“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 12 December 2019 00:00

Galeotto fu il benessere e colui che lo porse

Written by 

I grandi maestri del racconto breve sono pochi, e recenti. Se uno è Carver, l’altro, probabilmente, è Dürrenmatt. Dürrenmatt, infatti, lo si ricorda per alcuni dei più perfetti, ben ingegnati, racconti brevi che ci sia dato leggere, fra i quali meritano di essere citati, perlomeno, il rashomoniano Il lamento della Pizia e Il Minotauro.

Notevolissimo, però, anche La panne, da cui Alessandro Maggi trae uno spettacolo teatrale dalle atmosfere, a onor del vero, kafkiane, in una pièce che mima, quasi, l’unità spaziotemporale aristotelica, che, resa (nuovamente) al cinema, certo ci darebbe un altro Carnage polanskiano o un The Big Kahuna.
Il tema, d’altra parte, non poteva che prestarsi, trattando della giustizia (si sente l’eco del prologo de Il processo), anche se privata (e in ciò si risente, se vogliamo, l’aggiornamento e il surplus dürrenmattiano, su cui torneremo). Derivativo della matrice letterario a monte, lo spettacolo, di un’ora e mezza, non può risentirne, appropriandosi dei dialoghi brillanti, dell’eloquio forbito, e di un’azione scarnificata, poggiando, quindi, la sua buona riuscita tutta sulle spalle del pugno di attori: cinque. Più un’attrice. La stessa messinscena di Maria Crisolini Malatesta è semplice, e ridotta al necessario, eppure efficace per evitare che l’occhio s’affatichi e per conferire quell’aura da quintessenza metafisica in grado di introdurre, da subito, lo spettatore nell’aria di cui lo spettacolo è intriso: una sospensione del reale, una sfida alla soglia di accettazione, da cui scaturiranno le riflessioni su grandi tematiche dell’uomo, di cui la giustizia è solo la prima, e più immanente. Un ermo colle che richiama la celebre foto di apertura di Windows (la bliss vista da più di un miliardo di persone, ogni giorno, per anni: forse metafora di come un prodotto commerciale abbia colonizzato le nostre retine?), dietro la quale, su un fondale, è proiettato l’infinito del cielo, con nuvole erranti, tramonti fiammeggianti, costellazioni che orbitano, a segnare un tempo sidereo indifferente alle umane vicende che non sono che destinate, contro di esso, a naufragare dolcemente come trascurabile pulviscolo. Il cielo stellato, sopra il nostro fab four, e la legge morale (?) dentro di sé.
L’innesco che fa da anfitrione all’assurdo è il classico cliché da cinema horror: l’auto (da cui la panne eponima) di un commesso viaggiatore si guasta in un paese di campagna ed egli trova a ospitarlo, nella casa sulla collina, non un cadaverico maggiordomo che lo traghetti in un Rocky Horror Picture Show, non un Norman Bates che lo introduca alla madre e nemmeno lovecraftiani adoratori del diavolo yezedi, ma un giudice in pensione. Che la sera suole riunirsi, insieme a un ex-procuratore pubblico, un ex-avvocato difensore, e un innocuo spettatore (oltre alla narratrice e cameriera, Patrizia Di Martino) in un gioco di ruolo bislacco quantomeno da altoborghesi tediati: un processo improvvisato con imputato a sorpresa. Al nostro, ignaro, “Brad Mayors”, toccherà il benemerito ruolo in questa sorta di ‘cena con delitto (da inventare? Da scoprire? Da trovare?)’: Giacinto Palmarini (Sfashion, Fuoco su di me).
A metà fra un Hugh Laurie e un Peter MacNicol, Palmarini è assai capace nell’opporre una fatua ma tenace difesa ai quattro grandi attori, di lungo corso, che lo serrano dappresso. Con le loro arringhe, infatti, i tetrarchi lo incalzeranno, lo illanguidiranno, lavorandoselo a poco a poco, ripulendolo, una sfoglia dopo l’altra, di ogni strato della sua civiltà da piccolo-borghese arrivato, petalo dopo petalo, fino al cuore nodoso nel quale affondare. Questi tre moschettieri, capitanati dal D’Artagnan d’occasione, un Nando Paone (con pizzetto d’ordinanza), in grandissimo spolvero, si avvicenderanno, fra un affondo e l’altro, fra una rampogna e una carezza, innaffiandolo di buon vino e rimpinzandolo di manicaretti, stringendo la loro tagliola verbale, un colpo dopo l’altro, sempre più stretta al cappio del nostro malaugurato uomo medio. Affabula, Vittorio Ciorcalo, nella doppia veste di narratore e testimone, massa oscura rannicchiata nel suo frac, spettrale oste subdolo dalla seconda professione, distaccato ma partecipe. Ad Alberto Fasoli il compito, nient’affatto facile, di fare da avvocato difensore, controcampo ideale del resto della troika, traccheggiando, un colpo al cerchio e uno alla botte, fra un incredulo imputato, irragionevole e un po’ tardo, e un terzetto in combutta e agguerrito di Cloto, Lachesi e Atropo che riavvolgono, sfilano e passano al pettine la lenza del destino del loro sventurato uomo comune. Stefano Jotti, impolverito da un manto di cipria che sembra polvere di canestrelli, un Fabrice Luchini travestito da Omino di Burro, sarà il Minosse che tirerà le fila finali. Con le sue falcate da gru travestita da pinguino, Nando Paone, profilo da Alf, azzimato spaventapasseri, agghindato come un Jack Skeletron, estorce, nel pallido plenilunio, prove e meschinità – il gaberiano squallore quotidiano – d’un uomo comune, che si presta bene a essere sfilettato, come un placido branzino zen. Nando Paone, Don Chisciotte per fisiognomica, troppo a lungo asservito all’angusto ruolo di caratterista (un po’ alla stregua del compianto Carlo Delle Piane), sul plancito del palcoscenico è Kurt Zorn (ira o collera in tedesco), in grado di snudare, con facilità, la sua anima da attore di fino, capace di lavorare di cesello sul suo personaggio, offrendosi, con la sua mimica da erede del miglior avanspettacolo napoletano, come calco da invasare. Se non è mattatore indiscusso, è solo per spirito di gruppo, e perché spalleggiato da un consesso di comprimari all’altezza, su cui Eugenio Bernardi è riuscito a spalmare, calmierando salomonicamente, oneri e meriti, battute e riflettori.
Nella scrittura de La panne. Una storia ancora possibile, Dürrenmatt voleva, con la sua penna puntuta come una folgore, ritrarre il piccolo mondo d’un ancor più piccolo borghese, afflitto da una miope vita spoliticizzata, improntata all’individualismo sfrenato e all’edonismo, alla pulsione di godimento dettato dai mass media, cui si omologa con piglio militaresco, in ottemperanza al dettame della società dei consumi che esige il possesso simbolico di uno status symbol che, alfine, lo possiede a sua volta: come la fiammante e superaccessoriata Studebaker, simbolo tangibile della sua rivalsa e della sua arrambante capacità di rampismo sociale negli affari, che gli si ritorcerà contro, perché proprio dalle sue panne deriverà un viaggio introspettivo verso quanto di ignoto ignora di sé.
Per uno scherzo del fato, proprio da quell’auto, letterale deus ex machina, di cui mena vanto, sarà ricostruita, a ritroso, la sua ascensione sociale. Perché dietro la scrivania d’ogni uomo di successo s’annida una pila di scheletri nell’armadio.
Dürenmatt non lavora solo di ideologia, tratteggiando un borghese che perviene (e noi con lui) alla coscienza del costo sociale, invisibile, della sua posizione, svergognando la sua patetica hybris, che verso niente di meglio ha saputo orientarlo se non a quella di rappresentante di commercio. L’autore svizzero, infatti, ci illustra, psicologicamente, un personaggio in rinascita, che abbraccia il suo destino, anche con le inevitabili conseguenze, e si scopre dentro un’interiorità di cui era cresciuto ignaro, un travaglio interiore di cui non aveva mai sospettato. E noi, con lui. Dalla parodia, dal gioco goliardico e grottesco, infatti, il testo ci conduce per mano (e gli attori veicolano con straordinaria bravura) ad affacciarci verso la vertiginosa spirale dell’animo umano, fra i picchi della giustizia (effettivamente, perdura e sopravvive, da qualche parte, una legge morale interiore, da cui discende il dostoevskiano desiderio di espiazione in un mondo che sembra premiare l’impunità) e i demoni interiori acquattati ma sempre pronti a scatenarsi, sobillati dall’impulso edonistico al godimento disinibito del benessere moderno, pragmatico, utilitarista. Non è un caso se il nostro protagonista, Alfredo Traps, è qualcosa di simile a un piazzista porta a porta, con la sua vita scialba, fatta di circolo ricreativo, moglie e pargoli a carico che vede fra un viaggio e l’altro, piccole scappatelle extraconiugali su sudaticci canapè d’altri (in ciò viene da fare il parallelo con la graphic novel di Seth, Clyde Fans, storia di una famiglia di grossisti di ventilatori, cui ha lavorato per vent’anni).
Passato al setaccio, sminuzzato, schiacciato contro il vetrino di Nando Paone (guance scavate alla De Filippo, maschera da commedia nera alla Antonio Rezza, volto arcinoto dai film con Bud Spencer fino all’... E fuori nevica del duo Salemme/Iacchetti, e molto altro ancora): “definitivo” eppure sempre empatico, carnefice mai tanto prossimo, solidale e affratellato alla sua vittima. Perché la conclusione, beffarda, cui giunge il nostro quartetto di arzille cariatidi azzeccarbugli col pallino del giustizialismo, morbosamente infatuati del piacere perverso che la toga investiva loro, è che il giuoco fra vittime e carnefici è, alla fine, amministrato dal solo caso, cui tutti soggiacciamo, impotenti nelle nostre manie di ordine, commi e cavilli. Contro il fato, nessuna giustizia privata può. E nemmeno contro il capitalismo cui il nostro Traps (figlio naturale di un marxista sfiduciato) è il figlio (putativo) diletto. Quello stesso che l'ha spinto a farsi squaletto, a rispondere un convinto ‘sì’, all’opposto del melvilliano Bartleby, ad aderire, pedissequo e ubbidiente ai dettami di un mondo regolato dall’unica legge vigente, altroché giustizia, altroché imperativo morale interiore: il soldo, simbolo dell’interesse privato, reincarnazione moderna di Mammona, al cui culto sono oggi tutti asserviti, alla cui ara si immola qualsiasi altro principio e valore, l’unico dio per il quale ancora si officiano sacrifici e riti.
La colpa di Traps, non meno étranger del Meursault camusiano (straniero, per primo, a se stesso) è la colpa di tutti/l’innocenza di nessuno, e davanti all’estinzione di ogni grande trascendenza, non esistono più giudici, avvocati o boia che tengano. A parte il giudizio di se stessi, nei rari casi in cui si è trafitti da un bagliore di autocoscienza. Allora, il giudice più implacabile, quando non è eternamente distratto in questi tempi di ricreazione sempiterna, superficialità e autistico individualismo, siamo noi stessi, e la più infallibile delle giustizie si conferma inverarsi, nuovamente, in quella più privata e intima: quella interiore.





La Panne
di Friedrich Dürrenmatt
traduzione Eugenio Bernardi
adattamento e regia Alessandro Maggi
con Nando Paone, Vittorio Ciorcalo, Patrizia Di Martino, Stefano Jotti, Alberto Fasoli, Giacinto Palmarini
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
installazioni video Alessandro Papa
assistente alla regia Francesco Morosi
assistente alla scene e ai costumi Francesca Tunno
direttore di scena Teresa Cibelli
elettricista Angelo Grieco
macchinista/attrezzista Marco Di Napoli
fonici Paolo Vitale, Diego Iacuz
sarta Roberta Mattera
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile Napoli – Teatro Nazionale
lingua italiano
durata 2h 15’
Napoli, Teatro Mercadante, 3 dicembre 2019
in scena dal 27 novembre all’8 dicembre 2019

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook