ci ritroviamo anche noi immersi insieme a Ponyrev. Come in Alice, ogni angolo della stanza si fa porta, che chiude, si apre, sbatte, vomita un personaggio, allunga uno squillante telefono in bachelite nera (assai più temibili dei telefoni bianchi, erano i telefoni del Terrore rosso, con, all’altro capo, il KGB o i diffamanti delatori, morbosi ascultatori delle vite degli altri), ne fa scomparire un altro, introduce o sottrae un oggetto di scena, allunga una luce o dipinge un’ombra, come un purgatorio, un ciclodromico limbo, in cui tutti turbinano, di passaggio, Paolo&Francesca mai domi. Di volta in volta, finestre, specchi, quadri, si animano, e danno su tunnel, piazze (rosse), la skyline di Mosca, con le sue cupole a bulbo, camere d’albergo, appartamentini, celle di manicomi, bassifondi gork'jiani, perfino squarci infernali. Impossibile, infatti, prevedere dietro l’ennesima porta sul palco, a quale mondo avremo accesso. All’interno di questo diorama gigante, infatti, tutto è possibile ed esso a tutto si presta: decollate teste volanti, passerelle dove sfila la danza macabra d’un consesso da sabba, sveglie sospese, fino all’altalena, sulla quale Margherita è libera, stregata maliarda che affattura, infine, d’affondare nella sua femminilità, facendosi strega volante sui tetti moscoviti. Il continuo andirivieni di questo interstizio, perfettamente e genialmente funzionale a evocare tanti e tali mutamenti di scenari, sembra rievocare quello del Tango di Zbigniew Rybczynski. Come anzidetto, il gioco di luci di Simone De Angelis è, a ciò, cruciale e congeniale, e anch’esso, in grado di raggiungere insperate vette evocative: come la luce che illumina il piovoso corteo funebre del malcapitato decapitato presidente della MASSOLIT, che sembra uscita da una pellicola orientale. O quella alla fine della prima parte, quando Margherita viene cooptata, selezionata e ghermita dallo Straniero Misterioso, all’interno del teatro, fra il pubblico, che inconsapevole recita la parte di se stesso, e poi irretita nelle tenebre. Nel gioco delle ombre, il viso mefistofelico d’un superlativo Riondino (Rubare la vita agli altri, Fandango Libri), che prima era espressionisticamente intagliato nella luce del riflettore, come in un film di Murnau, viene inghiottito, e il suo ghigno, da Conrad Veidt del Gwynplain, l’homme qui rit, scompare come quello del gatto del Cheshire, lasciando dietro di sé solo una mano intorno al collo di Margherita. Una menzione d’onore val la pena spenderla per attrice e attori, bravissime e bravissimi tutti. Se le controparti femminili spiccano poco, ivi compresa la pur brava Margherita di Federica Rosellini, oltreché la vampirizzatrice discepola del diavolo, Carolina Balucani, o la serva strega, Caterina Fiocchetti, forse perché ancillari, quelle maschili, invece, dominano.
Alessandro Pezzali, un Rolando Ravello più smunto e giovane, già visto in Riccardo va all’inferno, all’inferno vi resta, o meglio, da lì torna, nella parte di nosferatesco accolito satanico, prestidigitatore dal timido burlesque.
Francesco Bolo Rossini è (oltreché Berlioz) sia Levi Matteo – il vero cattivo, più traditore del pensiero messianico dello stesso Giuda, ispiratore di quel Vangelo a cui, sì, il Messere non crede, mentre assai più veritierio è il romanzo d’invenzione del Maestro, che, infatti, non può che essere inviso sia a Levi che all’Altissimo, al quale, evidentemente, la travisazione a opera della Chiesa del pensiero del figlio, filosofo, pacifista, rivoluzionario, non spiace, mentre molto addolora il presunto Avversario, che si scopre più amico dell’uomo che non il Padre di tutti. Si scopre che più rasente alla verità è il Signore delle Menzogne, in Bulgakov/Maestro, che non il Signore, uno e trino – che Lichodeev, personaggi distanti come non mai.
Maestro e Ponzio Pilato sono intercambiabili, a un cambio d’abito l’uno dall’altro, giacché incarnati sempre dallo stesso Francesco Bonomo. Entrambi maledetti, entrambi indecisi, entrambi subiscono un destino che non si sono scelti, vittima e carnefice insieme del Fato dal quale si sono lasciati foggiare.
Diego Sepe è Rimskij e Stravinskij a un tempo, e la sua danza dei già sopracitati telefoni è destinata a rimanere impressa. La sua mimica, la sua fisicità, il modo in cui, senza proferire parola, riesce, con tutto il suo corpo, che padroneggia con la sicurezza d’un artefice col proprio strumento, a esprimere il turbamento del suo personaggio. Muto, con l’abilità d’un attore da vaudeville, quasi cartoonesco ma senza essere macchiettistico, burattino fumettoso d’un videogioco più grande di lui.
Il Michele Nani già Un nemico del popolo, è qui sia Varenucha, segretario e faccendiere del teatro di Varietà, vampirizzato controvoglia, comicissimo nella sua infagottata voce lirica, che il deforme e afono aguzzino romano che vessa Gesù, pardon, Jeshua Ha-Nozri, sia sul Golgota che al supplizio, infine, crocifiggendolo: perfettamente in parte, sadico come fosse uscito da un hardboiled animato, è un boia in latex.
Ma sono tre in particolare, che svettano, nel seguente ordine:
Giordano Agrusta è bravissimo nell'interpretare uno dei personaggi più amati (a torto o a ragione) della letteratura novecentesca: il ribaldo felino ippopotomatesco, Behemoth, gattone nero, grasso come pochi, lepido e lezioso, che ha in spregio i tram e nutre una passione sfrenata per libagioni in cui pascere e oziose discettazioni filosofiche. Può un uomo, solo armato di un cespuglioso groviglio di barba incolta e zazzera scarmigliata, foderato in una vestaglia pallida, interpretare convincentemente un felino dal vente prominente? Sì, se a intepretarlo è Agrusta che è un piacere ammirare anche solo scalpicciare, ondivagante, in punta di zampette, rigorosamente orientate alle 10:10, col prominente ventre in fuori, le mani flesse, acciambellate in grembo, e il viso sempre intento a quelle smorfie che ai gatti riescono così tremendamente bene: gli occhi minuscoli, il musetto arricciato, i portabaffetti che si levano dubbiosi, da cui si tendono le vibrisse, ratte come antenne, a captare gli ordini del suo capo. In grado di attingere all’animalità intrinseca e connaturata che, secondo Giordano Bruno, ogni umano si dovrebbe portar dentro, questo trentacinquenne che sembra uscito dalla mente di John K. Toole sarebbe stato in grado di interpretare, dinsvoltamente, questo come qualsiasi altro gatto letterario (nessuna creatura, infatti, è più letteraria della tigre domestica), come nessun altro potrebbe mai. Se non oscura il diavolo in persona, è anche perché...:
Oskar Winiarski non è solamente un convincente Gesù, pardon, Jeshua Ha-Nozri, come non se ne vedevano da tempo. Perché se il ruolo del diavolo è ambito, affascinante, e indubbiamente piacevole, quello di Gesù, qui disegnato come uno juròdivij, dalla bonomia disarmantemente à la principe Myskin, roussonianamente naïf, è ancor più sfidante. Eppure, al di là dell’essere in grado, con pochi gesti, di spogliarsi dei panni involontariamente comici di Bezdomnyj, per indossare il sudario del nazzareno, Winiarski (accento dalla sfumatura slava) riesce, complice un fisico che lo aiuta a impersonarlo in maniera vivida e verosimile, eppure umana, uscendo dall’iconografia cristologica troppo apologetica, a produrci un Gesù modernamente, nella sua involontarietà, eroico, genuinamente ingenuo, disarmante nella sua trasparenza, capace, anche fra una frustata e l’altra, di vedere, riconoscere, apprezzare e affermare, con convinzione, la natura essenzialmente buona degli uomini, realmente desideroso di lenire i dolori anche del suo seviziatore. La sua è un’interpretazione, anche vocale, capace di spaccare il cuore più indurito, anche quello di Pilato (ma non di Caifa).
Infine, ed era più annunciata della stessa attesa godotiana, Woland, l’unico personaggio che interpeta solo se stesso. Debitore di una lunghissima sfilza di grandissimi performer che si sono misurati col Maligno par excellence, verso i quali è costretto a pagare l’annoso tributo (dal mefistofelico Al Pacino, alle ultime incarnazioni del male insensato: impossibile non accostare la sua risata folle e stridula, così in stridente contrasto con la voce cavernosa, bassoventrale, da, appunto, indemoniato da se medesimo, al Phoenix dell’ultimo Festival di Venezia), eppure Michele Riondino non risente del paragone, ed è, compiaciutamente, bravissimo, ammantato dei lussuosi panni del Nemico dell’uomo. Fisicamente sempre laterale, obliquo, quasi serpentino, come la forma assunta dal tentatore nell’Eden, claudicante come un imperatore romano o il Kaiser Soze spaceyano (che, infatti, cita il trucco più riuscito del diavolo stesso: quello che Woland subito sbugiarda, a spese dell’incauto editore nel cui appartamento subentrerà per il suo sabba annuale sulla Terra), rettiliano come il luciferino Peter Stormare di Constantine (Keanu Reeves è un habitué di ruoli che lo contrappongono al Primo Caduto), ne condivide il maligno compiacimento, giacché il diavolo bulgakoviano ha poco dello struggimento romantico ed eroico di quello miltoniano. Riondino è innegabilmente in parte, come innegabile è quanto sia versato a calzare questi panni, come trasuda da ogni, studiato, gesto, in un’opera che, nella sua totalità, non lascia niente al caso. Sotto il cerone da Pierrot, il rossetto da iena nel ghigno sicofantico, la scriminatura dei capelli che gli cadono, coprendo metà del viso, conferendo al suo sguardo una sinistra filettatura, il collo reclinato e ripiegato su se stesso, come fosse incrinato, il mento puntuto, sempre proteso, sputa sentenze, irride la sicumera degli uomini, il cui cammino nella storia ha accompagnato dagli inizi (Et in arcadia ego), quello stesso che ora puntella col bastone, manco fosse propaggine di sé. Riondino trascina il piede caprino, o si adagia, angelo caduto come nobile decadente, su divani boéhmien o panche in giardino, egli è, e sempre resta, luciferina incarnazione. Eppure, nel finale, quando incrocia lo sguardo con il mandato dall’Alto, Levi, manifesta la sua empatia, la sua profonda umanità, a differenza dell’Avversario, elargendo doni e soggiacendo al volere dell’Altissimo: un Altissimo che, invece, nel suo silenzio, non si palesa, e quando lo fa, è solo per amministrare una giustizia disumana, imperciocché divina. Alla fine dei conti, all’uomo, che si è disfatto di tutti i culti, i misticismi e le grandi credenze, toccherà confidare nella volubile misericordia d’un diavolo, inguaribilmente romantico, spietato come il cuore, che non affidarsi a un dio esattore, distante e silente, un Grande/Piccolo Padre/Padrone, che ci giudica col freddo calcolo del banchiere e ci compensa col misurino, disumanamente materiale e pragmatico, come l’uomo nuovo staliniano o l’homo oeconomicus di oggi, il che fa, di Bulgakov, un autore ancora più attuale di quanto non fosse quand’era ostracizzato. Perché a furia di frequentare le umane cose dabbasso, a distanza ravvicinata, rasente, cabrando, dalla sua caduta dall’alto, virando la precipitata per intrattenersi  con quelle umane, imperfette ma proprio perciò affascinanti, creature, il Gran Messer Lo Diavolo ha finito per finire influenzato a sua volta, capace, nell’ottemperanza dei voleri superiori, di ritagliarsi margini per sé, curando gli umani che giudica meritevoli – i dannati, gli ultimi, i perditempo, gli esclusi, i critici, i marginali, i poeti, gli scrittori, gli amanti perduti, le amate che si perdono, più Margherita che il Maestro, più l’amore di lei che il volere di Lui – più che l’Artefice stesso. È un diavolo che decapita chi non crede in lui, beffardo verso gli uomini che dispensano certezze, borghesi che divinizzano la razionalità della tecnica, ironico, dispettoso, ma, sotto la patina dell’indifferenza affettata, non può non chinare il capo davanti al giogo d’una donna, unica capace ancora di smontare la ragione degli uomini, per i quali non esiste più nulla, succube alla disarmante forza che cova nel cuore delle Margherite di questo mondo.





Il Maestro e Margherita
di Michail Afanas’evič Bulgakov
riscrittura Letizia Russo
regia Andrea Baracco
con Michele Riondino, Francesco Bonomo, Federica Rosellini, Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe, Oskar Winiarski
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Simone De Angelis
musiche originali Giacomo Vezzani
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
con il contributo speciale di Brunello Cucinelli Spa in occasione dei 40 anni di attività dell’impresa
foto di scena Guido Mencari
lingua italiano
durata 3h
Napoli, Teatro Mercadante, 10 dicembre 2019
in scena dal 10 al 15 dicembre 2019

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