“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 24 October 2019 00:00

Se la vita è un uovo sodo

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Avvolto nel buio della sala, su un comune tappeto simil-persiano, vi è un tavolino posto di sbieco rispetto al pubblico, con dei piccoli oggetti. A terra vi è una scatola di cartone, una sedia, un’altra seduta. Tutto è illuminato da un fascio tagliente che proviene da una lampada che si trova su un alto treppiedi. È un piccolo nucleo luminoso in cui si inseriscono due personaggi comuni, vestiti con abiti dimessi, quotidiani, uno più anziano dalla lunga chierica canuta e dallo sguardo stralunato, l’altro più giovane, con la camicia scozzese e un liso giubbotto di pelle.

Il primo è probabilmente un rigattiere, ma in fondo non importa saperlo. Sta lavorando un piccolo pezzo di legno con un seghetto alternativo quando va a trovarlo l’altro, il poeta. Tra i due esiste un rapporto confidenziale che si intuisce sin dalle prime battute mentre si salutano e il più giovane, Marco, napoletano (l’attore Marco Manchisi), non si risolve ad andar via. Il buio torna in sala, poi ritorna la luce: è un’altra scena temporale. I due sono seduti attorno al tavolino. Marco ha i capelli dritti sulla testa e questa immagine inaspettata fa scattare la prima delle numerose risate del pubblico, eppure il suo sguardo smarrito stia verbalizzando una sofferenza interiore, un dolore che lui stesso definisce ligneo. Marco in fondo è un poeta e il suo dolore prenderà le parole di Rimbaud per raccontare questa sua angoscia indefinibile. Stefano (Stefano Vercelli), invece, con il suo romanesco gli ha appena letto i suoi bizzarri tarocchi e l’esito è infausto. Queste carte sono in realtà fotografie di immagini, dettagli, particolari da cui l’uomo parte per interpretare un futuro tutto immaginario, che volge però sempre al negativo anche quando la foto sembrerebbe bella come un sorriso, una panchina, una pendola. Esce sempre la Vecchia, la morte.
È un gioco e Stefano gioca. Il responso è sempre ironico, accentuato da quel cinismo tutto romanesco che provoca una risata veloce, rapida. Marco ricambia quegli infausti vaticini con una bottiglia di vino, con della mortadella, mentre gli fa vedere il suo orologio giapponese che segna stranezze poetiche come il “punto di rugiada 9”. Stefano sembra custode di grandi saggezze di vita: ”Il dolore è un muscolo allenato”, miste a una concretezza che spiazza Marco che cerca una definizione alla sua inquietudine. Si sente come “un eterno principiante ma senza quello stupore dell’innocenza”. Il tempo delle visite e delle letture dei bizzarri tarocchi è scandito dai frequenti e brevi momenti di buio che sintetizzano la vicenda dilatando il rapporto tra i due che muta spesso registro. Marco è preso dalle sue beghe quotidiane, surreale ed esilarante è la scena in cui è solo e parla al telefono cellulare in napoletano spiegando all’interlocutore come si cucina un uovo sodo e poi urla, con rabbia veemente, contro terzi che hanno a che fare con un avvocato. Esilarante è anche la scena in cui Stefano si propone anche come guru, come sacerdote sui generis che invoca Shiva e gli Hare Krishna, bruciando legnetti di Palo Santo per purificare l’aria e l’anima di Marco.
In questa fragile alternanza tra buio e luce, la vita si riduce a tentativi di conoscere il dolore che ci si porta dentro, a ricordi di un passato lontano, a un uovo sodo. Solo quando Marco saprà di avere un tumore troverà pace, si sentirà finalmente liberato, potrà fare progetti sulla fine del suo corpo continuando a parlare della banalità di cui è costellata l’esistenza. In scena resta un dolore interiore tutto esistenziale, benché fisico, di cui non ci si dà pace finché non lo si definisce in qualche modo, da curarsi con insolite strategie, con discorsi non sense e teorie variopinte fino al momento in cui si arriva “al punto di rugiada 9”, preferibile al tempo frazionabile e misurabile. Si dissipano la disperazione, la tristezza, la paura. Buio. Luce. Ecco di nuovo Stefano, stavolta da solo, seduto al posto dell’altro che interroga le carte alla ricerca di un motivo, del solito perché. Stavolta non riesce a capirle, sembra non saperle leggerle più. Poi esce la Vecchia, che nei tarocchi è l’Arcano maggiore 13, la Morte.
La vecchia è, come la definiscono le note di regia, una “commedia malincomica” della drammaturga Rita Frongia e fa parte di una trilogia chiamata “del tavolino”, insieme a La vita ha un dente d’oro e Gin Gin perché i personaggi di queste pièce siedono intorno a un tavolino cercando di allontanare la morte parlando della vita con leggerezza. La drammaturgia della Frongia è interessante perché centra tutta la sua arte, che è notevole, sul ruolo dell’attore che reputa fondamentale rispetto a tutte le altre componenti di ciò che si considera teatro. Per questo lascia ampio margine all’improvvisazione dell’attore, alla recita a soggetto, che non è istrionicità o approssimazione, ma l’aspetto fondante e creativo che si stabilisce nelle relazioni e nelle interazioni tra gli attori. Stefano Vercelli e Marco Manchisi non sono solo due attori dal curriculum artistico solido ed eccezionale, ma sono in perfetta sintonia sulle tavole del palcoscenico, hanno creato un ritmo scenico sulla gestualità e la prossemicità su cui innestare quei dialoghi che solo la bravura della recita a soggetto può creare. Ad esempio Stefano Vercelli con quella riflessione visionaria sulla mortadella, quando si figura i tondini bianchi di grasso che si mettono in fila per andare a ostruire le arterie per provocare un ictus, merita applausi a scena aperta. L’improvvisazione diventa il fulcro dei testi della Frongia perché il teatro diventa unico (verrebbe da aggiungere che quello “è” il teatro) solo nel momento in cui si realizza, che vive solo di quel tempo e di quel momento e che non potrà più essere replicato, anzi che tornerà a vita nuova ogni volta che è riportato sulla scena. 
Tutto ciò è perfettamente creato, come processo che fa nascere dal nuovo, nella sala di Officina Teatro di San Leucio che propone ormai da anni spettacoli di altissima qualità e fattura e a cui si deve dare merito di aver portato questo testo e questi attori sulla scena campana. 





La vecchia
commedia malincomica

di Rita Frongia
regia Rita Frongia
con Stefano Vercelli, Marco Manchisi
produzione Artisti Drama (MI)
lingua italiano
durata 1h
San Leucio (CE), Officina Teatro, 19 0ttobre 2019
in scena 19 e 20 ottobre 2019 

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