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Wednesday, 06 November 2019 00:00

Con Alessandra Asuni, nel suo scrigno del sacro

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Il teatro di Alessandra Asuni rappresenta un’esperienza dotata di una propria unicità. Il teatro di Alessandra Asuni è connessione tra cultura ancestrale, indagine antropologica e arte scenica. Il teatro di Alessandra Asuni è stato seguito e più volte raccontato su queste nostre pagine e ci torniamo ancora una volta, ora che il teatro di Alessandra Asuni sta scrivendo un nuovo capitolo della propria bibliografia (o meglio, teatrografia), raccontando di un momento di vita artistica, dello snodo di un percorso, di un passaggio significativo della propria poetica.

Ed è proprio da questo passaggio che mi piace partire, nel raccontare di Stanza segreta, visto a Spazio X quando ha chiuso la scorsa stagione del Teatro Civico 14 e rivisto – sempre a Spazio X – quando ha aperto la nuova. Mi piace partire da lì, perché in questa tempistica riscontro un che di simbolico, che ben s’attaglia alla circolarità del discorso che voglio provare a imbastire. Perché la circolarità è uno di quegli aspetti che, osservando gli spettacoli precedenti di Alessandra Asuni – in particolare Accabbai, Matrici e Sabi – rappresenta elemento peculiare dalla forte valenza simbolica, imperniandovi attorno un impianto scenico e concettuale che richiama (“evoca” sarebbe più corretto dire) un sentimento comunitario di condivisione – valoriale e memoriale – che affonda le proprie radici nelle tradizioni culturali sarde, ma contiene in sé l’universalità delle culture ataviche.
Ecco, con Stanza segreta siamo a un tempo davanti a una linea di continuità e a un momento di transizione: rispetto ai riti inscenati precedentemente – e concepiti come qualcosa che esuli da un semplice spettacolo per farsi vera e propria celebrazione condivisa – abbiamo un impianto scenico sostanzialmente classico (un’attrice in scena, una scenografia, rapporto frontale con il pubblico). Eppure, Alessandra Asuni compie questo cambio d’orizzonte (scenico) senza rinunciare al pregresso, ma anzi portandosi dietro (e dentro) l’essenza endemica del proprio teatro, della propria ricerca, del proprio vissuto peculiare e universale.
Non è un caso che, per Stanza segreta la Asuni abbandoni la lingua madre (il sardo, che affiora solo qua e là), in favore dell’italiano; non è un caso che però l’ambientazione resti profondamente sarda (e personale); e non è un caso che il racconto prenda le mosse da una storia – quella di Giuseppina Gonnella – che sarda non era, bensì salernitana, offrendo la possibilità di scorgere un apparentamento culturale fra patrimoni tradizionali geograficamente distanti, ma al contempo profondamente affini, tali da consentire di postulare una loro universalità.
Siamo in quella zona di confine, area grigia in cui sfuma labile il margine di demarcazione fra senso del sacro e creduloneria fideistica: siamo in un lungo decennio che va dalla fine degli Anni ’50 all’inizio dei ’70, Giuseppina Gonnella, in quel di Serradarce, in provincia di Salerno, aveva edificato sulla figura del nipote Alberto tragicamente scomparso (investito dal camion dello zio con una maldestra manovra) un culto incentrato sulla possessione – o presunta tale – per cui ogni mattina, alle 8:34, ora del decesso del nipote, questi parlava attraverso lei. Ne era nato un vero e proprio culto popolare, quello del “Glorioso Alberto”, una santificazione chiaramente non avallata dalla Chiesa ufficiale, ma anzi stigmatizzata e osteggiata. Ma ciò non aveva impedito che frotte di fedeli si riversassero quotidianamente nel “tempio” di Giuseppina a richiederle grazie e guarigioni. Fino a quando un uomo, Francesco Manganelli, per ragioni non del tutto chiarite, durante un “rito” della Gonnella, le sparò con un fucile a canne mozze. La “santona” morirà qualche giorno dopo all’ospedale di Eboli e con lei morirà anche il culto del Glorioso Alberto.
C’è un legame sotterraneo fra questa storia e l’immaginario antropologico della Asuni, ed è un filo sottile che lega la ricerca che l’artista sarda conduce da sempre sulle radici del sacro e del misterico, su quella zona d’ombra nebulosa in cui il raziocinio s’arresta alle soglie del soprannaturale. Perciò la “Stanza del Segreto” in cui Giuseppina officiava il suo rito intriso di paganesimo diventa la “stanza segreta” in cui Alessandra Asuni celebra il proprio pagano (ma autentico) rito del teatro. Mettendo in gioco se stessa, il proprio vissuto, la propria storia, la propria memoria famigliare e il tessuto socio-antropologico in cui è cresciuta.
Da questa porta d’ingresso accediamo alla “stanza segreta” di Alessandra, scrigno di storie e suggestioni che racchiude parte fondante dell’anima e dell’arte di questa donna capace di trasformare la materia informe e sfuggente del mistero in rituale di partecipazione collettiva; travalicando il senso del vero e del possibile, sublimandolo in una forma che va a toccare corde universali dell’umano sentire, ovvero quel principio misto (e mistico) di fascinazione e curiosità intriso di quel sottile timore reverenziale con cui di solito ci accostiamo a ciò che razionalmente non riusciamo a spiegare ma che pure ci appartiene, per essere stati ascoltatori e custodi di storie tramandate, di culti misteriosi e leggende imperscrutabili; e, infine, suscitando quel sommovimento profondo, emozionante: che siano spettacoli rituali o forme più aderenti alla convenzione teatrale, la forza della Asuni sta proprio in questa sua dote di creare una zona empatica in cui avviene l’incontro fra sé e lo spettatore. E questa empatia si rinnova, simile e diversa, in Stanza segreta.
La prima peculiarità che appunto osservando Stanza segreta, rispetto ai lavori precedenti della Asuni, è nella trasformazione del ruolo: da tramite demiurgico che celebrava un rito, qui non troviamo più la figura sciamanica senza nome che ci conduceva in una dimensione altra per accompagnarci e renderci partecipi di un mondo ignoto; in Stanza segreta troviamo Alessandra Asuni, col proprio nome e cognome, che ci apre le pagine della propria vita, simbolicamente evocate dal quaderno che costituisce il fondale scenico formando l’abbraccio di un triangolo, che s’istorierà progressivamente d’inchiostro e immagini in dissolvenza, ad ampliare lo spettro suggestionale di un ventaglio di stimoli visivi a far da corona alle parole recitate. In più, rispetto a quanto eravamo abituati a vedere, c’è in questo spettacolo un impianto scenotecnico – ottimamente curato da Alessandro Papa – che ne amplia la gamma dei linguaggi, aggiungendovi una componente tecnico-visuale che assume una funzione complementare al dettato poetico della Asuni, allargandone lo spettro espressivo, componendo sul fondo sequenze di immagini e foto che progressivamente sfumano e dissolvono come i ricordi che nel frattempo ella recupera e imprime presenti mediante il racconto; ritorna l’immagine delle mani giunte che si sfregano, appaiono immagini stilizzate di cacciagione, nebulose e fasci di luce: tutto concorre a costruire un amalgama fra parole, gesti e segni che si compone sulla scena in disegno teatrale composito.
Il che non vuol dire che Alessandra Asuni rinunci del tutto a quel suo ruolo “sacerdotale” di officiante di un rito; solo lo fa diversamente. E le stimmate di certa sua ritualità le ritroviamo nella concezione stessa di Stanza segreta, così come nella stessa struttura scenica. Basti pensare, tanto per cominciare, alla seggiola presente sul palco, che è la stessa di Accabbai (riferimento e legame forte a quel che è stato e che non cessa di permanere nel fundus artistico); e ancora: c’è una ritualità della narrazione che si struttura nelle tredici candele allineate in proscenio, ciascuna delle quali verrà accesa a far da innesco a ognuna delle storie che Alessandra racconterà. Storie che dicono della sua vita, della sua infanzia, di un mondo atavico e rurale, fatto di caccia al cinghiale e figure familiari che popolavano un microcosmo di affetti e misteri. Alessandra ci prende per mano e ci concede l’ingresso in quella che fu la sua stanza dei sogni, ci apre lo scrigno dei segreti del suo immaginario di bambina, uno scrigno simile a quella scatola di scarpe in cui era solita conservare le più belle piume d’uccello, come a volerle sottrarre all’ingiuria della morte inferta dal fucile da caccia paterno; stanza magica, che in sé condensa passato, presente e futuro, la Asuni ci concede l’accesso intessendo narrazioni di fatti di vita vissuta e reale, impregnati di un senso del sacro ora latente, ora affiorante; c’è un che di oracolare che permane nella narrazione ritualizzata da ogni accensione di candela, come un sogno vivificato, una memoria ripercorsa e offerta in condivisione: ‘Sono Alessandra, questa è la mia vita, questo è il mio mondo e ve lo offro in compartecipe visione’, sembrerebbe dirci questa funzione officiata senza i crismi formali del canone rituale, ma che continua a offrire ai sensi di chi assiste la percezione dell’ineffabile, non mostrato, non detto, ma evocato.  
Entra, narra, celebra. Sì, perché è ancora lì, sacerdotessa che officia il rito sacrale della propria vita, dono teatrale offerto in ostensione. Le tredici fiammelle scandiscono il tempo e i racconti. E c’è – rispetto allo stile consueto della rappresentazione, solitamente improntato alla solennità propria del mistico sacrale – il ricorso a una nota di leggerezza che stempera la narrazione, arricchendola di una vena ironica che esorcizza la paura della morte veicolata da film visti durante l’infanzia (quello sulla vita di Bernadette, Marcellino pane e vino e L’esorcista), o da figure fantasmatiche come la vecchia Maddalena di cui Alessandra credette di vedere l’ombra spettrale.
Ad arricchire la mistica sacrale c’è poi tutto un percorso numerologico: s’è già detto delle tredici candele; come pure tredici erano i partecipanti ad Accabbai, a Matrici, a Sabi e tre è numero ricorrente, della Trinità, certo, ma anche i trecentotrentatré scalini evocati da Sergio Atzeni (che del passato sardo ha fatto oggetto della propria scrittura), le cui parole si inscrivono sul quaderno scenico aperto alle spalle di Alessandra; e tre è anche il numero che racchiude l’essenza ciclica di nascita vita e morte, ed è per giunta numero che vediamo comparire rovesciato sul fondale scenotecnico, trasformato in stilizzate ali d’uccello.
È un  cerchio che si chiude, e si chiude in una danza sfrenata, circolare, recitando quelle stesse parole di Atzeni, in cui si conchiude l’essenza simbolica e profonda di Stanza segreta, che è come se  terminasse con un abbraccio, col corpo della Asuni che ruota, recita, accoglie tutti noi seduti in platea nel circolo magico del proprio microcosmo ancestrale. Il cerchio si chiude. Fino alla prossima volta, fino al prossimo rito, fino al prossimo bagliore con cui il senso del sacro illuminerà quel fremito misterico sospeso fra passato e presente, fra la vita e la morte.




leggi anche:
Michele Di Donato, Fecondo lucore (Il Pickwick, 30 gennaio 2013)
Caterina Serena Martucci, In silenzio e in punta di piedi (Il Pickwick, 2 giugno 2013)
Caterina Serena Martucci, Lievito madre (Il Pickwick, 24 settembre 2013)
Simona Perrella, L'arte dell'accabadora (Il Pickwick, 22 ottobre 2013)
Alessandro Toppi, Matrici, un rito. Prime riflessioni (Il Pickwick, 1° novembre 2014)
Maria Pia Dell'Omo, “Accabbai”, il dolore che si trasforma in pace (Il Pickwick, 7 febbraio 2016)





Stanza segreta

di e con Alessandra Asuni
drammaturgia delle immagini Alessandro Papa
produzione Mutamenti/Teatro Civico 14
lingua italiano, sardo
durata 1h
Caserta, Spazio X – Teatro Civico 14, 6 ottobre 2019
in scena 5 e 6 ottobre 2019

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